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Cronaca Nera

Saman Abbas, la condanna che veniva da casa: la procura chiede l’ergastolo per tutta la famiglia

Nel processo d’appello per la morte di Saman Abbas, la Procura generale chiede una pena esemplare per tutti gli imputati. Il delitto, premeditato e “inumano”, avrebbe avuto come unico movente la libertà della ragazza di scegliere la propria vita. “Non era ribelle, voleva solo essere se stessa”.

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    «Un’esecuzione familiare, lucida e spietata, travestita da onore». Con queste parole la procuratrice generale Silvia Marzocchi ha chiesto alla Corte d’Assise d’Appello di Bologna la condanna all’ergastolo per tutti e cinque i familiari accusati dell’omicidio di Saman Abbas: padre, madre, zio e i due cugini. Una richiesta che arriva al termine di una requisitoria lunga, articolata, segnata dalla volontà di restituire piena verità e dignità alla ragazza uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 2021.

    Saman aveva 18 anni. E voleva essere libera. Libera di scegliere con chi vivere, libera di rifiutare un matrimonio combinato, libera di amare. Una libertà che la sua famiglia ha vissuto come una colpa, una minaccia, un’onta da cancellare. Da punire. Per questo, secondo l’accusa, la giovane sarebbe stata vittima di una «condanna a morte pronunciata dall’intero nucleo familiare». Un delitto premeditato, eseguito con freddezza e determinazione. Con la partecipazione attiva — ribadisce la Procura — di tutti gli imputati.

    La scena si consuma nel silenzio della campagna emiliana. Il corpo della ragazza verrà ritrovato solo 18 mesi dopo, interrato a pochi metri da un casolare. A scavare la fossa, secondo quanto emerso dal processo, sarebbero stati i due cugini, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq, inizialmente assolti. A commettere materialmente l’omicidio sarebbe stato lo zio, Danish Hasnain, che ha reso dichiarazioni spontanee in aula accusando nuovamente i due parenti: «Erano con me. Hanno scavato e seppellito il corpo». Una versione che trova riscontro anche nelle risultanze investigative: le celle telefoniche, i tracciamenti e le immagini li collocano tutti sulla scena. E soprattutto confermano la presenza di più persone al momento dell’occultamento del cadavere.

    Già condannati all’ergastolo in primo grado, i genitori di Saman — Shabbar Abbas e Nazia Shaheen — tornano ora al centro del dibattimento con un profilo aggravato: secondo la procuratrice generale, è necessario ridefinire il loro ruolo non come meri fiancheggiatori, ma come architetti del delitto. Non solo non avrebbero fatto nulla per salvare la figlia, ma l’avrebbero accompagnata consapevolmente alla morte. Fino all’ultimo giorno, racconta Marzocchi, avrebbero mantenuto con lei un atteggiamento affettuoso, solo in apparenza: «Saman è stata immersa in una recita — ha detto — un copione scritto per rassicurarla mentre tutto era già deciso».

    Particolarmente significativo, secondo l’accusa, è anche il ruolo del fratello minore. Il ragazzo, minorenne all’epoca dei fatti, aveva raccontato di essere stato testimone della tragedia e di essere stato costretto alla fuga. La Corte di primo grado aveva ipotizzato che proprio lui, con una denuncia ai carabinieri, potesse aver innescato la lite familiare culminata nell’omicidio. Una tesi che la Procura generale respinge con forza. Il fratello, dice Marzocchi, è una vittima secondaria: «Non ha mai contraddetto sé stesso, non aveva nulla da guadagnare e tutto da perdere. È stato sacrificato, isolato, sottoposto a una pressione insostenibile».

    La requisitoria della pubblica accusa ha chiesto anche un anno di isolamento diurno per ciascuno dei cinque imputati. Una pena esemplare, non per vendetta, ma per ristabilire un ordine etico e giuridico: «Bisogna togliere a Saman — ha detto la pg — il ruolo di ragazza ribelle, trasgressiva. Non era sconsiderata. Non ha fatto nulla per meritare la morte. Ha solo chiesto di poter vivere secondo i suoi desideri legittimi».

    La data fatale, quella notte tra il 30 aprile e il primo maggio, coincide con un punto di non ritorno. Il 3 maggio, infatti, Saman sarebbe dovuta essere trasferita in una comunità protetta. La famiglia sapeva che le restavano pochi giorni da “controllare” la figlia. E la decisione di ucciderla, secondo la Procura, è maturata proprio per evitare che se ne andasse per sempre, sottraendosi alla loro autorità.

    Nel cortile di casa, qualche giorno prima, c’è un video. Saman sorride, scherza con la madre. È un’immagine che oggi pesa come una condanna. Perché dimostra che lei, nonostante tutto, non avrebbe mai rinunciato alla sua famiglia, se solo le fosse stato permesso di viverla da persona libera. Ma quella libertà, per chi ha deciso la sua fine, era il vero scandalo da cancellare.

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      “Lo scopo dell’avvelenamento era l’aborto, non l’omicidio di Giulia Tramontano”: le motivazioni della sentenza su Impagnatiello

      Per i magistrati l’avvelenamento con topicida serviva a provocare la perdita del feto, che l’uomo considerava un ostacolo alla sua vita e alla sua carriera. Nessuna prova di un piano omicida coltivato nel tempo: il proposito di uccidere Giulia sarebbe maturato poche ore prima del delitto, dopo l’incontro tra la giovane e l’altra donna con cui il barman aveva una relazione.

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        Lo scopo dell’avvelenamento non era l’omicidio di Giulia Tramontano ma “l’aborto del feto”. Così scrive la Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza che ha confermato l’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, escludendo però la premeditazione. Secondo i giudici, l’ex barman aveva individuato nel bambino che Giulia portava in grembo “il problema” da eliminare per proteggere la sua carriera e la sua vita privata.

        Il verdetto chiarisce che “non vi sono prove” per retrodatare l’intento omicida rispetto al 27 maggio 2023, giorno in cui la giovane fu uccisa. Le 59 pagine depositate spiegano che, pur riconoscendo la crudeltà e il vincolo della convivenza, non si può parlare di un piano coltivato nel tempo. Il proposito omicida sarebbe maturato solo nel pomeriggio del delitto. Quando Impagnatiello si rese conto che Giulia e l’altra donna con cui aveva una relazione si erano incontrate, scambiandosi confidenze.

        Alle 17 l’uomo lasciò il lavoro all’Armani Hotel e rientrò in motorino a Senago. Due ore dopo, quando Giulia mise piede nell’appartamento, fu aggredita e colpita con 37 fendenti, 11 dei quali mentre era ancora viva. Un arco temporale giudicato “troppo breve” per configurare la premeditazione. Assente anche in quelle che la Corte definisce “azioni neutre”, come il rincasare e attendere la convivente.

        Per i magistrati Impagnatiello non ha ucciso la compagna perché lei voleva lasciarlo o per timore di controversie giudiziarie future. La molla, si legge, fu l’umiliazione subita quando la donna lo smascherò davanti a chi rappresentava, per lui, la sua “proiezione pubblica”: il palcoscenico del bar milanese dove lavorava. Un colpo insopportabile per il suo narcisismo.

        La sentenza conferma l’ergastolo, ma esclude la premeditazione che la sorella di Giulia, Chiara, aveva invocato pubblicamente. Resta così un verdetto che sottolinea la brutalità del gesto, ma delimita il contesto in cui maturò, senza riconoscere un piano elaborato in anticipo.

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          Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer

          Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

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            Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.

            Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.

            La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.

            Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.

            Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.

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              La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste

              Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

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                Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

                Testo
                «Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.

                La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.

                A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.

                Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.

                Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.

                Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.

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