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Cronaca Nera

Giappone, giustiziato il “killer di Twitter”: uccise e smembrò nove persone che aveva adescato online

Condannato a morte nel 2020, il 34enne aveva ammesso l’uccisione di nove giovani, attirate con la promessa di “aiutarle a morire”. Le vittime, tutte minorenni o poco più che ventenni, avevano lasciato segnali di disperazione sui social.

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    Il Giappone è tornato a eseguire una condanna a morte. A quattro anni dalla sentenza definitiva, e a due dall’ultima esecuzione, venerdì è stato impiccato nel carcere di Tokyo Takahiro Shiraishi, 34 anni, soprannominato dalla stampa giapponese “il killer di Twitter”. Aveva confessato di aver ucciso, violentato e smembrato nove persone, tra cui otto giovani donne e un uomo, adescati sui social mentre esprimevano pensieri suicidi. L’impiccagione – confermata dai principali media nazionali tra cui la NHK, pur senza conferma ufficiale del ministero della Giustizia – è stata eseguita nella massima riservatezza, come da prassi nel sistema penale giapponese.

    Era il 2017 quando la polizia giapponese, indagando sulla scomparsa di una ragazza di 23 anni, si presentò alla porta dell’appartamento di Shiraishi, a Zama, nella prefettura di Kanagawa. Fu lì che gli agenti scoprirono un orrore oltre ogni immaginazione: tre frigoriferi portatili e cinque contenitori pieni di resti umani. Teste, ossa, corpi mutilati con la carne raschiata via. Nove vite spezzate, nove identità ricostruite a fatica nel silenzio e nell’orrore.

    Le vittime avevano tra i 15 e i 26 anni. In comune avevano fragilità, disagio e il fatto di aver scritto sui social – in particolare Twitter, oggi X – il proprio desiderio di farla finita. Shiraishi li contattava con un nickname che può essere tradotto come “il boia” e prometteva loro una morte indolore, una compagnia nell’ultimo passo. Invece, li attirava nel suo appartamento e li uccideva. Durante il processo, ha ammesso di averlo fatto “per soddisfare i propri impulsi sessuali”.

    Secondo quanto riportato da Jiji Press, nell’atto d’accusa si legge che Shiraishi usava Twitter per cercare persone che esprimessero tendenze suicide. Offriva loro ospitalità, comprensione, conforto. Poi la trappola scattava. Gli omicidi si sono consumati nell’arco di tre mesi, tra agosto e ottobre 2017. L’ultima vittima, quella che ha portato all’arresto, fu una giovane donna che aveva manifestato l’intenzione di togliersi la vita. Fu suo fratello, insospettito, a segnalare alla polizia gli ultimi messaggi che aveva scambiato online. Quei messaggi hanno condotto all’appartamento degli orrori.

    Nel 2020, al termine di un processo molto seguito dall’opinione pubblica, Shiraishi fu condannato a morte. I giudici non accolsero la tesi difensiva secondo cui le vittime avrebbero acconsentito alla morte. Al contrario, si stabilì che le aveva manipolate e poi soppresse con freddezza. Il suo avvocato aveva presentato appello presso l’Alta Corte di Tokyo, ma il ricorso fu poi ritirato, rendendo definitiva la condanna.

    La giustizia giapponese ha tempi lunghi ma non dimentica. L’impiccagione di Shiraishi è la prima esecuzione dal luglio 2022. In Giappone, la pena capitale è prevista per i crimini più gravi e avviene con un rituale rigido, senza preavviso, nel silenzio più assoluto. Né i familiari né gli avvocati vengono avvisati prima dell’esecuzione: la notizia arriva solo dopo che la corda è calata.

    “Avrei preferito che vivesse il resto della sua vita riflettendo su ciò che ha fatto”, ha dichiarato alla NHK il padre di una delle vittime, alla notizia dell’avvenuta esecuzione. “Morire in pochi secondi è troppo facile per lui”.

    Il caso ha avuto un impatto enorme in Giappone. Ha scatenato un dibattito nazionale sulla vulnerabilità psicologica dei giovani, sulla solitudine, sul disagio mentale e sull’uso dei social come canale di adescamento. Le autorità hanno avviato campagne di sensibilizzazione e numerosi centri anti-suicidio hanno rafforzato la presenza online, proprio per intercettare chi, come le vittime di Shiraishi, cerca conforto in rete. Ma il dolore resta.

    Il Giappone resta uno dei pochi Paesi industrializzati dove la pena capitale è ancora applicata. Le modalità delle esecuzioni, però, sono da sempre oggetto di critica da parte di organizzazioni internazionali come Amnesty International, che parla di “sistema disumano” per l’assenza di trasparenza e l’impossibilità, di fatto, di seguire l’iter da parte delle famiglie. Ma in casi come questo, il consenso popolare tende a schierarsi dalla parte del rigore assoluto. La fine del killer di Twitter è arrivata senza preavviso, come i suoi omicidi.

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      Cronaca Nera

      La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste

      Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

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        Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

        Testo
        «Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.

        La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.

        A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.

        Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.

        Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.

        Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.

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          Cronaca Nera

          Caso Garlasco, indagato l’ex procuratore Mario Venditti: sospetti di corruzione per l’archiviazione di Sempio

          Nel mirino un presunto pagamento occulto e alcune trascrizioni “alleggerite” dell’inchiesta sull’amico di Marco Poggi. Perquisizioni a Pavia, Genova e Campione d’Italia, ma anche a Garlasco. L’indagine potrebbe riaprire scenari rimasti in ombra per anni.

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            Un appunto, un nome e una cifra bastano a riaprire uno dei casi giudiziari più discussi d’Italia. “Venditti / gip archivia X 20-30 euro”: è la frase trovata dai carabinieri in un bloc notes sequestrato nella casa dei genitori di Giuseppe Sempio a Garlasco. Quelle parole, scritte nel 2016, hanno riacceso i riflettori sull’omicidio di Chiara Poggi e sull’operato dell’allora procuratore aggiunto di Pavia, Mario Venditti, oggi indagato dalla Procura di Brescia per corruzione in atti giudiziari.

            Secondo l’ipotesi dei magistrati bresciani, Venditti avrebbe ricevuto denaro per favorire l’archiviazione dell’inchiesta a carico di Sempio, amico di Marco Poggi e indagato nel 2016 dopo le istanze dei legali di Alberto Stasi, il fidanzato di Chiara condannato in via definitiva. La nuova indagine, coordinata dal pm Claudia Moregola e dal procuratore Francesco Prete, ha portato a perquisizioni nelle abitazioni di Venditti, della famiglia Sempio e di due ex carabinieri della sezione di Polizia giudiziaria di Pavia, Silvio Sapone e Giuseppe Spoto.

            Gli inquirenti sospettano che l’inchiesta del 2016 sia stata gestita con negligenza o, peggio, manipolata. Alcune intercettazioni e conversazioni ambientali, oggi riesaminate, mostrerebbero omissioni nelle trascrizioni ufficiali e riferimenti a “soldi”, “pagamenti” e “assegni” mai riportati integralmente nei verbali.

            A rafforzare i dubbi ci sono anche i risultati degli accertamenti bancari condotti dal Gico della Guardia di finanza. Nei primi mesi del 2017 dai conti dei parenti di Sempio sarebbero partiti trasferimenti di denaro per oltre 30mila euro. Una parte – circa seimila euro – risulta destinata all’ex generale dei Ris Luciano Garofano, oggi consulente dell’indagato, ma senza incarichi formali nella precedente inchiesta. Il resto del denaro avrebbe seguito un percorso non ancora chiarito.

            Per ora nessuna misura cautelare, ma l’ombra del sospetto è pesante. Quell’appunto, minuscolo e inquietante, riporta alla memoria le pagine più controverse del caso Garlasco, dove a quasi vent’anni dall’omicidio di Chiara Poggi la verità continua a sfuggire.

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              Ciro Grillo condannato a 8 anni per stupro di gruppo: il tribunale di Tempio Pausania chiude il primo atto del processo

              Dopo tre anni di udienze e scontri in aula, arriva il verdetto: colpevoli di violenza sessuale ai danni di una studentessa conosciuta in Costa Smeralda nell’estate 2019. L’iter giudiziario prosegue con l’appello e, se necessario, la Cassazione.

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                Il tribunale di Tempio Pausania ha emesso la sentenza che mette fine al primo capitolo di una vicenda giudiziaria che ha segnato il dibattito pubblico italiano. Ciro Grillo, figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle, insieme a Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, è stato condannato a otto anni di reclusione per violenza sessuale di gruppo. Per Francesco Corsiglia, quarto imputato, la pena stabilita è di sei anni e sei mesi.

                Il processo, nato dalla denuncia di una studentessa allora diciannovenne, ha ricostruito quanto accaduto tra il 16 e il 17 luglio 2019: una serata iniziata al Billionaire, storico locale della Costa Smeralda, e conclusa la mattina successiva nella villa di Beppe Grillo a Porto Cervo. Secondo l’accusa, fu lì che la ragazza subì la violenza di gruppo.

                Oggi, dopo oltre tre anni di dibattimento, il collegio giudicante ha confermato la tesi dei pubblici ministeri, condannando gli imputati a pene pesanti, seppur inferiori alle richieste iniziali. La giovane donna non era presente in aula al momento della lettura della sentenza. Assenti anche gli imputati, difesi fino all’ultimo da legali che hanno puntato sull’inattendibilità del racconto della vittima.

                Nella lunga camera di consiglio, il tribunale ha respinto le tesi difensive che, nell’ultima udienza, avevano ribadito le presunte contraddizioni della ragazza. A parlare per ultimi erano stati Alessandro Vaccaro, avvocato di Lauria, Antonella Cuccureddu per Corsiglia e Mariano Mameli per Capitta.

                La sentenza non comporta l’immediata detenzione: i quattro restano liberi fino a quando il verdetto non diventerà definitivo. Prima ci sarà l’appello, poi, con ogni probabilità, il giudizio della Cassazione. Solo allora eventuali condanne potranno tradursi in pene effettive.

                Una vicenda che ha sollevato discussioni anche fuori dalle aule giudiziarie, soprattutto dopo le difese pubbliche di Beppe Grillo, finite spesso al centro di polemiche. Oggi, però, a parlare è solo il verdetto: per la giustizia, quella notte del 2019 fu stupro di gruppo.

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