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Cronaca Nera

Garlasco, spunta una nuova speranza: l’impronta 33 potrebbe non essere stata distrutta

Nel caos degli archivi giudiziari, potrebbe esserci ancora il reperto chiave che anni fa fu escluso per limiti tecnici. Ora, però, la scienza potrebbe dire altro. Se fosse recuperato, l’analisi del Dna residuo potrebbe riscrivere la storia del delitto di Garlasco. E se non si trovasse? Scatta il piano B: documenti e testimonianze per ricostruire il destino del “campione 33”.

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    Non è stato ancora ritrovato, ma nemmeno distrutto. E questo, nel gorgo di un caso mai davvero chiuso come quello del delitto di Garlasco, è già una notizia. Il campione di intonaco con impressa quella che gli inquirenti chiamavano “impronta 33” – una traccia di palmo compatibile con Andrea Sempio – potrebbe essere ancora da qualche parte. Non nei faldoni, ma fisicamente, negli archivi della giustizia. Magari sepolto sotto anni di scatolette numerate e prove dimenticate, ma non eliminato.

    Secondo quanto riportato da Repubblica, la Procura di Pavia non ha rinvenuto alcun atto che certifichi lo smaltimento ufficiale del reperto. E anzi, in un verbale tecnico datato 4 settembre 2007, si legge che la conservazione dei campioni era “buona”, non soggetta a degradazione naturale, e che si sarebbe dovuto distruggere solo quanto non necessario, conservando “quota parte del substrato merceologico”. Tradotto: quell’intonaco con l’impronta potrebbe esser stato salvato, almeno in parte.

    È il classico colpo di scena da thriller investigativo: l’oggetto considerato inutile all’epoca, scartato per l’inaffidabilità delle tecniche dell’epoca, oggi potrebbe invece parlare. E dire, magari, cose molto diverse.

    Il nodo è sempre lo stesso: a chi appartiene quell’impronta lasciata sul muro della scala che porta al luogo del delitto? All’epoca, nessuna corrispondenza certa. Ma oggi, con le nuove tecnologie forensi, si potrebbe verificare se sotto i reagenti utilizzati nel 2007 esistano ancora residui biologici: particelle di sangue, sudore, pelle. In breve, Dna. E da lì, un nome.

    Quel nome, secondo l’ultima consulenza di parte depositata in Procura, potrebbe essere proprio Andrea Sempio, amico di Chiara Poggi. La sua impronta – o per lo meno una compatibile – sarebbe già emersa in altri frammenti raccolti sulla scena del crimine. Ora, se davvero il “campione 33” esiste ancora, si potrebbe estrarre da lì una nuova verità.

    E se invece non si trovasse? Se fosse stato buttato, nonostante tutto? In quel caso – sempre secondo Repubblica – scatterebbe il “piano B” della Procura: recuperare tutta la documentazione dell’epoca, i rapporti tecnici, i verbali, le foto e soprattutto ascoltare chi allora partecipò all’analisi del campione. Per capire cosa fu davvero fatto, e perché.

    Nel frattempo, la prossima data cruciale è fissata: 17 giugno, Tribunale di Milano. Quel giorno si terrà l’incidente probatorio voluto dalla Procura, che ha incaricato un pool di esperti di verificare i profili genetici prelevati dai margini ungueali delle mani di Chiara Poggi. Si tratta di quelle minuscole tracce biologiche – invisibili a occhio nudo – che si accumulano sotto le unghie quando si cerca di difendersi, o si entra in contatto violento con qualcuno.

    Secondo una consulenza difensiva, quei profili appartengono ad Andrea Sempio. Ora toccherà ai periti confermare, o smentire. E insieme a loro, si lavorerà su altri oggetti rimasti ancora non analizzati, come i para-adesivi usati per rilevare impronte e tracce nella villetta di via Pascoli.

    Tutto ruota attorno a un vecchio campione di intonaco che sembrava dimenticato. Se salta fuori, potrebbe riaprire completamente l’indagine sul delitto che il 13 agosto 2007 ha sconvolto l’Italia. E rimettere in discussione ciò che finora sembrava scritto.

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      Il video segreto di Chiara: un nuovo tassello nel giallo di Garlasco

      Il settimanale Giallo riporta una testimonianza finora ignorata: Marco Poggi avrebbe visto una chat in cui si accennava a un video hard tra la sorella Chiara e il suo fidanzato. Quella conversazione era salvata nel computer di casa, lo stesso dove giocavano i ragazzi del gruppo, compreso Andrea Sempio. Un dettaglio che, alla luce delle nuove indagini, riapre scenari rimossi. E spuntano anche quattro slip mai repertati.

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        Un anno prima della morte di Chiara Poggi, nel computer di casa, c’era un file. Non era un documento scolastico né una canzone scaricata da eMule: era un video privato, un contenuto intimo condiviso tra la ragazza e il fidanzato Alberto Stasi. Un dettaglio che all’epoca venne verbalizzato, ma che nel tempo è stato dimenticato o lasciato sullo sfondo. Oggi però quella vecchia dichiarazione di Marco Poggi, fratello della vittima, torna al centro dell’attenzione grazie a un’inchiesta del settimanale Giallo, che rilancia l’interrogativo: chi ha visto quel video? E se qualcuno lo ha visto, cosa ha pensato?

        Il fratello della vittima venne ascoltato dai carabinieri il 18 ottobre 2007, due mesi dopo il delitto. Durante l’interrogatorio raccontò che circa un anno prima dell’omicidio si era imbattuto in una chat salvata sul pc di Chiara, da cui si evinceva l’esistenza di un filmato intimo tra la sorella e il fidanzato. Una scoperta che lo colpì molto, tanto da rimanergli impressa. Ma quel computer non era chiuso a chiave né sotto controllo. Era il pc di casa, dove Marco passava ore giocando con gli amici. E tra quegli amici c’era anche Andrea Sempio.

        Il computer di casa, usato da tutti

        I videogiochi, le risate, le serate tra ragazzi. Quel computer era al centro della vita quotidiana dei fratelli Poggi. Nessuna password, nessun blocco. I file personali e i salvataggi erano accessibili a tutti. Il video era ancora lì quando Chiara è stata uccisa? E se sì, qualcuno lo ha visto di nascosto? La possibilità non è remota. Andrea Sempio, oggi tornato al centro delle attenzioni degli inquirenti, era un frequentatore abituale della casa, come dimostra la sua impronta palmare trovata sul portone. Un dato che inizialmente fu trascurato, ma che oggi – dopo 18 anni – assume ben altro peso.

        Secondo quanto riportato da Giallo, la domanda che gli investigatori avrebbero dovuto porsi è semplice quanto scomoda: se uno dei ragazzi avesse visto quel video, avrebbe potuto sviluppare un’ossessione? O magari un desiderio morboso, distorto, inconfessabile?

        Il contesto è delicato, e l’ipotesi non vuole scadere nel sensazionalismo. Ma è lecito – anzi, doveroso – interrogarsi su tutto ciò che è stato ignorato o archiviato troppo in fretta. Come un altro dettaglio, agghiacciante, rimasto senza spiegazioni.

        Gli slip sul divano: mai repertati

        Il giorno dell’omicidio, sul divano di casa Poggi, venne ritrovato un sacchetto con quattro paia di slip usati. In una foto esclusiva pubblicata da Giallo, si vedono gli indumenti tolti dal sacchetto e adagiati uno a uno sul divano, prima ancora di essere imbustati o conservati come prova. Nessuna analisi, nessuna ricerca di tracce biologiche, nessuna voce nel registro dei reperti. Come se non fossero mai esistiti.

        Eppure, in una scena del crimine in cui si cerca di ricostruire la dinamica dell’assassinio di una ragazza appena uscita dalla doccia, la presenza di indumenti intimi usati dovrebbe accendere mille campanelli d’allarme. Invece niente. Nessun riscontro, nessun approfondimento.

        Quel sacchetto resta uno dei tanti misteri irrisolti della casa di via Pascoli. Gli investigatori dell’epoca decisero di concentrarsi su Alberto Stasi, compagno della vittima e unico indagato. Una linea investigativa che portò alla sua condanna in via definitiva nel 2015, ma senza la certezza di aver sviscerato ogni dettaglio utile alla verità.

        La pista Sempio e le nuove domande

        Oggi, con la riapertura mediatica del caso e l’attenzione crescente attorno alla figura di Andrea Sempio – amico del fratello di Chiara, presente spesso nella villetta di Garlasco – tornano a galla le omissioni. Come la mancata analisi dei bigliettini trovati nella spazzatura, alcuni scritti a mano, con dichiarazioni d’affetto che sembrano firmate proprio da lui. O come l’impronta palmare, a lungo ignorata, che oggi è un elemento acquisito nel fascicolo.

        Chi indaga si chiede: c’è un collegamento fra il video, gli indumenti e la presenza di Sempio in casa? È possibile che proprio quella combinazione di informazioni – la scoperta della sfera sessuale di Chiara, l’accesso indiscriminato al computer, la sua intimità violata – abbia innescato una fantasia perversa sfociata in violenza?

        Sono domande che inquietano, ma che non si possono più evitare. Perché a distanza di 18 anni, l’impressione è che qualcosa di importante sia stato lasciato indietro, e che la verità, quella vera, sia ancora sepolta dietro reticenze, disattenzioni e scelte processuali affrettate.

        Chi ha ucciso Chiara Poggi? La risposta ufficiale c’è già. Ma forse non è ancora quella definitiva.

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          Sollecito al veleno: “I magistrati? Dovrebbero provare il carcere”

          Dall’interrogatorio di Amanda Knox con la “poliziotta medium” al campione di sperma mai analizzato: Raffaele Sollecito torna sul delitto di Perugia e accusa apertamente inquirenti e giudici. “Se quella traccia fosse stata attribuita subito a Guede, tutto sarebbe finito in due giorni”. E su Garlasco: “La tecnologia può ribaltare verità costruite male”

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            Il tono è pacato, ma le parole tagliano. Raffaele Sollecito è seduto nel salotto di “Pulp Podcast”, accanto a Fedez e Mr. Marra, e racconta senza giri di parole cosa significhi finire in cella da innocente. “Quattro anni dentro – dice – sono un’esperienza che ti marchia. Ma forse servirebbe anche ai magistrati. Per capire chi davvero si trova dietro le sbarre”. Una frase che suona come una sfida, una vendetta fredda, servita con anni di ritardo.

            Era il 6 novembre 2007. Raffaele aveva appena 23 anni, una tesi di laurea da discutere e una relazione fresca con Amanda Knox. Il giorno dopo, si ritrova in stato d’arresto, accusato dell’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. “Avevo la coscienza pulita – dice ora – e mai avrei immaginato di finire in quell’incubo. La notte prima dell’arresto avevo fumato un po’ di erba, Amanda era fragile. Ma da lì in poi si è attivato un tritacarne.”

            Secondo la ricostruzione iniziale, un gioco erotico a tre sarebbe degenerato in tragedia. Una storia che oggi fa acqua da tutte le parti. Eppure, bastava forse un’analisi del DNA sul cuscino della vittima per chiudere tutto subito. “C’era sperma. Non lo analizzarono. Disse qualcuno che era ‘vecchio’. Se avessero accertato subito che era di Rudy Guede, io e Amanda saremmo stati fuori in due giorni.”

            Guede, unico condannato per quell’omicidio (con rito abbreviato, 16 anni), ha lasciato dietro di sé una scia di errori giudiziari che ancora oggi grida vendetta. “Il vero errore – dice Sollecito – è stato concedergli il rito abbreviato. Io e Amanda volevamo discutere le prove. Ma lui ha avuto il vantaggio, e noi il patibolo”.

            La parte più disturbante del racconto? Gli interrogatori. Amanda, ricorda Sollecito, crollò dopo ore di pressioni psicologiche. “Fu una poliziotta, che si definiva medium, a suggerirle il nome di Patrick Lumumba, completamente estraneo. Amanda era nel panico. Quel giorno cominciò l’orrore.”

            Anche a distanza di anni, la narrazione ufficiale resta contaminata. Nonostante l’assoluzione definitiva arrivata solo nel 2015, l’immagine pubblica di Sollecito rimane opaca, schiacciata da anni di titoli, processi mediatici, sospetti. “È una condanna che non finisce con la sentenza. È qualcosa che ti resta appiccicato addosso.”

            Non è un caso, forse, che Sollecito citi proprio il delitto di Garlasco come esempio del potere della tecnologia nel ribaltare verità scomode. “Oggi, con i nuovi strumenti, si possono rileggere casi come il mio. E non è un dettaglio. È un dovere.”

            Poi torna a parlare di carcere, e di cosa ha imparato. “Lì dentro vedi l’umanità che la società vuole dimenticare. Ma sono lo specchio di quello che siamo. Dei nostri fallimenti, delle nostre ipocrisie.” Una riflessione amara, profonda. E anche un’accusa: “Chi decide la vita degli altri dovrebbe passarci, anche solo un mese. Per capire.”

            Sulle ultime parole cala il silenzio. Nessuna retorica, nessuna autocommiserazione. Solo l’amarezza di chi ha conosciuto il fondo, e da lì guarda in su, chiedendosi chi ci sia davvero a tirare i fili della giustizia.

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              Crypto-sequestro a New York, Beatrice Folchi libera: “Solo un equivoco”

              Beatrice Folchi, la “brunette” italiana coinvolta nel caso del sequestro di Michael Carturan, è stata rilasciata dopo poche ore: il giudice non ha convalidato l’arresto. Resta invece detenuto John Woeltz, investitore da cento milioni, accusato di torture per ottenere la password di accesso ai bitcoin. Si cerca un complice. Il padre della vittima: “Michael sta discretamente bene”.

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                Il soprannome con cui i tabloid americani l’hanno ribattezzata – la “brunette” – fa pensare a un personaggio da spy story patinata. Ma la storia che coinvolge Beatrice Folchi, 24 anni, nata a Latina e trasferita da bambina negli Stati Uniti, ha contorni ben più oscuri.

                Secondo le autorità, Beatrice si trovava nell’appartamento dell’orrore di Soho quando il torinese Michael Valentino Teofrasto Carturan, 28 anni, designer e investitore in criptovalute, è stato tenuto prigioniero per due settimane. Torturato, secondo le accuse, per ottenere la password di accesso al suo portafoglio di bitcoin.

                Arrestata inizialmente assieme al presunto sequestratore, John Woeltz, 37 anni, la giovane è stata liberata poco dopo dal giudice. “Non sono agli arresti. Quello che ho da dire lo dirò con un avvocato”, ha dichiarato in inglese a una reporter americana, apparendo calma, ben vestita, con una borsa Stella McCartney da 1300 dollari e una ciocca di capelli sistemata davanti alle telecamere.

                Il suo nome, nel frattempo, ha cominciato a circolare ovunque. Il New York Post la descrive come una “bellezza mora di un metro e ottanta”. Su Linkedin si presenta con il nickname Bibi e racconta di aver studiato comunicazione e filosofia in Connecticut, collaborando poi con brand come Puma, Rolls-Royce, Bentley e Manchester City.

                Resta in carcere invece John Woeltz, soprannominato dai media “il crypto torturatore”. Un personaggio da romanzo: ricchissimo – si parla di un patrimonio da 100 milioni di dollari –, proprietario di un elicottero, descritto come un mix tra American Psycho e The Wolf of Wall Street. Le accuse a suo carico sono pesantissime: sequestro di persona, torture, possesso d’arma per scopi criminali.

                Carturan, secondo la ricostruzione, sarebbe stato aggredito il 6 maggio. Per due settimane sarebbe rimasto legato con cavi elettrici, umiliato e seviziato. In un’occasione, Woeltz gli avrebbe persino urinato addosso. Ma il giovane italiano è riuscito a liberarsi e a fuggire. Probabilmente, salvandosi la vita.

                Gli investigatori sono convinti che a Woeltz manchi un pezzo: un complice, “il terzo uomo”, ancora da identificare. Intanto, la famiglia Carturan si prepara a raggiungere New York. Il padre Maurizio ha detto: “Michael sta discretamente bene”. Ma le sue condizioni psicologiche, dopo quanto subito, restano da valutare.

                Negli Stati Uniti il sequestro di Carturan si inserisce in un fenomeno inquietante: i rapimenti mirati a estorcere criptovalute sono in crescita. In Connecticut una coppia fu speronata mentre cercava casa: sei uomini li rapirono per colpire il figlio, sospettato di un furto da 230 milioni in bitcoin. In Florida, tre adolescenti hanno rapito un cripto-investitore, sottraendogli quattro milioni.

                A Las Vegas si organizzano corsi per imparare a fuggire se legati e imbavagliati. Carturan, forse, ne aveva visto uno. Oppure ha solo avuto sangue freddo. In ogni caso, è vivo. Ed è questo, per ora, l’unico lieto fine possibile in una vicenda dove il confine tra realtà e thriller si è fatto sottilissimo.

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