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Cronaca Nera

Garlasco, la nuova perizia della difesa Stasi: “Sull’impronta 33 c’è sangue, è di Sempio”

Secondo la relazione firmata da Ghizzoni, Linarello e Ricci, la famosa impronta 33 sarebbe compatibile con il palmo di Andrea Sempio e conterrebbe tracce di sudore misto a sangue. Una ricostruzione che riaccende lo scontro con i periti della famiglia Poggi e con quelli dello stesso Sempio, e che potrebbe cambiare gli equilibri dell’indagine.

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    Torna al centro del caso Garlasco l’impronta numero 33, la stessa che secondo i consulenti della Procura sarebbe compatibile con il palmo di Andrea Sempio. Ma la novità, ora, è un’ulteriore perizia depositata dalla difesa di Alberto Stasi che rilancia: quella traccia sarebbe intrisa di sangue misto a sudore.

    È quanto sostengono Oscar Ghizzoni, Pasquale Linarello e Ugo Ricci, i consulenti nominati dagli avvocati Giada Bocellari e Antonio De Rensis, legali di Stasi. Nella loro relazione, la 33 viene definita un’impronta “frutto di un contatto palmare intenso”, ovvero esercitato con forza sul muro durante un movimento anomalo, “non compatibile con una semplice discesa delle scale”. A rafforzare la tesi, ci sarebbero “accumuli più scuri” e un alone compatibile con materiale biologico.

    Non potendo più analizzare l’intonaco originale (asportato e trattato nel 2007 dal Ris), i tre esperti hanno ricreato in laboratorio le condizioni dell’epoca. Hanno spalmato sangue e sudore su muri simili, trattandoli con gli stessi reagenti: ninidrina, Combur e Obti test. Secondo i consulenti, la ninidrina avrebbe “inibito ogni reazione positiva”, mascherando la presenza del sangue. Ma i risultati fotografici sarebbero compatibili con quanto visto sul muro della villetta Poggi.

    Conclusione: quell’impronta, per la difesa Stasi, sarebbe di Andrea Sempio, e sarebbe stata lasciata con una mano non pulita. Un risultato opposto a quello raggiunto dai consulenti della famiglia Poggi, che parlavano di “appoggio veloce” e nessuna traccia ematica, e da quelli dello stesso Sempio, che riducono la validità dell’impronta a sole cinque minuzie.

    L’avvocata Angela Taccia, che difende Sempio insieme a Massimo Lovati, replica serena: “È solo una consulenza di parte. Nulla è stato accertato. Restiamo fiduciosi”.

    Ma la battaglia sulla 33 è tutt’altro che finita. Anche se il gip ha escluso la traccia dall’incidente probatorio, gli inquirenti hanno ora sul tavolo un nuovo elemento. E quella macchia sul muro potrebbe ancora dire molto.

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      Allarme serial killer: a Montecatini spuntano nuove ossa. Quante donne ha ucciso Vasile Frumuzache?

      Frammenti di ossa e indumenti femminili sono stati rinvenuti nei pressi del casolare di Vasile Frumuzache, in provincia di Pistoia. L’uomo ha ammesso l’omicidio di Denisa Maria Paun e Ana Maria Andrei, ma nega altre uccisioni. Gli inquirenti sospettano l’esistenza di una terza vittima e di un possibile complice. Intanto Frumuzache è stato trasferito in una struttura protetta dopo un’aggressione subita in carcere.

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        Potrebbe esserci una terza vittima. E forse anche un complice. È quanto ipotizzano gli investigatori che indagano su Vasile Frumuzache, 32 anni, noto come il “killer delle escort”, reo confesso di due omicidi: quelli di Denisa Maria Paun e Ana Maria Andrei, uccise tra Pistoia e Prato.

        Ma i nuovi elementi trovati nei pressi della sua abitazione a Montecatini Terme potrebbero allargare ulteriormente il quadro. In un campo vicino al casolare in cui viveva l’uomo, sono stati scoperti frammenti di ossa umane e slip femminili. Gli esami del DNA hanno escluso che appartengano a Denisa o Ana Maria. Il che apre uno scenario inquietante: chi è la donna a cui appartenevano quei resti?

        Le indagini, condotte parallelamente dalle procure di Pistoia e Prato, si avviano verso la conclusione ma restano molti punti oscuri. Frumuzache ha confessato il primo omicidio e poi, in un secondo interrogatorio, anche il secondo. Ma ha sempre negato di aver ucciso altre donne.

        Gli inquirenti, tuttavia, non gli credono del tutto. Ritengono possibile che non abbia agito da solo e che qualcuno lo abbia aiutato a occultare i cadaveri. L’obiettivo è ora dare un nome ai resti ritrovati, mentre si verifica la compatibilità con denunce di scomparse recenti nel Centro Italia.

        Dopo l’arresto, Frumuzache è stato rinchiuso nel carcere di Prato. Ma è rimasto lì poco: l’ex fidanzato di una delle due vittime lo ha aggredito in cella, gettandogli olio bollente sul volto. L’uomo ha riportato ustioni di primo e secondo grado. Per questo motivo è stato trasferito in una struttura protetta.

        Attraverso il suo avvocato, Diego Capano, Frumuzache ha rinunciato al Riesame e resta in custodia cautelare. Ma il sospetto che il suo elenco di vittime non si fermi a due, non fa dormire sonni tranquilli agli inquirenti. E forse nemmeno a chi lo ha conosciuto davvero.

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          Mostro di Firenze, la verità nel sangue: il Dna di Natalino riapre la pista sarda

          Un esame del Dna compiuto a 56 anni di distanza riscrive le origini del primo delitto di Signa, quello da cui tutto è cominciato. Natalino, il bambino di sei anni sopravvissuto alla strage, è figlio del maggiore dei Vinci. La procura ha notificato l’esito al diretto interessato, che non ha mai conosciuto l’uomo. Ma ora, il clan sardo torna prepotentemente in scena.

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            Ci sono casi che non muoiono mai. Si addormentano, sembrano svanire nell’archivio della memoria collettiva, e poi riemergono. Basta un dettaglio. Una prova. Una goccia di sangue che racconta un’altra storia. Come nel caso del Mostro di Firenze, dove ogni certezza è provvisoria, ogni verità è una mezza verità. E ogni tanto, come adesso, arriva qualcosa che manda tutto in pezzi.

            Questa volta è il Dna. Un accertamento genetico disposto dalla procura ha stabilito che Natalino Mele, il bambino di sei anni e mezzo che nel 1968 scampò a un duplice omicidio a Signa, non è figlio di Stefano Mele, il manovale condannato in via definitiva per l’omicidio della moglie, Barbara Locci, e del suo amante, Antonio Lo Bianco. Il padre biologico di Natalino è Giovanni Vinci, fratello maggiore di Francesco e Salvatore, i due sardi per anni sospettati, arrestati, rilasciati, indicati come possibili membri del famigerato “clan” che avrebbe dato origine alla catena di sangue che terrorizzò la Toscana fino al 1985.

            Ma Giovanni no. Lui è sempre rimasto ai margini. Mai un avviso di garanzia, mai un interrogatorio, mai una convocazione. E invece era l’amante della Locci. Era il padre di quel bambino. Era, forse, più dentro di quanto chiunque abbia mai sospettato.

            La scoperta è stata notificata nei giorni scorsi proprio a Natalino. Che oggi è un uomo, e che, raggiunto dai giornalisti, ha detto con onestà disarmante: «Non l’ho mai conosciuto. Non so chi sia». La scoperta arriva grazie al lavoro del genetista Ugo Ricci, esperto di cold case già noto per il suo ruolo nell’indagine sul delitto di Garlasco.

            Ora, la domanda torna, più inquietante che mai: chi ha risparmiato quel bambino? E perché?

            Quella notte del 21 agosto 1968, Natalino fu trovato ore dopo l’omicidio in un casolare a due chilometri dalla scena del crimine, con i calzini puliti e nessuna traccia di fango o sangue addosso. Disse di essersi svegliato al buio e di aver camminato. Ma oggi quell’immagine, già fragile, sembra crollare del tutto.

            Forse qualcuno lo portò lì, forse lo conosceva, forse sapeva di chi era figlio, forse non volle ucciderlo per un motivo preciso. Forse.

            Perché ora, con la conferma che Stefano Mele non era il padre biologico del bambino, tutto quel castello crolla. Mele fu accusato, condannato, dichiarato inaffidabile, e per questo anche scagionato in parte. Ma oggi si scopre che non era nemmeno il padre del piccolo. E quindi? Era davvero lui il carnefice? O un capro espiatorio, sacrificato in nome di qualcosa di più grande?

            La pista sarda, a questo punto, non è più un’ipotesi. È un ritorno. Un riavvolgere il nastro fino al principio. Francesco e Salvatore Vinci, già nel mirino degli inquirenti, erano amanti abituali della Locci. La donna, affascinante, inquieta, e ben nota in paese, era al centro di un piccolo universo di uomini che la desideravano e la possedevano. Giovanni, ora si scopre, era uno di loro. Il primo. Forse il più vicino.

            E l’arma? Quella Beretta calibro 22 con silenziatore artigianale che uccise Barbara e Antonio? Non fu mai trovata. Ma tornò. Sei anni dopo, nel 1974, con l’omicidio di Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, e poi ancora, sempre con la stessa firma: colpi alla testa, corpi mutilati, una scenografia dell’orrore.

            È lecito allora chiedersi: quel primo delitto fu davvero isolato? O fu la prova generale? L’inizio di qualcosa di più grande, feroce, pianificato?

            In questa nuova luce, Natalino Mele non è solo la vittima mancata. È il punto zero di una storia che ci riguarda ancora. Perché in lui si incrociano il sangue delle vittime, i silenzi degli assassini, le omissioni di chi non volle vedere.

            E se Giovanni Vinci, fino a oggi solo un nome tra tanti, era davvero il padre biologico, allora il mostro aveva un volto più vicino di quanto si sia mai voluto ammettere.

            Le indagini proseguono. Ma come sempre, nel caso del Mostro di Firenze, ogni verità porta con sé nuovi dubbi. Ogni certezza si sbriciola sotto i colpi del tempo. E ogni passo avanti sembra riportarci sempre allo stesso punto: a una notte d’estate, a un bambino con i calzini puliti, a due corpi freddi su un sedile d’auto. E a un orrore che non ha ancora finito di parlare.

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              Confermato dal DNA: Francis Kaufmann è il padre della piccola Andromeda trovata morta con Anastasia a Villa Pamphili

              La Procura indaga su un duplice omicidio aggravato. L’autopsia non ha ancora chiarito le cause della morte di Anastasia Trofimova, ma l’ipotesi del soffocamento resta in piedi. Intanto Francis Kaufmann, detenuto a Rebibbia dopo l’estradizione dalla Grecia, ha scelto di non rispondere alle domande del gip

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                L’esame del DNA ha tolto ogni dubbio: Francis Kaufmann è il padre biologico di Andromeda, la bambina trovata senza vita accanto alla madre, Anastasia Trofimova, lo scorso 7 giugno a Villa Pamphili, nel cuore di Roma. A stabilirlo è stato il test genetico disposto dai pm della Procura capitolina, che indagano per duplice omicidio aggravato, con l’obiettivo di ricostruire quanto accaduto nelle ore precedenti alla tragedia. A coordinare le indagini è il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini.

                Kaufmann, 49 anni, detenuto nel carcere romano di Rebibbia dopo l’estradizione dalla Grecia, si è avvalso della facoltà di non rispondere durante l’interrogatorio di garanzia. Nessuna parola, nessuna dichiarazione, nessuna ammissione o tentativo di spiegazione. Un silenzio pesante, che non fa che aumentare il mistero su un caso che ha scosso l’opinione pubblica per la sua crudeltà e per le troppe ombre ancora presenti.

                La Procura attende ora l’esito degli esami istologici disposti dopo l’autopsia eseguita sul corpo di Anastasia presso l’Istituto di Medicina Legale dell’Università Cattolica. Serviranno ancora alcune settimane, ma l’ipotesi che la donna, originaria della Siberia, sia stata soffocata, resta al centro delle indagini. I primi risultati non sono bastati a stabilire con certezza le cause del decesso, rendendo necessari ulteriori accertamenti microscopici sui tessuti.

                I corpi di madre e figlia erano stati trovati in un angolo appartato del grande parco romano, in una zona poco frequentata e lontana dai viali principali. Accanto a loro, Francis Kaufmann. I primi rilievi e le testimonianze raccolte parlano di una scena agghiacciante, con elementi che hanno fatto subito pensare a un gesto estremo. Ma la presenza di segni sospetti sul corpo di Anastasia ha aperto una pista alternativa, portando la Procura ad escludere l’ipotesi dell’omicidio-suicidio.

                Kaufmann era stato rintracciato in Grecia e bloccato grazie a un mandato di arresto europeo. La sua estradizione in Italia è avvenuta nel giro di pochi giorni. L’uomo, che per un periodo ha vissuto con Anastasia, era scomparso da tempo dalla vita della donna. La loro relazione, secondo quanto emerso finora, era conflittuale, con episodi di tensione e distacco. Nonostante questo, l’uomo avrebbe continuato a rivendicare un ruolo nella vita della figlia.

                Le indagini proseguono a ritmo serrato. Al momento non ci sono altri indagati, ma gli inquirenti non escludono nessuna pista. La conferma della paternità potrebbe ora aprire nuovi scenari investigativi, soprattutto legati al movente e alle eventuali responsabilità dirette di Kaufmann nella morte di Anastasia e Andromeda.

                Il caso è destinato a restare al centro dell’attenzione pubblica ancora a lungo. Troppe le domande senza risposta, troppe le vite spezzate senza giustizia. Ma un tassello ora è stato messo al suo posto: Kaufmann era il padre. Ora bisogna capire se è anche l’assassino.

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