Cronaca Nera
Sentenza scandalo: la ragazza stuprata ha aspettato troppo a dire no
Un ex sindacalista della Cisl era accusato di aver abusato di una hostess che si era rivolto a lui per una vertenza. Ma il tempo di reazione della donna secondo i giudici non proverebbe il suo dissenso

È stato assolto anche in Appello dall’accusa di violenza sessuale l’ex sindacalista della Cisl Raffaele Meola, accusato di aver abusato di una hostess che si era rivolta a lui nel marzo 2018 per una vertenza sindacale. La sentenza scandalosa si basa sul fatto che la hostess avrebbe reagito all’aggressione sessuale dopo venti secondi, non dando così prova sufficiente del suo dissenso. Saranno le motivazioni dei giudici di secondo grado a spiegare le ragioni su cui si basa questa decisione, che ha però già sollevato un’ondata di indignazione.
Decisione in linea con le precedenti
Una decisione in linea con la pronuncia dal tribunale di Busto Arsizio due anni fa, quando Meola era già stato assolto. Contro quella sentenza, la procura di Busto Arsizio aveva presentato ricorso con il pm Martina Melita, che nella sua requisitoria aveva chiesto due anni. A presentare il ricorso anche l’avvocatessa Maria Teresa Manente, responsabile dell’ufficio legale dell’associazione “Differenza Donna” a cui la hostess si era rivolta.
Indignazione
La nuova assoluzione ha provocato l’indignazione dell’associazione. “Faremo ricorso in Cassazione perché questo pronunciamento ci riporta indietro di trent’anni,” ha dichiarato Manente. “Questa sentenza rinnega tutta la giurisprudenza della Cassazione che da oltre dieci anni afferma che un atto sessuale, compiuto in maniera repentina, subdola, improvvisa, senza accertarsi del consenso della donna, è reato di violenza sessuale e come tale va giudicato.”
Secondo i giudici manca la prova
In primo grado il presidente del collegio Nicoletta Guerrero spiegò, dopo il verdetto di assoluzione, che “la vittima è stata creduta” ma che non era stata raggiunta la prova in dibattimento su quanto da lei denunciato.
Urge una riforma
“Questa vicenda giudiziaria evidenzia ancora una volta l’urgenza di una riforma della norma prevista dall’articolo 609 bis del codice penale che definisca in maniera chiara che il reato di stupro è qualsiasi atto sessuale compiuto senza il consenso della donna, il cui dissenso è sempre presunto, così come previsto dalla Convenzione di Istanbul,” attacca ancora l’avvocatessa Manente.
Senza consenso è sempre stupro
“Anche il comitato Cedaw (sull’eliminazione delle discriminazioni contro le donne, ndr.) in un caso del 2002 ha raccomandato all’Italia di intervenire su questa norma indicando il consenso all’atto sessuale quale elemento essenziale per la valutazione del reato. L’onere di provare il consenso della donna all’atto sessuale dev’essere fornito dall’imputato. L’attuale legge, unitamente ad una giurisprudenza non specializzata, favorisce la vittimizzazione secondaria delle donne che denunciano e ciò è inaccettabile”.
Differenza Donna al contrattacco
Sulla stessa linea, la presidente di “Differenza Donna”, Elisa Ercoli. “Questa sentenza è la riprova di quanto la nostra legge sia motivo di gravi e continue violenze istituzionali,” commenta. “Rifiutiamo una democrazia che impedisce di fatto alle donne l’ottenimento di giustizia in seguito a uno stupro. Chiediamo con urgenza una nuova legge con parametri evoluti di giustizia senza più avere le nostre istituzioni contro”.
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Cronaca Nera
“Lo scopo dell’avvelenamento era l’aborto, non l’omicidio di Giulia Tramontano”: le motivazioni della sentenza su Impagnatiello
Per i magistrati l’avvelenamento con topicida serviva a provocare la perdita del feto, che l’uomo considerava un ostacolo alla sua vita e alla sua carriera. Nessuna prova di un piano omicida coltivato nel tempo: il proposito di uccidere Giulia sarebbe maturato poche ore prima del delitto, dopo l’incontro tra la giovane e l’altra donna con cui il barman aveva una relazione.

Lo scopo dell’avvelenamento non era l’omicidio di Giulia Tramontano ma “l’aborto del feto”. Così scrive la Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza che ha confermato l’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, escludendo però la premeditazione. Secondo i giudici, l’ex barman aveva individuato nel bambino che Giulia portava in grembo “il problema” da eliminare per proteggere la sua carriera e la sua vita privata.
Il verdetto chiarisce che “non vi sono prove” per retrodatare l’intento omicida rispetto al 27 maggio 2023, giorno in cui la giovane fu uccisa. Le 59 pagine depositate spiegano che, pur riconoscendo la crudeltà e il vincolo della convivenza, non si può parlare di un piano coltivato nel tempo. Il proposito omicida sarebbe maturato solo nel pomeriggio del delitto. Quando Impagnatiello si rese conto che Giulia e l’altra donna con cui aveva una relazione si erano incontrate, scambiandosi confidenze.
Alle 17 l’uomo lasciò il lavoro all’Armani Hotel e rientrò in motorino a Senago. Due ore dopo, quando Giulia mise piede nell’appartamento, fu aggredita e colpita con 37 fendenti, 11 dei quali mentre era ancora viva. Un arco temporale giudicato “troppo breve” per configurare la premeditazione. Assente anche in quelle che la Corte definisce “azioni neutre”, come il rincasare e attendere la convivente.
Per i magistrati Impagnatiello non ha ucciso la compagna perché lei voleva lasciarlo o per timore di controversie giudiziarie future. La molla, si legge, fu l’umiliazione subita quando la donna lo smascherò davanti a chi rappresentava, per lui, la sua “proiezione pubblica”: il palcoscenico del bar milanese dove lavorava. Un colpo insopportabile per il suo narcisismo.
La sentenza conferma l’ergastolo, ma esclude la premeditazione che la sorella di Giulia, Chiara, aveva invocato pubblicamente. Resta così un verdetto che sottolinea la brutalità del gesto, ma delimita il contesto in cui maturò, senza riconoscere un piano elaborato in anticipo.
Cronaca Nera
Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer
Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.
Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.
La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.
Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.
Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.
Cronaca Nera
La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste
Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.
Testo
«Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.
La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.
A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.
Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.
Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.
Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.
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