Italia
Il paradosso di Zakaria: aiuta la polizia e viene espulso
Un migrante marocchino a Torino segnala un ladro e contribuisce al suo arresto. Ma, privo di documenti, riceve un decreto di espulsione. “Pensavo di aver fatto una buona azione, ora devo lasciare l’Italia.”

Zakaria Nagda è arrivato in Italia otto mesi fa, attraversando Spagna e Francia prima di raggiungere Torino. Come molti migranti, il suo obiettivo era costruirsi una vita dignitosa, trovare un lavoro e preparare il futuro della sua famiglia. Senza documenti ma con tanta volontà, ha iniziato a lavorare montando e smontando i banchi al mercato di Piazza della Vittoria, nel quartiere Madonna di Campagna.
L’onestà di Zakaria non è bastata
La notte del sette maggio, però, la sua vita ha preso una svolta inaspettata. Alle tre del mattino, un uomo ha sfondato la vetrina di un Carrefour vicino, cercando di rubare merce. La polizia è intervenuta rapidamente e, trovandosi davanti a Zakaria, ha pensato fosse lui il ladro. Ma Zakaria non aveva nulla a che fare con il furto: stava semplicemente lavorando. È stato proprio lui a segnalare agli agenti il vero colpevole, indicando dove si fosse nascosto. Grazie alle sue informazioni, il ladro è stato arrestato e la refurtiva recuperata.
Burocrazia spietata… ma fino a quando?
Poteva sembrare il finale di una storia di onestà e senso civico, ma poche ore dopo, la situazione si è ribaltata. Visionando le telecamere di sorveglianza, la polizia ha notato che Zakaria era presente durante il furto, intento a sistemare il banco del mercato. Nonostante la testimonianza di un collega italiano, che ha confermato che stesse lavorando e non fosse coinvolto nel crimine, gli agenti hanno deciso comunque di portarlo all’ufficio immigrazione. Ed è qui che la burocrazia ha colpito duramente.
Via da qui in sette giorni
Zakaria non ha mai richiesto il permesso di soggiorno perché, senza un contratto di lavoro, non aveva i requisiti per farlo. E così, da testimone chiave nell’arresto di un ladro, si è improvvisamente trasformato nel destinatario di un decreto di espulsione. Entro sette giorni dovrà lasciare l’Italia. “Pensavo di aver fatto una buona azione,” ha detto incredulo. “Voglio solo lavorare e vivere onestamente a Torino. Ho mia moglie ancora in Marocco e vorrei farla venire qui.”
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Italia
Dall’alchimia alla scienza: il CERN trasforma il piombo in oro!
Il sogno degli alchimisti diventa realtà nell’acceleratore di particelle di Ginevra. Grazie alla fisica, il metallo vile si è davvero trasformato in quello nobile, anche se solo per un microsecondo. Una dimostrazione che il futuro potrebbe riservare ancora incredibili sorprese.

Nel corso dei secoli, l’idea di trasformare il piombo in oro ha alimentato sogni, leggende e ossessioni. Gli alchimisti del Medio Evo ci hanno provato con ogni mezzo, alla ricerca della leggendaria pietra filosofale che avrebbe dovuto compiere la trasmutazione e garantire ricchezza eterna. Quello che sembrava un sogno impossibile, oggi si è invece realizzato, non per magia ma grazie alla scienza. E più precisamente nel cuore del CERN di Ginevra, il laboratorio europeo di fisica delle particelle.
Una trasmutazione possibile
L’acceleratore LHC (Large Hadron Collider), il più grande e potente al mondo, ha dimostrato che la trasmutazione è possibile, anche se ben lontana dalla visione degli antichi. Dal 2015, in diversi cicli di attività, i nuclei di piombo sono stati accelerati a velocità incredibili, vicine a quelle della luce. Ogni secondo, 89.000 nuclei di piombo si sono trasformati in oro. In totale, il processo ha portato alla formazione di 86 miliardi di nuclei d’oro. Una cifra enorme, ma che corrisponde a soli 29 trilionesimi di grammo. Non esattamente il bottino che potrebbe arricchire gli scienziati del CERN.
Il futuro prossimo
La scienza, tuttavia, non è interessata alle ricchezze materiali. L’esperimento ha dimostrato un principio fondamentale. Ovvero che l’oro può davvero essere creato da un elemento più pesante attraverso un processo di decadimento indotto dalla luce, cioè i fotoni. “L’antico sogno della trasmutazione chimica in oro degli alchimisti è stato realizzato dalla scienza,” ha spiegato Chiara Oppedisano, ricercatrice dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), che ha contribuito allo studio.
Dal Bosone di Higgs alla trasmutazione
Per capire come è avvenuta la trasformazione, bisogna immaginare il comportamento dei nuclei di piombo quando vengono accelerati nel LHC. Normalmente, il colossale acceleratore è utilizzato per studiare le collisioni tra protoni. Nel 2012, proprio qui è stato scoperto il famoso Bosone di Higgs, la particella chiave per comprendere la struttura fondamentale dell’universo. Ma per alcune settimane all’anno, invece dei protoni, vengono impiegati i nuclei di piombo, analizzati dal rivelatore ALICE, che ha appena pubblicato i risultati di questa incredibile trasformazione.
Il piombo diventa oro per sottrazione
Il meccanismo della trasmutazione segue una logica molto diversa da quella degli alchimisti medievali. Piombo e oro sono effettivamente legati, vicini nella tavola periodica. Il piombo ha numero atomico 82, mentre l’oro 79. Accelerando i nuclei di piombo al 99,999993% della velocità della luce, si sviluppa un fortissimo campo elettromagnetico, un alone che genera fotoni. Se due nuclei di piombo si scontrano direttamente, il loro impatto è studiato per rivelare nuove particelle. Ma se si sfiorano, allora accade qualcosa di straordinario. I fotoni vengono assorbiti dal nucleo vicino, che in risposta espelle uno, due o tre protoni. Ed è proprio questo il segreto della trasmutazione. Perdendo un protone, il piombo diventa tallio. Perdendone due, si trasforma in mercurio. E quando ne perde tre, il sogno degli alchimisti prende vita: il piombo diventa oro.
La trasformazione, nota come crisopea, è quindi un processo fisico estremamente sofisticato, che richiede conoscenze di relatività e fisica delle particelle, oltre a strumenti all’avanguardia come LHC. Non basta un crogiolo o la pietra filosofale: serve la scienza, con la sua precisione e la sua capacità di indagare i segreti della materia.
Italia
Papa Leone XIV riapre l’appartamento papale per un ritorno alla tradizione
Dopo la scelta di Papa Francesco di vivere a Santa Marta, il nuovo Pontefice rompe i sigilli dell’appartamento nel Palazzo Apostolico, pronto a personalizzarlo secondo le sue esigenze. Tra cappelle, biblioteche e persino un campo da tennis, ecco i servizi della residenza papale.

Con l’elezione di Papa Leone XIV, il tradizionale appartamento papale nel Palazzo Apostolico torna sotto i riflettori. Dopo essere rimasto sigillato alla morte di Papa Francesco, ora si prepara ad accogliere il nuovo Pontefice. Come da prassi, l’appartamento viene personalizzato per ogni nuovo inquilino, adattandolo alle sue esigenze e preferenze. Questo significa come per tutti i nuovi inquilini rinfrescare pareti, modificare arredi, aggiornare l’illuminazione e rimodernare impianti e servizi. Giovanni Paolo II amava meditare nel suo studio, decorato con immagini mariane e reliquie, mentre Pio X (1903-1914) fu il primo a scegliere di trasferirsi in un piano più alto rispetto ai suoi predecessori, che abitavano al primo livello del palazzo. L’obiettivo della rinfrescata è creare un ambiente che rifletta la personalità del nuovo Papa e faciliti la sua routine quotidiana.
Un appartamento ricco di storia e funzionalità
Situato nella Terza Loggia del Palazzo Apostolico, l’appartamento conta dieci ampie stanze, tra cui uno studio privato, luogo di meditazione e lavoro. Nella camera da letto c’è un grande scrittoio ottocentesco, perfetta per riflessioni e scrittura. L’appartamento dispone anche di una grande cappella, lo spazio più ampio dell’appartamento, dedicato alla preghiera. Nell’appartamento è anche disponbile una suite medica, dotata di attrezzature per interventi d’urgenza, introdotta negli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II.
Perché Leone XIV non ha seguito l’esempio di Papa Francesco?
La decisione di Papa Francesco di vivere a Casa Santa Marta e non nel Palazzo Apostolico fu rivoluzionaria. Francesco scelse una residenza più semplice, condivisa con altri prelati e lontana dagli spazi più formali e isolati del Vaticano. Il suo obiettivo era quello di adottare uno stile di vita più vicino alla comunità e comunicare una Chiesa più accessibile. Leone XIV, invece, sembra intenzionato a trasferirsi nell’appartamento papale, ripristinando la tradizione. La scelta riflette una visione più istituzionale del papato, che abbraccia la storia e le funzioni simboliche dell’edificio. Nei pressi dell’appartamento è situati un giardino pensile e gli alloggi per le suore benedettine tedesche che gestiscono la Prefettura della Casa Pontificia. Inoltre si trova anche una biblioteca privata, con la celebre finestra da cui il Papa si affaccia ogni settimana per l’Angelus domenicale. Dopo la perdita del Quirinale con l’Unità d’Italia (1870), i Papi hanno vissuto in questo appartamento, che inizialmente occupava il primo piano, mentre ai piani superiori risiedeva la servitù. Fu Pio X a trasferirsi nella Terza Loggia nel 1903, dando inizio a una nuova tradizione.
Il tempo libero del Papa sportivo
Se Giovanni Paolo II fu il primo Papa a introdurre una piscina nella residenza estiva di Castel Gandolfo, Leone XIV potrebbe invece sfruttare il campo da tennis del Vaticano, situato vicino alle Mura Leonine e nascosto dal verde. Già da cardinale, Leone XIV frequentava il campo e potrebbe continuare a coltivare la sua passione per il tennis, un’attività insolita per un Pontefice ma perfettamente integrata nella vita moderna del Vaticano.
Italia
Cara Lucarelli, fare giornalismo non è come giudicare coppie che sgambettano sulla pista da ballo
Che Selvaggia Lucarelli non fosse famosa per la moderazione lo sapevamo già. Ma stavolta la penna (o meglio, la tastiera) le è costata cara. Il Tribunale di Torino ha condannato la giornalista a risarcire 65mila euro a Claudio Foti, lo psicoterapeuta finito — e poi uscito — nel tritacarne mediatico del caso Bibbiano. A questi si aggiungono altri 15mila euro di multa. Totale? Un bel gruzzolo per cinque articoli scritti tra il 2019 e il 2020 sul Fatto Quotidiano, giudicati non solo poco eleganti, ma apertamente diffamatori.

Quando l’opinione diventa offesa: è arrivato il verdetto sul caso Bibbiano. Secondo i giudici torinesi, la Lucarelli avrebbe superato i limiti del diritto di critica giornalistica, trasformando l’approfondimento in uno show personale. E chi conosce il suo stile sa che i confini tra ironia pungente e stile da tribunale popolare spesso si fanno sfocati. In particolare, il tribunale ha sottolineato che le sue parole sarebbero state «volutamente costruite per screditare» Foti, associandolo persino a vicende tragiche come il suicidio di una bidella. Altro che inchiesta giornalistica: per il giudice c’era “pervicace volontà diffamatoria”.
Un boomerang mediatico per Selvaggia
C’è qualcosa di ironico — se non profetico — nel fatto che Lucarelli, spesso paladina del tribunale social, si ritrovi condannata in quello reale. Per anni ha inchiodato persone a colpi di post, articoli e tweet, sempre col ditino alzato e il tono da arcigna insegnante del liceo stufa della classe. Ma stavolta la giustizia le ha spiegato che anche i giornalisti devono fermarsi un passo prima della gogna.
Foti assolto: una lezione di giornalismo etico
Claudio Foti, ricordiamolo, è stato definitivamente assolto dalla Corte di Cassazione nell’aprile 2023. Nessuna responsabilità, nessun reato. Eppure, durante l’inchiesta, ha dovuto fronteggiare un assalto mediatico feroce. Lucarelli, secondo il tribunale, avrebbe alimentato quella narrazione, trasformando un’indagine in uno spettacolo. Ed ecco che la realtà le presenta ora il conto, con interessi e spese legali.
Libertà di stampa o libertà di… spettacolarizzare?
Il caso Lucarelli-Foti riapre un tema cruciale: dove finisce la critica e dove inizia la diffamazione? Quando il giornalismo si fa show, chi ci rimette è sempre la verità. Scrivere non è un atto di onnipotenza, il diritto di cronaca va esercitato con precisione chirurgica, non con la mazza da demolizione. Il tribunale ha tracciato una linea netta: la dignità delle persone non può diventare carne da social.
Fare il giornalismo non è come giudicare coppie che sgambettano sulla pista da ballo
Forse ora Selvaggia capirà che non tutto può essere trattato come un post su Facebook o un giudizio a Ballando con le Stelle. Il giornalismo richiede rispetto, rigore e, ogni tanto, anche un pizzico di umiltà. E soprattutto: se vuoi fare la giudice, assicurati che non ci sia un giudice vero pronto a giudicarti a tua volta. Che la Lucarelli non fosse famosa per la moderazione lo sapevamo. Ma stavolta la penna (o meglio, la tastiera) le è costata cara. Il Tribunale di Torino l’ha condannata a risarcire 65mila euro a Claudio Foti, lo psicoterapeuta finito — e poi uscito — nel tritacarne mediatico del caso Bibbiano. A questi si aggiungono altri 15mila euro di multa. Totale? Un bel gruzzolo per cinque articoli scritti tra il 2019 e il 2020 sul Fatto Quotidiano, giudicati non solo poco eleganti, ma apertamente diffamatori. Chi di titolo clickbait colpisce…
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