Cronaca Nera
Inchiesta Curve: i verbali del pentito Beretta svelano il sistema dei biglietti e gli affari degli ultrà dell’Inter
Soldi, biglietti, baracchini e legami con Antonio Bellocco: i verbali di Andrea Beretta tracciano il quadro di un sistema ultrà che fruttava migliaia di euro al mese. Dietro le quinte, un’organizzazione che approfittava del calcio per arricchirsi e consolidare il potere.

Andrea Beretta, ex leader della Curva nord dell’Inter, oggi pentito e collaboratore di giustizia, ha deciso di raccontare tutto ai magistrati. Seduto davanti alla procuratrice aggiunta Alessandra Dolci e ai pm Paolo Storari e Sara Ombra nell’ambito dell’inchiesta “Doppia curva”, Beretta ha svelato i meccanismi di un sistema che legava la tifoseria organizzata a guadagni illeciti e alla malavita organizzata.
Il racconto di Beretta inizia con l’omicidio di Vittorio Boiocchi, storico leader della curva, avvenuto lo scorso anno. Dopo quella morte, spiega Beretta, la leadership del gruppo è stata scossa da minacce e litigi interni. In quel caos si inserisce Antonio Bellocco, rampollo della ‘ndrangheta, chiamato per “fare da garante”. “Meglio tenerlo dalla nostra parte, così quando si presenta qualcuno di qualche famiglia se ne occupa lui”, spiega Beretta ai pm.
Gli affari della Curva
Beretta traccia un quadro di affari che, a seconda dell’andamento della squadra, portavano guadagni notevoli. “In quel periodo l’Inter andava bene: portavamo a casa 5-6 mila euro al mese a testa”, racconta, indicando se stesso, Marco Ferdico e Antonio Bellocco come principali beneficiari. Il sistema ruotava attorno a diverse attività: il merchandising, i biglietti, le trasferte e la gestione di baracchini e parcheggi.
Uno dei pilastri del guadagno era il mercato parallelo dei biglietti. Gli ultrà disponevano di 160 tessere, spesso intestate a parenti o membri della curva. Questi abbonamenti venivano rivenduti a prezzi maggiorati. “Inter-Juve? Magari costa 80 euro, ma noi l’acquistiamo a 45-50”, spiega Beretta. Il punto di scambio era il Baretto, il luogo dove chi non aveva una tessera poteva lasciarla a “Debora”, la cassiera degli ultrà. Per evitare problemi ai cancelli, alcuni responsabili della curva intervenivano direttamente sugli steward: “Fai passare questo, è dei nostri”.
Tra biglietti gonfiati e trucchetti come la “doppietta” – far entrare due persone con una sola tessera – una partita di cartello poteva fruttare anche 10 mila euro. “Tutto diviso per tre”, precisa Beretta.
Il ruolo della società e le trasferte
Beretta svela anche il coinvolgimento dello SLO (Supporter Liaison Officer), il delegato della società ai rapporti con la tifoseria organizzata. Questo figura era fondamentale per garantire la distribuzione dei biglietti per le trasferte. “Si compilavano liste e si stabilivano i prezzi: 50 euro per il biglietto e 10 euro per il pullman”, racconta Beretta. Anche qui, il guadagno era assicurato.
Le trasferte, però, erano solo una delle fonti di reddito. Beretta descrive un sistema in cui ogni partita, indipendentemente dall’importanza, garantiva migliaia di euro. I fondi venivano poi divisi tra i principali membri della curva, che mantenevano un controllo stretto su tutte le attività economiche legate alle partite.
La ‘ndrangheta nella curva
Il rapporto con Bellocco non era solo economico, ma anche strategico. Beretta racconta come la presenza del rampollo della ‘ndrangheta garantisse una protezione silenziosa ma efficace. “Io gli ho trovato una casa a Pioltello e gli davamo 2 mila euro al mese”, spiega. In cambio, Bellocco faceva valere la sua “mafiosità” per gestire eventuali minacce o conflitti con altre famiglie criminali.
Un sistema in declino
Con i verbali di Beretta, emerge un quadro dettagliato di un sistema organizzato e consolidato che ha approfittato della passione calcistica per creare un giro d’affari illeciti. L’inchiesta “Doppia curva” prosegue, ma le parole del pentito aprono uno squarcio su una realtà in cui il tifo è solo la facciata di un’operazione ben più complessa.
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Cronaca Nera
“Lo scopo dell’avvelenamento era l’aborto, non l’omicidio di Giulia Tramontano”: le motivazioni della sentenza su Impagnatiello
Per i magistrati l’avvelenamento con topicida serviva a provocare la perdita del feto, che l’uomo considerava un ostacolo alla sua vita e alla sua carriera. Nessuna prova di un piano omicida coltivato nel tempo: il proposito di uccidere Giulia sarebbe maturato poche ore prima del delitto, dopo l’incontro tra la giovane e l’altra donna con cui il barman aveva una relazione.

Lo scopo dell’avvelenamento non era l’omicidio di Giulia Tramontano ma “l’aborto del feto”. Così scrive la Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza che ha confermato l’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, escludendo però la premeditazione. Secondo i giudici, l’ex barman aveva individuato nel bambino che Giulia portava in grembo “il problema” da eliminare per proteggere la sua carriera e la sua vita privata.
Il verdetto chiarisce che “non vi sono prove” per retrodatare l’intento omicida rispetto al 27 maggio 2023, giorno in cui la giovane fu uccisa. Le 59 pagine depositate spiegano che, pur riconoscendo la crudeltà e il vincolo della convivenza, non si può parlare di un piano coltivato nel tempo. Il proposito omicida sarebbe maturato solo nel pomeriggio del delitto. Quando Impagnatiello si rese conto che Giulia e l’altra donna con cui aveva una relazione si erano incontrate, scambiandosi confidenze.
Alle 17 l’uomo lasciò il lavoro all’Armani Hotel e rientrò in motorino a Senago. Due ore dopo, quando Giulia mise piede nell’appartamento, fu aggredita e colpita con 37 fendenti, 11 dei quali mentre era ancora viva. Un arco temporale giudicato “troppo breve” per configurare la premeditazione. Assente anche in quelle che la Corte definisce “azioni neutre”, come il rincasare e attendere la convivente.
Per i magistrati Impagnatiello non ha ucciso la compagna perché lei voleva lasciarlo o per timore di controversie giudiziarie future. La molla, si legge, fu l’umiliazione subita quando la donna lo smascherò davanti a chi rappresentava, per lui, la sua “proiezione pubblica”: il palcoscenico del bar milanese dove lavorava. Un colpo insopportabile per il suo narcisismo.
La sentenza conferma l’ergastolo, ma esclude la premeditazione che la sorella di Giulia, Chiara, aveva invocato pubblicamente. Resta così un verdetto che sottolinea la brutalità del gesto, ma delimita il contesto in cui maturò, senza riconoscere un piano elaborato in anticipo.
Cronaca Nera
Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer
Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.
Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.
La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.
Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.
Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.
Cronaca Nera
La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste
Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.
Testo
«Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.
La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.
A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.
Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.
Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.
Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.
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