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Cronaca Nera

Stasi e la semilibertà, la Procura dice no: “Intervista non autorizzata”. Ma il carcere lo smentisce

Il tribunale di Sorveglianza di Milano si è riservato la decisione: attesa entro cinque giorni. La difesa: “Nessuna infrazione”. Il carcere di Bollate conferma: l’intervista fu registrata durante un permesso premio e non ha violato le regole. Ma la Procura chiede il rigetto o almeno un rinvio.

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    Un’intervista, un permesso premio e ora un no che rischia di pesare sul percorso di reinserimento di Alberto Stasi, condannato a 16 anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi. La Procura generale di Milano ha espresso parere contrario alla concessione della semilibertà, richiesta dai legali del 41enne e discussa ieri mattina in un’udienza a porte chiuse davanti al tribunale di Sorveglianza.

    Motivo del rigetto? L’intervista rilasciata alla trasmissione “Le Iene” nel marzo scorso, secondo i magistrati non autorizzata. Una circostanza che per la sostituta procuratrice generale Valeria Marino rappresenta una possibile violazione e, di conseguenza, un elemento di ostacolo alla concessione della misura alternativa. In subordine, la Procura ha chiesto un rinvio per effettuare ulteriori accertamenti.

    Peccato che lo stesso carcere di Bollate, attraverso una relazione firmata dal direttore Giorgio Leggieri, abbia precisato che l’intervista è avvenuta durante un permesso premio regolarmente concesso e non ha violato alcuna prescrizione. “Non si sono rilevate infrazioni”, si legge nel documento. E anche la redazione de “Le Iene” ha preso posizione: “Se il direttore dice che non ci sono state infrazioni, ci chiediamo quale regola sia stata infranta”.

    Due versioni a confronto

    Una divergenza che ha creato confusione, anche mediatica. Subito dopo l’udienza, uno dei legali di Stasi, l’avvocato Glauco Gasperini, aveva parlato di un “parere parzialmente positivo” da parte della Procura, un’interpretazione basata – si è poi capito – sulle relazioni favorevoli del carcere. Ma l’ufficialità ha poi detto altro: il parere della Procura è negativo, proprio a causa di quella intervista.

    Il tribunale di Sorveglianza, presieduto dalla giudice Anna Maria Oddone, si è riservato la decisione, attesa entro cinque giorni. Non è la prima volta che il caso Stasi torna sotto i riflettori. Il 41enne è in carcere dal 2015, dopo la condanna definitiva per l’omicidio avvenuto a Garlasco nel 2007, e dal 2023 è stato ammesso al lavoro esterno come contabile.

    Semilibertà, un passo in più

    A differenza della liberazione condizionale, per cui serve l’ammissione di responsabilità, la semilibertà non richiede un “ravvedimento”. E Stasi, anche in interviste recenti, ha ribadito la propria innocenza, facendo riferimento alle nuove indagini su Andrea Sempio, ex amico di Chiara Poggi. Ma al di là delle dichiarazioni, a giocare a suo favore ci sono dieci anni di buona condotta e le relazioni positive di educatori e operatori penitenziari.

    Il passaggio alla semilibertà gli consentirebbe una permanenza più ampia all’esterno del carcere, non limitata al solo orario lavorativo. Un percorso di graduale ritorno alla vita civile, come previsto dalla normativa, che però ora si complica per un’intervista che – almeno secondo il carcere – non ha mai violato le regole.

    Un futuro segnato dal tempo

    A Stasi restano da scontare poco più di quattro anni, e tenendo conto dei benefici di legge (45 giorni di sconto ogni sei mesi), il fine pena potrebbe arrivare tra il 2028 e il 2029. Entro quel termine, potrebbe chiedere anche l’affidamento in prova, misura alternativa che prevede il reinserimento totale con obblighi specifici e lavori socialmente utili.

    Ma intanto il suo presente si decide a palazzo di giustizia, piano terra, davanti a un’aula chiusa al pubblico ma piena di telecamere fuori dalla porta. Stasi non c’era, per scelta e per rispetto – ha fatto sapere il suo legale – ma il suo volto è tornato ovunque. Un nome che continua a dividere, e che continua a far discutere. Anche quando, almeno formalmente, ha rispettato le regole.

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      Cronaca Nera

      “Lo scopo dell’avvelenamento era l’aborto, non l’omicidio di Giulia Tramontano”: le motivazioni della sentenza su Impagnatiello

      Per i magistrati l’avvelenamento con topicida serviva a provocare la perdita del feto, che l’uomo considerava un ostacolo alla sua vita e alla sua carriera. Nessuna prova di un piano omicida coltivato nel tempo: il proposito di uccidere Giulia sarebbe maturato poche ore prima del delitto, dopo l’incontro tra la giovane e l’altra donna con cui il barman aveva una relazione.

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        Lo scopo dell’avvelenamento non era l’omicidio di Giulia Tramontano ma “l’aborto del feto”. Così scrive la Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza che ha confermato l’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, escludendo però la premeditazione. Secondo i giudici, l’ex barman aveva individuato nel bambino che Giulia portava in grembo “il problema” da eliminare per proteggere la sua carriera e la sua vita privata.

        Il verdetto chiarisce che “non vi sono prove” per retrodatare l’intento omicida rispetto al 27 maggio 2023, giorno in cui la giovane fu uccisa. Le 59 pagine depositate spiegano che, pur riconoscendo la crudeltà e il vincolo della convivenza, non si può parlare di un piano coltivato nel tempo. Il proposito omicida sarebbe maturato solo nel pomeriggio del delitto. Quando Impagnatiello si rese conto che Giulia e l’altra donna con cui aveva una relazione si erano incontrate, scambiandosi confidenze.

        Alle 17 l’uomo lasciò il lavoro all’Armani Hotel e rientrò in motorino a Senago. Due ore dopo, quando Giulia mise piede nell’appartamento, fu aggredita e colpita con 37 fendenti, 11 dei quali mentre era ancora viva. Un arco temporale giudicato “troppo breve” per configurare la premeditazione. Assente anche in quelle che la Corte definisce “azioni neutre”, come il rincasare e attendere la convivente.

        Per i magistrati Impagnatiello non ha ucciso la compagna perché lei voleva lasciarlo o per timore di controversie giudiziarie future. La molla, si legge, fu l’umiliazione subita quando la donna lo smascherò davanti a chi rappresentava, per lui, la sua “proiezione pubblica”: il palcoscenico del bar milanese dove lavorava. Un colpo insopportabile per il suo narcisismo.

        La sentenza conferma l’ergastolo, ma esclude la premeditazione che la sorella di Giulia, Chiara, aveva invocato pubblicamente. Resta così un verdetto che sottolinea la brutalità del gesto, ma delimita il contesto in cui maturò, senza riconoscere un piano elaborato in anticipo.

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          Cronaca Nera

          Torturato per dieci giorni e ucciso in diretta sui social: non era una messinscena, aperta un’inchiesta sugli “amici” dello streamer

          Non più intrattenimento ma violenza reale. Raphael Graven, streamer con oltre mezzo milione di follower, è morto dopo giorni di dirette estreme. I legali dei due complici parlano di “finzione”, ma le immagini mostrano strangolamenti, ingestione di sostanze tossiche e colpi violentissimi. La procura apre un’inchiesta: i primi ad essere interrogati saranno proprio i due “amici”.

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            Raphael Graven, conosciuto in rete come Jeanpormanove, non era un esibizionista qualsiasi. A 46 anni, con oltre 582mila follower su TikTok e migliaia di spettatori fissi sulle dirette, aveva costruito la sua notorietà sulle “sfide impossibili”, al limite della sopportazione fisica. Ma il gioco è finito in tragedia. Dopo più di dieci giorni di live ininterrotti sulla piattaforma Kick, lo streamer è morto in diretta, mentre veniva sottoposto a sevizie sempre più estreme da parte dei suoi due complici, noti come Naruto e Safine.

            Strangolamenti, pugni al volto, vernici gettate in testa, ingestione di sostanze tossiche: un crescendo di violenze spacciate per “contenuto estremo” che in realtà celavano sofferenza autentica. Lo dimostrano i video, che raccontano ben più di una “messinscena” come sostengono i legali dei due uomini. Per oltre dieci minuti, il corpo senza vita di Graven è rimasto esposto in diretta, sotto lo sguardo incredulo di migliaia di spettatori, prima che qualcuno interrompesse la trasmissione.

            La procura ha aperto un’inchiesta. I primi a essere interrogati saranno proprio Naruto e Safine, i due che lo hanno accompagnato nelle ultime ore e che hanno continuato a spingerlo in performance sempre più estreme. La linea difensiva punta a presentare tutto come spettacolo, ma per gli investigatori la realtà appare diversa: la sofferenza era autentica e i segni lasciati sul corpo lo confermano.

            Jeanpormanove aveva scelto Kick dopo aver abbandonato Twitch, piattaforma dai regolamenti più rigidi che già lo aveva messo nel mirino. Qui aveva trovato un terreno fertile per moltiplicare le sfide e alimentare la propria fama. Un pubblico pronto a cliccare, commentare e condividere, mentre la spirale di violenza diventava intrattenimento.

            Ora la morte dello streamer obbliga a guardare oltre lo schermo: non più “content”, ma vita reale spinta fino al limite, dove l’applauso dei follower si trasforma in complicità silenziosa.

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              La trappola del falso Matteo Bocelli: anziana pronta a versare migliaia di euro, salvata dalla direttrice delle Poste

              Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

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                Una pensionata, convinta di dover fare un bonifico a Matteo Bocelli, stava per consegnare i suoi risparmi a un gruppo di truffatori che le avevano fatto credere di ricevere un regalo dal figlio del celebre cantante. A bloccare l’operazione è stata la direttrice dell’ufficio postale, che ha preso tempo fingendo un guasto e ha avvisato i carabinieri.

                Testo
                «Devo fare un bonifico a Matteo, il figlio di Andrea Bocelli». Con questa frase una donna anziana si è presentata allo sportello dell’ufficio postale di Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, convinta di star facendo un favore al giovane tenore e pronta a versare migliaia di euro. In realtà si trattava dell’ennesima truffa orchestrata da criminali che usano nomi celebri per raggirare persone fragili.

                La pensionata, come racconta il Corriere della Sera, aveva ricevuto sul cellulare un messaggio con la promessa di un regalo da parte della famiglia Bocelli. Poco dopo, un presunto autista le aveva chiesto di versare denaro su un conto per il recapito del pacco. La donna non aveva dubbi sulla veridicità della richiesta e, senza esitazione, si era recata alle Poste.

                A salvarla è stata l’intuizione della direttrice, Cristina Remondini. «La cliente chiedeva di effettuare un versamento in denaro e quando ho letto la causale mi sono subito insospettita», ha raccontato. Per guadagnare tempo e far ragionare la donna, la funzionaria ha finto un problema tecnico al terminale. Nel frattempo, ha contattato i carabinieri e avvisato il marito della signora.

                Quando l’uomo è arrivato in ufficio, la truffa è emersa in tutta la sua chiarezza. I due coniugi si sono poi recati in caserma per sporgere denuncia, mentre l’audio e i messaggi ricevuti sono stati acquisiti dagli inquirenti.

                Il meccanismo era semplice e subdolo: fingere di essere un personaggio noto, in questo caso Matteo Bocelli, e convincere la vittima a versare denaro in cambio di un regalo inesistente. Una variante del cosiddetto “pacchetto truffa” che continua a mietere vittime soprattutto tra gli anziani.

                Grazie alla prontezza della direttrice, questa volta i risparmi della donna sono stati salvati. Un intervento che conferma quanto la vigilanza quotidiana di chi lavora a contatto con il pubblico possa fare la differenza contro chi sfrutta ingenuità e buona fede.

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