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Cronaca Nera

Garlasco, una donna complice sul luogo del delitto? Il sospetto dell’impronta col tacco e il mistero dell’arma “con uno spigolo netto”

Dal sospetto dell’impronta lasciata da un tacco alla ferita compatibile solo con una scarpa femminile: gli elementi dell’autopsia e le nuove indagini su Andrea Sempio rilanciano l’ipotesi di una complice donna sul luogo del delitto. In un’indagine che non ha mai smesso di inquietare, la figura femminile riemerge come un’ombra, tra la violenza cieca dell’omicidio e i dettagli sfuggiti agli occhi di chi, finora, si era fermato alle certezze più facili.

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    A Garlasco, nell’agosto del 2007, la vita di Chiara Poggi si è spezzata in un mattino che ancora oggi inquieta e divide. Dopo anni di processi e sentenze, un nuovo dettaglio affiora e insinua un dubbio sottile: sul luogo del delitto ci sarebbe potuta essere una donna, una presenza silenziosa ma decisiva nell’economia dell’omicidio.

    Secondo quanto riportato da Il Giorno, gli inquirenti di Pavia stanno rileggendo ogni dettaglio delle indagini e del referto autoptico firmato dal professor Marco Ballardini. È proprio in quelle pagine, redatte nel linguaggio freddo e chirurgico della medicina legale, che si nascondono dettagli capaci di riaprire scenari sepolti.

    Chiara Poggi è stata uccisa senza potersi difendere. Le ferite che le sono state inflitte parlano di un’arma contundente e pesante, con almeno uno spigolo netto, vibrata con forza solo contro la testa della ragazza. Una violenza cieca, che non le ha lasciato il tempo né la possibilità di proteggersi: “Scarsamente efficaci o anche assenti tentativi di difesa della vittima”, annota il medico legale.

    Ma c’è di più. C’è quella ferita sulla coscia sinistra della giovane che sembra raccontare un altro retroscena. Una contusione compatibile, scrive Ballardini, “con un calettamento violento dal tacco o dalla punta di una scarpa”. Non una suola piatta e maschile come quella delle scarpe Frau numero 42, attribuite ad Alberto Stasi, già condannato in via definitiva per l’omicidio. Una scarpa diversa, più minuta, femminile. Forse appartenente a una donna.

    E qui, in questa impronta che non trova un proprietario, si annida l’ipotesi di una complice. Perché se la scarpa di Stasi non poteva lasciare quel segno, e se Andrea Sempio – oggi indagato per concorso in omicidio – resta un sospettato con un passato di amicizia e segreti nella cerchia di Chiara, la presenza di una figura femminile sul luogo del delitto torna a farsi largo. Una donna che avrebbe infierito sul corpo già martoriato, forse per un gesto di odio o disprezzo, forse come segno di complicità.

    Chi era questa donna? E, soprattutto, perché nessuno l’ha mai cercata davvero?

    La scena del crimine, come sappiamo, fu inquinata dalle troppe presenze quella mattina. Ma la ferita sulla coscia di Chiara non è un dettaglio postumo. Non è un segno casuale lasciato dai soccorritori o dai curiosi entrati nella villetta di via Pascoli. È un’impronta viva, un segno della violenza subita quando Chiara era ancora in vita.

    Eppure, per anni, l’indagine si è fermata al racconto ufficiale: Alberto Stasi, solo, nella villetta. Il ragazzo di buona famiglia, condannato a sedici anni in via definitiva. Ma attorno a lui, nella rete di conoscenze e segreti di provincia, si muovevano anche altri nomi. Andrea Sempio, amico di Marco Poggi, il fratello di Chiara, è uno di questi. E in quel cerchio, si diceva già allora, c’erano ragazze che sapevano, che forse c’erano.

    Oggi la procura di Pavia non esclude più la pista della complicità. Le nuove verifiche sull’arma del delitto – “uno strumento pesante, con spigolo netto” – e sulle impronte compatibili con una scarpa femminile riaprono il campo delle ipotesi.

    E intanto, la figura di Chiara Poggi, la ragazza “dell’oratorio e della banca” come la raccontavano i giornali, si tinge di nuove ombre. Lei che, secondo le contusioni trovate sul corpo, avrebbe provato a fuggire, forse cadendo durante un disperato tentativo di scampo. Lei che, in quella casa, ha trovato la morte senza un solo grido, e con la mano di chi l’ha uccisa – o di chi l’ha aiutato a farlo – rimasta nell’ombra.

    La verità, a Garlasco, resta sempre un passo più in là. E la sensazione è che ci sia ancora qualcuno che non ha raccontato tutto.

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      Cronaca Nera

      “Lo scopo dell’avvelenamento era l’aborto, non l’omicidio di Giulia Tramontano”: le motivazioni della sentenza su Impagnatiello

      Per i magistrati l’avvelenamento con topicida serviva a provocare la perdita del feto, che l’uomo considerava un ostacolo alla sua vita e alla sua carriera. Nessuna prova di un piano omicida coltivato nel tempo: il proposito di uccidere Giulia sarebbe maturato poche ore prima del delitto, dopo l’incontro tra la giovane e l’altra donna con cui il barman aveva una relazione.

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        Lo scopo dell’avvelenamento non era l’omicidio di Giulia Tramontano ma “l’aborto del feto”. Così scrive la Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza che ha confermato l’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, escludendo però la premeditazione. Secondo i giudici, l’ex barman aveva individuato nel bambino che Giulia portava in grembo “il problema” da eliminare per proteggere la sua carriera e la sua vita privata.

        Il verdetto chiarisce che “non vi sono prove” per retrodatare l’intento omicida rispetto al 27 maggio 2023, giorno in cui la giovane fu uccisa. Le 59 pagine depositate spiegano che, pur riconoscendo la crudeltà e il vincolo della convivenza, non si può parlare di un piano coltivato nel tempo. Il proposito omicida sarebbe maturato solo nel pomeriggio del delitto. Quando Impagnatiello si rese conto che Giulia e l’altra donna con cui aveva una relazione si erano incontrate, scambiandosi confidenze.

        Alle 17 l’uomo lasciò il lavoro all’Armani Hotel e rientrò in motorino a Senago. Due ore dopo, quando Giulia mise piede nell’appartamento, fu aggredita e colpita con 37 fendenti, 11 dei quali mentre era ancora viva. Un arco temporale giudicato “troppo breve” per configurare la premeditazione. Assente anche in quelle che la Corte definisce “azioni neutre”, come il rincasare e attendere la convivente.

        Per i magistrati Impagnatiello non ha ucciso la compagna perché lei voleva lasciarlo o per timore di controversie giudiziarie future. La molla, si legge, fu l’umiliazione subita quando la donna lo smascherò davanti a chi rappresentava, per lui, la sua “proiezione pubblica”: il palcoscenico del bar milanese dove lavorava. Un colpo insopportabile per il suo narcisismo.

        La sentenza conferma l’ergastolo, ma esclude la premeditazione che la sorella di Giulia, Chiara, aveva invocato pubblicamente. Resta così un verdetto che sottolinea la brutalità del gesto, ma delimita il contesto in cui maturò, senza riconoscere un piano elaborato in anticipo.

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          Cronaca Nera

          Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer

          Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

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            Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.

            Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.

            La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.

            Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.

            Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.

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              La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste

              Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

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                Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

                Testo
                «Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.

                La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.

                A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.

                Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.

                Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.

                Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.

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