Cronaca Nera
Scandalo Baby Squillo: con la carta 20mila euro a settimana
Tra le prove chiave agli atti dell’inchiesta sulle baby squillo ci sono quattro screenshot presi dalle storie su Instagram di una delle adolescenti, consegnati alla polizia dalla madre dopo aver sporto denuncia

Questa foto è una foto di stock che non si riferisce in nulla a questo caso
Tra le prove chiave dell’inchiesta ci sono quattro screenshot presi dalle storie su Instagram di una delle adolescenti, consegnati alla polizia dalla madre dopo aver sporto denuncia. Un modo facile per condurre una “bella vita” piuttosto che un “bieco sfruttamento”. Sarebbe stata questa la percezione che le tre 16enni coinvolte nel giro di baby-prostituzione scoperto dall’indagine della Squadra Mobile di Bari avevano della loro condizione. Sui social, dove pubblicavano foto per adescare i clienti, si facevano chiamare “Squad girls”, e proprio delle immagini hanno contribuito a far partire le indagini.
Gli arresti
L’inchiesta ha portato a dieci arresti. In carcere sono finite quattro donne: Marilena Lopez di 35 anni, Antonella Albanese di 21 anni, Federica Devito di 25 anni ed Elisabetta Manzari di 24 anni. Due uomini, Ruggero Doronzo originario di Trani di 29 anni e Nicola Basile di 25 anni, sono stati arrestati. Due presunti clienti, Fabio Carlino e Roberto Urbino, sono agli arresti domiciliari, mentre per l’avvocato leccese Stefano Chiriatti, 55 anni, è stato disposto l’obbligo di dimora nel Comune di residenza. Anche Michele Annoscia, 45 anni, che gestiva una struttura ricettiva in cui “tollerava l’esercizio della prostituzione”, è sottoposto all’obbligo di dimora. Tutti sono accusati, a vario titolo, di aver indotto, favorito, sfruttato, gestito e organizzato la prostituzione delle ragazzine.

Uno degli screenshots
Le foto
Tra le prove chiave agli atti dell’inchiesta ci sono quattro screenshot presi dalle storie su Instagram di una delle adolescenti, consegnati alla polizia dalla madre dopo aver sporto denuncia. In una delle foto si vedono “cinque ragazze su un letto mentre stavano consumando una pizza in una struttura ricettiva a Monopoli”, con una scritta che recita “Squad girls”. Era questo il nome che avevano dato al gruppo le quattro donne arrestate, il cui ruolo era quello di istruire le ragazze sul da farsi. Altre immagini mostrano mani femminili con “banconote da 50 euro e una carta di credito”.
I guadagni facili
Le ragazzine venivano pagate in contanti, fino a 400 euro, o con carte di credito, ma ne intascavano solo la metà: il restante 50% andava agli sfruttatori. Alcune arrivavano a guadagnare anche 20.000 euro al mese. Nelle intercettazioni, una ragazza racconta: «Mi hanno dato 300 euro per un rapporto».
Girls Squad
Una seconda minorenne ricorda l’ingresso nel giro delle “Squad girls”: «All’uscita di scuola la mia amica mi ha proposto di prostituirmi per guadagnare dei soldi. Poi ci portarono in un b&b e iniziarono ad arrivare degli uomini. Se volevano prestazioni con entrambe ci davano 200 euro, se volevano una sola 100. Le prestazioni duravano dieci minuti, quel giorno vennero due-tre clienti, ad alcuni fornivamo rapporti con la bocca, ad altri completi».
20000 euro a settimana
E ancora: «Con lei facevo i soldi. Abbiamo avuto rapporti sessuali con un uomo di Lecce in albergo. Una volta con lui c’era anche un avvocato, presero una suite con una vasca enorme. Un’altra volta ci portò anche del fumo ma noi non lo prendemmo perché era di scarsa qualità. Poi ci diede una carta oro e ci disse che non potevamo prelevare più di 20.000 euro a settimana».
L’inchiesta rivela un sistema ben organizzato di sfruttamento di adolescenti, con adulti senza scrupoli che approfittavano della vulnerabilità e delle necessità economiche delle ragazze, alimentando un giro di prostituzione attraverso la manipolazione e la promessa di guadagni facili.
INSTAGRAM.COM/LACITYMAG
Cronaca Nera
Risponde alla chiamata dei carabinieri e perde 39.000 euro: ecco come funziona la truffa dei numeri clonati
Un sessantenne di Genova è stato truffato con la tecnica dello spoofing, un attacco sofisticato che replica numeri telefonici ufficiali, rendendo difficile distinguere la truffa dalla realtà. Con un finto maresciallo dei carabinieri e un “operatore” della banca, i truffatori hanno svuotato il suo conto. Ecco i dettagli di questo inganno e come difendersi.

Tutto inizia con una chiamata apparentemente da parte di un maresciallo dei carabinieri: avverte la vittima di una frode sul suo conto bancario. Poco dopo, segue una telefonata da un operatore della banca che conferma l’allarme e consiglia di trasferire i risparmi su un nuovo conto “sicuro”. La vittima, un sessantenne di Genova, esegue l’operazione tramite home banking e solo dopo scopre l’amara realtà: quei soldi, circa 39.000 euro, sono spariti per sempre.
Spoofing: una truffa sempre più sofisticata
Questo tipo di truffa, noto come spoofing, sfrutta la falsificazione dell’identità per ingannare le vittime. I truffatori possono clonare numeri telefonici di carabinieri, banche o altri enti, così da sembrare affidabili e mettere a segno il colpo. Nel caso del sessantenne, persino una verifica online non ha aiutato, poiché i numeri corrispondevano effettivamente a quelli reali delle forze dell’ordine e della banca.
Come difendersi dallo spoofing
Per evitare di cadere in trappola, è fondamentale non condividere mai dati personali o bancari via telefono e non avviare operazioni durante una chiamata, anche se la fonte sembra affidabile. In caso di dubbio, è sempre meglio chiamare direttamente la propria banca o l’ente coinvolto, usando numeri verificati. Chi sospetta di essere stato vittima di uno spoofing dovrebbe denunciare il fatto alla polizia postale o ai carabinieri per aiutare a fermare questi truffatori.
Cronaca Nera
Garlasco, parla il giudice che assolse Stasi: “A ogni verifica i dubbi aumentavano”
Stefano Vitelli, oggi giudice del Riesame a Torino, racconta il primo processo a Stasi nel 2009: “C’era qualcosa che non tornava, ma mancava la prova definitiva. E soprattutto mancava un movente”

Un’indagine complessa, una storia giudiziaria che si trascina da oltre 16 anni, un caso che continua a dividere. Oggi, mentre un nuovo nome è tornato nel registro degli indagati per l’omicidio di Chiara Poggi, a parlare è Stefano Vitelli, il magistrato che nel 2009 assolse Alberto Stasi in primo grado. All’epoca giudice per le udienze preliminari a Vigevano, oggi in forza al tribunale del Riesame di Torino, Vitelli ricorda perfettamente il processo abbreviato che lo portò a quella decisione. E lo fa con una lucidità che getta ancora più ombre sulla ricostruzione del delitto.
“A ogni verifica i dubbi aumentavano”
“Il ragionevole dubbio è essenziale per noi magistrati e per l’opinione pubblica”, dice Vitelli. Un principio che fu il cardine della sua sentenza di assoluzione. “Non voglio giudicare le inchieste successive, non ne conosco gli atti, ma quando processai Stasi, più si andava avanti e più aumentavano le domande senza risposta”.
Uno degli elementi chiave fu la perizia informatica: “Era una sera d’estate, me lo ricordo ancora. L’ingegnere mi chiamò e mi disse: ‘Dottore, è sul divano? Ci resti. Stasi stava lavorando al computer, sulla sua tesi’”. Un dettaglio che spiazzò gli inquirenti: il ragazzo, secondo l’accusa, avrebbe dovuto inscenare la sua attività online per crearsi un alibi, e invece risultò che stava effettivamente correggendo passaggi del suo lavoro con concentrazione e coerenza.
“C’era qualcosa che non tornava,” spiega Vitelli. “Si parlava di scarpe pulite, eppure i test dimostrarono che a volte si sporcavano, altre no. La bicicletta? Una testimone ne descriveva una diversa. Nessuna traccia di sangue nel lavabo. Ogni elemento che avrebbe dovuto rafforzare la tesi dell’accusa, finiva per renderla più fragile”.
Un puzzle senza pezzi combacianti
Vitelli non nasconde che, in quella fase processuale, c’erano aspetti che lo lasciavano perplesso. “Gli indizi erano tanti, ma contraddittori e insufficienti. Abbiamo interrogato i vicini: nessuno ha sentito rumori, nessuno ha visto movimenti strani. Stasi, poi, avrebbe dovuto compiere un delitto così brutale e subito dopo mettersi a lavorare alla tesi in modo lucido? Anche il dettaglio del dispenser del sapone faceva riflettere: aveva mangiato la pizza la sera prima, lavarsi le mani era un gesto normale”.
E poi c’era il movente. O meglio, la sua assenza. “Nei casi incerti, il movente diventa un elemento decisivo per chiudere il cerchio. Qui, un movente non c’era”.
E Andrea Sempio?
L’altro nome che emerge dalle carte è Andrea Sempio, oggi formalmente indagato dopo anni di voci e supposizioni. Vitelli ricorda solo un dettaglio della sua testimonianza: “Un alibi basato su uno scontrino conservato. Mi sembrò curioso”.
Quanto all’impatto mediatico del caso, il magistrato ha sempre cercato di restarne fuori: “Ho chiuso la porta a giornalisti, pm, avvocati. Di un processo si parla solo nelle aule di giustizia. L’unica cosa che mi dava fastidio era sentire dire che ero ‘pro’ o ‘contro’. Il nostro lavoro deve essere laico”.
Sedici anni dopo, i dubbi restano
Vitelli ha riletto la sua sentenza proprio in questi giorni, su richiesta della rivista Giurisprudenza penale. E la sua opinione non è cambiata: “Con gli elementi che avevo, l’assoluzione di Stasi era sacrosanta”.
Oggi, il caso Garlasco è di nuovo sotto i riflettori. Ma le stesse domande che Vitelli si pose nel 2009 rimangono senza risposta. Chi ha ucciso Chiara Poggi? E soprattutto: c’è davvero una verità che metterà fine a questa storia?
Cronaca Nera
Delitto di Garlasco, l’avvocato Lovati contro Corona: «Mi ha tradito, mi ha fatto bere per farmi parlare»
Il difensore, già indagato per diffamazione aggravata per le sue dichiarazioni sul caso Poggi, ora accusa l’ex re dei paparazzi di averlo manipolato: «Avevo bevuto, pensavo fosse una chiacchierata privata. Mi piacerebbe sapere a chi ha mandato quelle immagini».

Per la serie c’è ancora chi si fida di Fabrizio Corona?. L’ultimo a pentirsene è Massimo Lovati. l’avvocato di Andrea Sempio, il giovane tornato nel mirino dell’inchiesta sull’omicidio di Chiara Poggi, la ragazza di Garlasco uccisa nel 2007.
Lovati, che aveva fatto discutere per le sue uscite sopra le righe sul caso, si è scagliato contro l’ex re dei paparazzi accusandolo di averlo “tradito”. «Mi ha ripreso mentre bevevo, chiedendomi di parlare a ruota libera e di fare affermazioni volgari», ha dichiarato il legale. Spiegando che quella conversazione — poi diventata un video pubblicato sul canale YouTube di Corona — non era destinata alla diffusione pubblica.
Secondo il suo racconto, l’ex fotografo gli avrebbe promesso una chiacchierata informale, una sorta di “fuori onda” tra conoscenti. «Mi piacerebbe capire a chi ha mandato quel video», ha aggiunto l’avvocato. Sostenendo di essere stato “incastrato” in un momento di fragilità: «Avevo bevuto, non mi aspettavo che quelle parole venissero registrate».
Il filmato in questione, diffuso nel corso di una puntata di Falsissimo, la serie che Corona pubblica online, ha suscitato scalpore per il linguaggio crudo. E per le frasi contro alcuni protagonisti della vicenda giudiziaria di Garlasco. Proprio per quelle dichiarazioni, Lovati è oggi indagato per diffamazione aggravata. A denunciarlo sono stati gli avvocati Enrico e Fabio Giarda, figli del defunto professor Angelo Giarda, storico difensore di Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni di carcere per l’omicidio di Chiara Poggi.
Il legale di Sempio sostiene di essere stato manipolato: «Corona ha usato le mie parole per farsi pubblicità. Io non gli ho mai dato il consenso alla diffusione del video».
Un’accusa che riapre vecchie polemiche attorno a Fabrizio Corona e al suo modo di fare informazione-spettacolo. Dove la linea tra confessione privata e show mediatico sembra svanire.
Intanto l’inchiesta di Latina prosegue e Lovati dovrà spiegare ai magistrati non solo le sue frasi, ma anche il ruolo che attribuisce a chi — con una telecamera nascosta e un bicchiere di troppo — gli ha rovinato la reputazione.
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