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Cronaca Nera

Garlasco, l’ombra di una nuova impronta: il delitto di Chiara Poggi diventa un enigma senza fine

La misteriosa impronta sarebbe apparsa sul primo gradino della cantina, rilevata grazie a tecnologie avanzate mai usate prima. Il legale di Sempio, l’unico indagato, parla di un sogno “rivelatore” e accusa: «Ci trattano come Don Chisciotte contro i mulini a vento».

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    Diciotto anni dopo l’omicidio di Chiara Poggi, il delitto di Garlasco continua a generare colpi di scena degni di un thriller. E stavolta non si tratta di suggestioni mediatiche, ma di una nuova impronta di scarpa, mai repertata prima, che riapre interrogativi profondi sul giorno dell’assassinio.

    A darne notizia è Il Tempo, che riporta gli esiti dell’ultima ricognizione scientifica dei Ris di Cagliari e del Racis di Roma, intervenuti sulla scena del crimine con tecnologie d’avanguardia: laser scanner 3D e intelligenza artificiale per una nuova mappatura dei luoghi. Sul primo gradino che porta alla cantina — lo stesso lassassino ha colpito Chiara a morte il 13 agosto 2007 — sarebbe stata rilevata un’orma dalle linee geometriche: tre segni paralleli e regolari, distanti tra loro in modo simmetrico. Una traccia mai rilevata, mai fotografata, mai descritta nei verbali di allora.

    La professoressa Luisa Regimenti, medico legale dell’Università di Tor Vergata, interpellata dal quotidiano romano, ha definito quella forma «un’immagine figurata lasciata da un agente esterno», forse compatibile con un’impronta lasciata sul sangue ancora fresco. Un dettaglio che, se confermato, potrebbe mettere in discussione tutto l’impianto accusatorio, o quanto meno suggerire la presenza di un’altra persona sulla scena del delitto.

    Nel frattempo, alla vigilia del maxi incidente probatorio previsto per lunedì 17 giugno, Andrea Sempio — amico di Chiara e da mesi al centro di nuove indagini — torna nell’occhio del ciclone. Il suo legale, l’avvocato Massimo Lovati, continua a denunciare l’assurdità dell’impianto investigativo: «Noi siamo come Don Chisciotte contro i mulini a vento», ha detto ai giornalisti fuori da Quarto Grado. «Questa è un’inchiesta insidiosa, e il presunto concorso nell’omicidio di Chiara è solo una diavoleria creata per rilanciare accuse infondate».

    Poi, con tono che oscilla tra ironia e sfida, ha lanciato un’altra frecciata: «Ho sognato che nel Fruttolo c’era il dna del mio assistito. Poi ognuno può interpretare come vuole». Un riferimento surreale, ma tutt’altro che irrilevante: proprio un vasetto di Fruttolo, ritrovato nella cucina della villetta, è tra i reperti analizzati nel nuovo incidente probatorio. La procura vuole vederci chiaro: tracce biologiche, impronte, dettagli che per anni sono rimasti in ombra ora saranno passati al microscopio.

    Tutta la casa di via Pascoli sarà ricostruita in digitale, metro per metro. L’obiettivo è uno solo: stabilire la compatibilità tra la scena del crimine e le nuove ipotesi avanzate dagli investigatori. E in quel quadro, ogni nuova traccia — soprattutto se mai rilevata prima — può diventare un elemento destabilizzante.

    Intanto, resta l’enigma di un delitto che sembra non voler trovare pace. Mentre l’unico condannato in via definitiva, Alberto Stasi, sconta la sua pena, l’ombra lunga di una verità forse mai davvero emersa si allunga di nuovo su Garlasco. E quella misteriosa impronta potrebbe diventare il simbolo stesso di un processo infinito.

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      Cronaca Nera

      “Lo scopo dell’avvelenamento era l’aborto, non l’omicidio di Giulia Tramontano”: le motivazioni della sentenza su Impagnatiello

      Per i magistrati l’avvelenamento con topicida serviva a provocare la perdita del feto, che l’uomo considerava un ostacolo alla sua vita e alla sua carriera. Nessuna prova di un piano omicida coltivato nel tempo: il proposito di uccidere Giulia sarebbe maturato poche ore prima del delitto, dopo l’incontro tra la giovane e l’altra donna con cui il barman aveva una relazione.

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        Lo scopo dell’avvelenamento non era l’omicidio di Giulia Tramontano ma “l’aborto del feto”. Così scrive la Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza che ha confermato l’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, escludendo però la premeditazione. Secondo i giudici, l’ex barman aveva individuato nel bambino che Giulia portava in grembo “il problema” da eliminare per proteggere la sua carriera e la sua vita privata.

        Il verdetto chiarisce che “non vi sono prove” per retrodatare l’intento omicida rispetto al 27 maggio 2023, giorno in cui la giovane fu uccisa. Le 59 pagine depositate spiegano che, pur riconoscendo la crudeltà e il vincolo della convivenza, non si può parlare di un piano coltivato nel tempo. Il proposito omicida sarebbe maturato solo nel pomeriggio del delitto. Quando Impagnatiello si rese conto che Giulia e l’altra donna con cui aveva una relazione si erano incontrate, scambiandosi confidenze.

        Alle 17 l’uomo lasciò il lavoro all’Armani Hotel e rientrò in motorino a Senago. Due ore dopo, quando Giulia mise piede nell’appartamento, fu aggredita e colpita con 37 fendenti, 11 dei quali mentre era ancora viva. Un arco temporale giudicato “troppo breve” per configurare la premeditazione. Assente anche in quelle che la Corte definisce “azioni neutre”, come il rincasare e attendere la convivente.

        Per i magistrati Impagnatiello non ha ucciso la compagna perché lei voleva lasciarlo o per timore di controversie giudiziarie future. La molla, si legge, fu l’umiliazione subita quando la donna lo smascherò davanti a chi rappresentava, per lui, la sua “proiezione pubblica”: il palcoscenico del bar milanese dove lavorava. Un colpo insopportabile per il suo narcisismo.

        La sentenza conferma l’ergastolo, ma esclude la premeditazione che la sorella di Giulia, Chiara, aveva invocato pubblicamente. Resta così un verdetto che sottolinea la brutalità del gesto, ma delimita il contesto in cui maturò, senza riconoscere un piano elaborato in anticipo.

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          Cronaca Nera

          Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer

          Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

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            Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.

            Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.

            La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.

            Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.

            Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.

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              La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste

              Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

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                Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

                Testo
                «Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.

                La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.

                A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.

                Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.

                Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.

                Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.

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