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Cronaca Nera

L’impronta accanto al corpo di Chiara è di Andrea Sempio

L’impronta sporca di sangue, lasciata sul muro accanto alla vittima, è ora attribuita a Sempio: secondo i carabinieri è “logico-fattuale” che appartenga all’assassino. Insieme al DNA sotto le unghie, è l’elemento chiave che riapre il caso Garlasco a 17 anni dall’omicidio.

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    Era lì, sulle scale della villetta di via Pascoli, tra il piano terra e il seminterrato dove il corpo di Chiara Poggi venne trovato riverso, senza vita. L’hanno chiamata “contatto papillare n.33”, una delle tante impronte isolate nel 2007 sulla scena del delitto, ma rimasta a lungo senza un nome. A identificarla, in una relazione dei carabinieri del Nucleo investigativo di Milano datata 9 luglio 2020, è una rivelazione ora al centro dell’inchiesta: per gli inquirenti, l’impronta appartiene ad Andrea Sempio, amico intimo di Marco Poggi, fratello della vittima.

    Impronta di sangue

    Un’impronta, quella numero 33, che i tecnici hanno evidenziato con luce UV e che, secondo i RIS, era sporca di sangue, tracciata sul muro prima che Chiara scivolasse lungo le scale. E che per logica – scrivono i militari – non può che appartenere all’autore dell’aggressione. La ragazza fu colpita con violenza, probabilmente con un oggetto mai ritrovato, e poi lasciata esanime ai piedi dei gradini.

    Una traccia dimenticata

    Quella traccia è tornata sotto i riflettori nel momento in cui i pubblici ministeri di Pavia hanno deciso di riaprire il fascicolo, accogliendo un’istanza presentata dalla difesa di Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni per l’omicidio. Gli avvocati, forti di alcune incongruenze emerse negli atti e delle segnalazioni contenute in una prima informativa del 2016, hanno ottenuto che venisse disposta una nuova consulenza tecnica. Proprio in quell’analisi comparativa i carabinieri suggerirono di approfondire l’impronta n.33, lasciata in una zona compatibile con il trascinamento del corpo.

    Decisero di non seguire la pista Sempio

    Nonostante le indicazioni, la Procura decise allora di non seguire quella pista. Ma oggi gli investigatori della Omicidi, delegati ufficialmente dai magistrati, sono tornati su quella traccia, ritenendola un punto centrale dell’inchiesta. A rafforzare il quadro, ci sono due profili genetici maschili rilevati sotto le unghie di Chiara, uno dei quali compatibile proprio con Andrea Sempio. L’altro, non ancora identificato, è oggetto di ulteriori accertamenti.

    Non è un dettaglio trascurabile che, quando Sempio fu convocato nel 2022 in caserma a Milano per il prelievo coatto del DNA, gli vennero acquisite anche le impronte digitali. Un passaggio di routine? Forse. Ma appena un mese dopo, il 17 aprile, fu richiamato per ripetere l’operazione con il metodo tradizionale a inchiostro. All’epoca si parlò di un “difetto tecnico dei vetrini”, ma in realtà si voleva garantire una comparazione più affidabile con le impronte lasciate in ambienti contaminati da liquidi, come sangue o sudore.

    Ora, con la perizia depositata dalla Procura, quella comparazione diventa un elemento di prova. Non più soltanto una suggestione investigativa, ma un dato cristallizzato: l’impronta n.33 sarebbe compatibile con l’anulare destro di Andrea Sempio. Una conferma che i pubblici ministeri avrebbero voluto contestare formalmente, se il nuovo indagato si fosse presentato spontaneamente in Procura.

    Il caso Garlasco, a 17 anni dall’omicidio, si arricchisce così di una nuova tessera. Un’impronta dimenticata, che potrebbe cambiare il volto di una delle vicende giudiziarie più discusse degli ultimi decenni. Per ora resta ancora da capire se porterà anche a un nuovo processo.

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      Cronaca Nera

      Risponde alla chiamata dei carabinieri e perde 39.000 euro: ecco come funziona la truffa dei numeri clonati

      Un sessantenne di Genova è stato truffato con la tecnica dello spoofing, un attacco sofisticato che replica numeri telefonici ufficiali, rendendo difficile distinguere la truffa dalla realtà. Con un finto maresciallo dei carabinieri e un “operatore” della banca, i truffatori hanno svuotato il suo conto. Ecco i dettagli di questo inganno e come difendersi.

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        Tutto inizia con una chiamata apparentemente da parte di un maresciallo dei carabinieri: avverte la vittima di una frode sul suo conto bancario. Poco dopo, segue una telefonata da un operatore della banca che conferma l’allarme e consiglia di trasferire i risparmi su un nuovo conto “sicuro”. La vittima, un sessantenne di Genova, esegue l’operazione tramite home banking e solo dopo scopre l’amara realtà: quei soldi, circa 39.000 euro, sono spariti per sempre.

        Spoofing: una truffa sempre più sofisticata
        Questo tipo di truffa, noto come spoofing, sfrutta la falsificazione dell’identità per ingannare le vittime. I truffatori possono clonare numeri telefonici di carabinieri, banche o altri enti, così da sembrare affidabili e mettere a segno il colpo. Nel caso del sessantenne, persino una verifica online non ha aiutato, poiché i numeri corrispondevano effettivamente a quelli reali delle forze dell’ordine e della banca.

        Come difendersi dallo spoofing
        Per evitare di cadere in trappola, è fondamentale non condividere mai dati personali o bancari via telefono e non avviare operazioni durante una chiamata, anche se la fonte sembra affidabile. In caso di dubbio, è sempre meglio chiamare direttamente la propria banca o l’ente coinvolto, usando numeri verificati. Chi sospetta di essere stato vittima di uno spoofing dovrebbe denunciare il fatto alla polizia postale o ai carabinieri per aiutare a fermare questi truffatori.

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          Garlasco, parla il giudice che assolse Stasi: “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

          Stefano Vitelli, oggi giudice del Riesame a Torino, racconta il primo processo a Stasi nel 2009: “C’era qualcosa che non tornava, ma mancava la prova definitiva. E soprattutto mancava un movente”

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            Un’indagine complessa, una storia giudiziaria che si trascina da oltre 16 anni, un caso che continua a dividere. Oggi, mentre un nuovo nome è tornato nel registro degli indagati per l’omicidio di Chiara Poggi, a parlare è Stefano Vitelli, il magistrato che nel 2009 assolse Alberto Stasi in primo grado. All’epoca giudice per le udienze preliminari a Vigevano, oggi in forza al tribunale del Riesame di Torino, Vitelli ricorda perfettamente il processo abbreviato che lo portò a quella decisione. E lo fa con una lucidità che getta ancora più ombre sulla ricostruzione del delitto.

            “A ogni verifica i dubbi aumentavano”

            “Il ragionevole dubbio è essenziale per noi magistrati e per l’opinione pubblica”, dice Vitelli. Un principio che fu il cardine della sua sentenza di assoluzione. “Non voglio giudicare le inchieste successive, non ne conosco gli atti, ma quando processai Stasi, più si andava avanti e più aumentavano le domande senza risposta”.

            Uno degli elementi chiave fu la perizia informatica: “Era una sera d’estate, me lo ricordo ancora. L’ingegnere mi chiamò e mi disse: ‘Dottore, è sul divano? Ci resti. Stasi stava lavorando al computer, sulla sua tesi’”. Un dettaglio che spiazzò gli inquirenti: il ragazzo, secondo l’accusa, avrebbe dovuto inscenare la sua attività online per crearsi un alibi, e invece risultò che stava effettivamente correggendo passaggi del suo lavoro con concentrazione e coerenza.

            “C’era qualcosa che non tornava,” spiega Vitelli. “Si parlava di scarpe pulite, eppure i test dimostrarono che a volte si sporcavano, altre no. La bicicletta? Una testimone ne descriveva una diversa. Nessuna traccia di sangue nel lavabo. Ogni elemento che avrebbe dovuto rafforzare la tesi dell’accusa, finiva per renderla più fragile”.

            Un puzzle senza pezzi combacianti

            Vitelli non nasconde che, in quella fase processuale, c’erano aspetti che lo lasciavano perplesso. “Gli indizi erano tanti, ma contraddittori e insufficienti. Abbiamo interrogato i vicini: nessuno ha sentito rumori, nessuno ha visto movimenti strani. Stasi, poi, avrebbe dovuto compiere un delitto così brutale e subito dopo mettersi a lavorare alla tesi in modo lucido? Anche il dettaglio del dispenser del sapone faceva riflettere: aveva mangiato la pizza la sera prima, lavarsi le mani era un gesto normale”.

            E poi c’era il movente. O meglio, la sua assenza. “Nei casi incerti, il movente diventa un elemento decisivo per chiudere il cerchio. Qui, un movente non c’era”.

            E Andrea Sempio?

            L’altro nome che emerge dalle carte è Andrea Sempio, oggi formalmente indagato dopo anni di voci e supposizioni. Vitelli ricorda solo un dettaglio della sua testimonianza: “Un alibi basato su uno scontrino conservato. Mi sembrò curioso”.

            Quanto all’impatto mediatico del caso, il magistrato ha sempre cercato di restarne fuori: “Ho chiuso la porta a giornalisti, pm, avvocati. Di un processo si parla solo nelle aule di giustizia. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire dire che ero ‘pro’ o ‘contro’. Il nostro lavoro deve essere laico”.

            Sedici anni dopo, i dubbi restano

            Vitelli ha riletto la sua sentenza proprio in questi giorni, su richiesta della rivista Giurisprudenza penale. E la sua opinione non è cambiata: “Con gli elementi che avevo, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.

            Oggi, il caso Garlasco è di nuovo sotto i riflettori. Ma le stesse domande che Vitelli si pose nel 2009 rimangono senza risposta. Chi ha ucciso Chiara Poggi? E soprattutto: c’è davvero una verità che metterà fine a questa storia?

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              Delitto di Garlasco, l’avvocato Lovati contro Corona: «Mi ha tradito, mi ha fatto bere per farmi parlare»

              Il difensore, già indagato per diffamazione aggravata per le sue dichiarazioni sul caso Poggi, ora accusa l’ex re dei paparazzi di averlo manipolato: «Avevo bevuto, pensavo fosse una chiacchierata privata. Mi piacerebbe sapere a chi ha mandato quelle immagini».

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                Per la serie c’è ancora chi si fida di Fabrizio Corona?. L’ultimo a pentirsene è Massimo Lovati. l’avvocato di Andrea Sempio, il giovane tornato nel mirino dell’inchiesta sull’omicidio di Chiara Poggi, la ragazza di Garlasco uccisa nel 2007.

                Lovati, che aveva fatto discutere per le sue uscite sopra le righe sul caso, si è scagliato contro l’ex re dei paparazzi accusandolo di averlo “tradito”. «Mi ha ripreso mentre bevevo, chiedendomi di parlare a ruota libera e di fare affermazioni volgari», ha dichiarato il legale. Spiegando che quella conversazione — poi diventata un video pubblicato sul canale YouTube di Corona — non era destinata alla diffusione pubblica.

                Secondo il suo racconto, l’ex fotografo gli avrebbe promesso una chiacchierata informale, una sorta di “fuori onda” tra conoscenti. «Mi piacerebbe capire a chi ha mandato quel video», ha aggiunto l’avvocato. Sostenendo di essere stato “incastrato” in un momento di fragilità: «Avevo bevuto, non mi aspettavo che quelle parole venissero registrate».

                Il filmato in questione, diffuso nel corso di una puntata di Falsissimo, la serie che Corona pubblica online, ha suscitato scalpore per il linguaggio crudo. E per le frasi contro alcuni protagonisti della vicenda giudiziaria di Garlasco. Proprio per quelle dichiarazioni, Lovati è oggi indagato per diffamazione aggravata. A denunciarlo sono stati gli avvocati Enrico e Fabio Giarda, figli del defunto professor Angelo Giarda, storico difensore di Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni di carcere per l’omicidio di Chiara Poggi.

                Il legale di Sempio sostiene di essere stato manipolato: «Corona ha usato le mie parole per farsi pubblicità. Io non gli ho mai dato il consenso alla diffusione del video».

                Un’accusa che riapre vecchie polemiche attorno a Fabrizio Corona e al suo modo di fare informazione-spettacolo. Dove la linea tra confessione privata e show mediatico sembra svanire.

                Intanto l’inchiesta di Latina prosegue e Lovati dovrà spiegare ai magistrati non solo le sue frasi, ma anche il ruolo che attribuisce a chi — con una telecamera nascosta e un bicchiere di troppo — gli ha rovinato la reputazione.

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