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Cronaca

La Badia di Tiglieto salvata da Legacoop Liguria con una raccolta fondi valida fino al 31 dicembre 2024

E’ l’abbazia cistercense più antica in Italia, custodita dal paradiso naturalistico dell’Appennino ligure e quasi mille anni di storia, e da alcune settimane è ufficialmente in vendita al miglior offerente.

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    La Badia di Tiglieto, l’abbazia cistercense più antica d’Italia situata in Liguria, ilo scorso maggio era stata messa in vendita. Si tratta di un complesso storico, immerso nel paesaggio dell’Appennino ligure, di proprietà della famiglia Salvago Raggi. L’annuncio della vendita era apparso su un portale di operazioni immobiliari di lusso. Nell’annuncio si elencano tutte le potenzialità del sito, inclusi i 78 ettari di terreno e la possibilità di realizzare un eliporto.

    Una abbazia del XII secolo

    Nonostante il valore culturale e storico dell’abbazia, che risale al XII secolo, la vendita ha sollevato preoccupazioni sia tra la comunità locale che tra gli studiosi d’arte. Lo storico dell’arte Giacomo Montanari in questi mesi ha sottolineato il rischio di trasformazione del complesso in un resort di lusso, privando la comunità – e non solo – di un patrimonio valore culturale. Montanari ha anche criticato le istituzioni per la gestione passata del sito, sostenendo che i restauri finanziati con fondi pubblici dovrebbero garantire la fruizione pubblica del bene.

    La prima comunità cistercense in Italia

    Il sindaco di Tiglieto, Giorgio Leoncini, intanto, assicura che qualsiasi progetto futuro dovrà passare per le autorizzazioni comunali e rispettare i vincoli imposti dalla Soprintendenza. Ma la possibilità di privatizzare questo patrimonio continua a preoccupare. Molti chiedono un intervento delle istituzioni per salvaguardare il complesso e garantire che resti accessibile al pubblico. A quel punto si è mossa Legacoop Liguria per lanciare un crowdfunding che impedisca la cessione a privati di un patrimonio architettonico e religioso della regione. Il progetto, pubblicato sulla piattaforma Produzioni dal basso, si chiama appunto “Salva la Badia di Tiglieto”. La raccolta fondi per salvare la Badia andrà avanti fino al prossimo 31 dicembre.

    Cercare un equilibrio tra cultura ed economia

    La Badia di Tiglieto, conosciuta anche come Abbazia di Santa Maria alla Croce – con la sua storia millenaria, è un simbolo culturale non solo per la Liguria ma per tutta l’Italia. L’abbazia di Santa Maria alla Croce, è stata fondata il 18 ottobre del 1120 da una comunità di monaci provenienti dalla località francese di La Fertè, guidati dall’abate Pietro, dando così origine alla prima comunità cistercense in Italia. Il richiamo a Maria e alla croce del nome dell’abbazia si collega all’ordine cistercense, che fu fondato nel 1098 in Francia, a Citeaux.

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      Cronaca

      C’è l’ombra della ‘ndrangheta sull’attentato a Sigfrido Ranucci. E ora dalla redazione di Report confessano: “Abbiamo paura”

      L’esplosione davanti alla villetta di Campo Ascolano ha distrutto due auto: la vettura di Ranucci e quella della figlia. Fra le piste seguite dalla DDA di Roma spicca il coinvolgimento della criminalità organizzata, ma molte ombre restano aperte.

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      Sigfrido Ranucci

        Fra le piste sulle quali lavorano i carabinieri del Nucleo investigativo di Frascati e la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, la più accreditata in queste ore è quella che porta alla ’ndrangheta: il giornalista è sotto scorta dal 2021 dopo l’emergere di intercettazioni su un piano di un narcotrafficante, legato a clan calabresi, che avrebbe commissionato la sua eliminazione. Ma la scenografia dell’attentato — l’ordigno artigianale ad alto potenziale, la sua collocazione davanti al cancello, l’assenza di telecamere nelle immediate vicinanze — non esclude altri mandanti o complicità locali.

        Dai primi accertamenti emerge che l’ordigno era confezionato con polvere pirica pressata, oltre un chilo di esplosivo, e piazzato probabilmente tra due vasi sul marciapiede; gli artificieri propendono per un innesco mediante miccia, meno sofisticato di un timer ma non per questo meno letale. Se confermata, la potenza della bomba indica la volontà di inviare un messaggio netto: non più soltanto minacce verbali o buste con proiettili, ma un gesto in grado di terrorizzare una comunità intera.

        Ranucci stesso ha ricordato, e lo ha fatto con voce ferma, la lunga scia di intimidazioni subite nel tempo: dagli atti di disturbo e dai pedinamenti fino al rinvenimento di proiettili calibro 38 davanti alla sua abitazione in passato. «Qui l’anno scorso sono stati trovati proiettili», ha detto riferendosi alla vicenda. E ha sottolineato un elemento cruciale: la scorta lo protegge in movimento, ma non presidia la casa; il confine tra tutela e vulnerabilità resta pertanto evidente.

        La pista della ’ndrangheta torna alla luce anche per la natura degli ambienti citati nelle indagini: narcotraffico internazionale, rapporti con gruppi di destra eversiva e legami con reti criminali internazionali che in passato, secondo ricostruzioni giudiziarie e di cronaca, hanno utilizzato modalità violente per intimidire o eliminare avversari. Un narcotrafficante intercettato nel carcere di Padova era finito sotto la lente degli investigatori già per un presunto ordine di eliminazione di Ranucci, circostanza che aveva dato origine al programma di protezione rafforzato. Quel mandante è detenuto, ma i sicari — indicati come stranieri — non sarebbero stati identificati.

        Un’esplosione nel silenzio della sera, un lampo di fuoco davanti al cancello di casa e la paura che qualcosa di molto più grande si stia muovendo nell’ombra. È la notte che ha sconvolto la vita di Sigfrido Ranucci, giornalista e conduttore di Report, la cui auto è stata distrutta da una bomba artigianale piazzata davanti all’abitazione di famiglia a Campo Ascolano, vicino Pomezia.

        A raccontare l’angoscia di quelle ore è Giorgio Mottola, inviato della stessa trasmissione, che ha parlato a Un Giorno da Pecora su Rai Radio1. “L’ho saputo direttamente da lui – ha spiegato –. Sigfrido mi ha chiamato per rassicurarmi, ma era ancora sotto shock. Sua figlia aveva parcheggiato la macchina mezz’ora prima dell’esplosione, e lui era rientrato da dieci minuti. La cosa più inquietante è che non tornava a casa da una decina di giorni, era in giro per lavoro. È molto probabile che qualcuno lo abbia monitorato e lo stesse aspettando”.

        Un dettaglio che getta una luce sinistra sulla vicenda. “L’esplosione è stata provocata da una miccia accesa manualmente – ha aggiunto Mottola –. Non da un timer o un comando a distanza. Qualcuno era lì, sul posto, e dopo l’esplosione è stato visto fuggire un soggetto incappucciato”. Un’azione che lascia pochi dubbi sul fatto che si sia trattato di un atto intenzionale, studiato e preparato.

        Ranucci, che da anni vive sotto tutela a causa delle minacce ricevute per le sue inchieste, ha raccontato di aver sentito “un boato tremendo” e di aver temuto per la figlia, passata proprio in quel punto pochi minuti prima. “È profondamente spaventato – conferma Mottola – non solo per sé, ma per la sua famiglia. È preoccupato, come lo siamo anche noi, perché non capiamo da dove arrivi questa minaccia, né se si tratti di un avvertimento di qualcosa che potrebbe accadere ancora”.

        Le indagini, affidate alla Distrettuale Antimafia di Roma e ai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Frascati, proseguono in più direzioni. La bomba, un ordigno artigianale a base di polvere pirica compressa, era stata posizionata accanto alla Opel Adam di Ranucci e ha distrutto anche l’altra vettura della famiglia, una Ford Ka Plus utilizzata dalla figlia. La deflagrazione è stata talmente potente da danneggiare la facciata della villetta e far tremare le case vicine.

        I residenti di Campo Ascolano parlano di “una notte da incubo”. Alcuni testimoni avrebbero riferito di aver visto un uomo incappucciato allontanarsi di corsa verso un boschetto, pochi istanti prima dello scoppio. Altri, nei giorni precedenti, avevano segnalato piccole esplosioni nella stessa zona: “forse delle prove – dicono – per misurare i tempi di reazione delle forze dell’ordine”.

        Il giornalista era già sotto scorta dal 2021, dopo che un narcotrafficante legato alla ’ndrangheta era stato intercettato mentre pianificava un attentato contro di lui. Negli anni, Ranucci ha più volte denunciato minacce, pedinamenti e proiettili lasciati davanti casa, ma l’attacco di questa notte segna un salto di livello.

        Nel mondo dell’informazione cresce l’allarme. La redazione di Report ha parlato di “atto gravissimo” e ha espresso “solidarietà totale” al proprio direttore. Il presidente della Rai, Marinella Soldi, e l’amministratore delegato Giampaolo Rossi hanno condannato l’attacco definendolo “un attentato alla libertà di stampa”.

        Anche la politica ha reagito con durezza. La premier Giorgia Meloni ha scritto che “lo Stato difenderà sempre chi cerca la verità”. Il vicepremier Matteo Salvini ha parlato di “atto inaccettabile”, mentre l’ex deputato Alessandro Di Battista ha denunciato “un clima tossico che da troppo tempo isola i giornalisti d’inchiesta”.

        Mottola, che lavora fianco a fianco con Ranucci da anni, non nasconde la paura. “Siamo abituati a convivere con le minacce, ma questa volta è diverso. È successo davanti casa, con la famiglia dentro. È un segnale preciso, e non possiamo ignorarlo”.

        Oggi la strada dove tutto è avvenuto è ancora chiusa, presidiata dalle forze dell’ordine. Davanti al cancello annerito, restano i segni del fuoco e il rumore lontano del mare. Un quartiere che fino a ieri era tranquillo e oggi vive nella paura.

        “Sigfrido è un uomo che non si lascia intimidire – dice Mottola – ma questa volta è stato colpito nel suo spazio più intimo, quello della famiglia. Ed è questo che fa più male. Ci sentiamo tutti feriti, come redazione, come colleghi, come cittadini. Perché quando salta in aria la macchina di un giornalista, non esplode solo un’auto: si colpisce la libertà di tutti”.

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          Cronaca

          “Le donne hanno paura di denunciare”: quando il silenzio alimenta i femminicidi

          Tra stereotipi sociali, sfiducia nelle istituzioni e rischio di ritorsioni, molte donne evitano di rivolgersi alla polizia. Conoscere i propri diritti, avere reti di sostegno e strumenti efficaci di tutela può fare la differenza prima che sia troppo tardi.

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          femminicidi

            La cronaca continua a raccontarci storie tragiche: femminicidi che scuotono l’Italia, donne uccise dall’uomo che dicevano di amare, o che erano convinte potesse cambiare. Eppure i numeri rivelano un dato allarmante: la maggior parte delle donne che finiscono uccise non aveva mai sporto denuncia né parlato delle violenze subite. Perché succede? E soprattutto, quando è possibile evitare il peggio, quali strumenti ha una donna per denunciare.

            Perché molte donne non denunciano

            I problemi sono molteplici e radicati — e spesso combinati fra loro:

            1. Paura delle conseguenze
              La ritorsione è un timore concreto: violenza fisica, psicologica, persecuzioni, perdita del lavoro, isolamento. Denunciare significa spesso mettere tutto allo scoperto, sperimentare vergogna, giudizio da parte di familiari, amici, vicini.
            2. Sfiducia nel sistema e lentezza della giustizia
              Alcune donne credono che non verranno credute, che le forze dell’ordine non prenderanno sul serio la loro storia. Anche le istituzioni stesse ammettono che le leggi esistono, ma non sempre vengono applicate con efficacia. Secondo la Commissione parlamentare d’inchiesta, le misure di protezione sono usate troppo poco.
            3. Cultura patriarcale e stereotipi
              In molti casi la violenza è minimizzata: commenti su cosa indossava la donna, su come si sia comportata, sul perché non abbia reagito prima. L’educazione, l’ambiente sociale e i modelli di genere giocano un ruolo importante nel far sentire la donna colpevole invece che vittima.
            4. Condizioni personali e dipendenza
              Dipendenza economica, presenza di figli, paura di dover affrontare da sola la vita dopo la denuncia, mancanza di risorse per spostarsi o cambiare casa: tutte queste sono ragioni che spingono al silenzio.
            5. Rubinetto delle denunce chiuso
              I dati confermano che solo il 15% delle donne che verranno uccise in un rapporto intimo aveva sporto denuncia o querela per abusi precedenti. In vari casi, la donna non ha parlato con nessuno delle violenze subite.

            Quando è possibile evitare il peggio

            Non sempre il tragico è inevitabile: ci sono segnali che possono cambiare il corso degli eventi, se raccolti e gestiti in tempo.

            • Riconoscere i reati spia: atti persecutori/stalking, maltrattamenti in famiglia, violenze sessuali — anche se piccoli o sporadici, sono campanelli d’allarme.
            • Intervenire tramite reti di sostegno: amici, parenti, centri antiviolenza, psicologi. Parlare può alleggerire il carico emotivo e far emergere l’escalation del rischio.
            • Accedere alle misure di protezione previste dalla legge: ammonimento, divieto di avvicinamento, allontanamento del partner violento, braccialetto elettronico. Il problema è che in molti casi queste misure non vengono applicate.

            Come denunciare: strumenti e percorso

            Ecco cosa può fare una donna che decide di denunciare una violenza:

            1. Forze dell’ordine
              Presentarsi in una caserma dei Carabinieri o in una stazione di Polizia. È possibile sporgere denuncia o querela. Anche il Pronto Soccorso può attivarsi (medici, sanitari) per segnalare lesioni o violenza fisica.
            2. Utilizzare i numeri utili
              • Il numero nazionale antiviolenza 1522, attivo 24 ore al giorno, per consigli, ascolto e supporto.
              • Centri antiviolenza e organizzazioni della rete D.i.Re, che offrono aiuto pratico, legale, psicologico anche in anonimato.
            3. Procedura legale
              La denuncia deve contenere la descrizione dei fatti subiti: date, modalità, aggressore (se noto), testimoni, eventuali documenti o prove: messaggi, foto, referti medici. Da lì il pubblico ministero può aprire un’inchiesta, e ci sono strumenti cautelativi (ad esempio il divieto di avvicinamento).
            4. Aspetti pratici e supporto
              • Richiedere assistenza legale esperta in materia di violenza di genere.
              • Mettere al sicuro documenti importanti, denaro, telefonino.
              • Preparare un piano per la sicurezza: a chi rivolgersi, dove andare, eventuale rifugio.
              • Se possibile anche supporto psicologico, per affrontare le conseguenze emotive della denuncia.

            Cambiare rotta: politiche, cultura, educazione

            Per ridurre davvero i femminicidi non basta “colpa delle donne che non denunciano”: serve un cambiamento strutturale.

            • Formazione continua delle forze dell’ordine, dei giudici, degli operatori sanitari sulle caratteristiche della violenza di genere e sui pregiudizi che impediscono di riconoscerla.
            • Maggiore accesso alle case rifugio, tutela economica per chi decide di uscire da una relazione violenta.
            • Potenziare le leggi esistenti e assicurarne una applicazione efficace, con strumenti come il braccialetto elettronico, l’allontanamento immediato, le misure cautelari.
            • Educazione di genere fin dalle scuole: insegnare rispetto, riconoscere i segnali, costruire relazioni basate sull’uguaglianza.

            I femminicidi non sono inevitabili. Ma finché le denunce restano poche, le leggi restano spesso sulla carta e la cultura patriarcale persiste, il rischio permane.

            Ogni donna che denuncia, ogni persona che ascolta e crede, ogni istituzione che protegge è un passo verso una società in cui la protezione non sia privilegio ma diritto.

            Conoscere i propri diritti, avere il supporto giusto e usare gli strumenti previsti dalla legge non è solo una speranza: è la via per evitare che storie come quelle che commuovono i titoli di cronaca diventino la norma.

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              Storie vere

              Elena Maraga, la maestra licenziata per OnlyFans, rilancia con un calendario: “Ogni curva parla di forza e libertà”

              La vicenda aveva fatto discutere: licenziata per aver aperto un profilo OnlyFans, Elena Maraga non si è arresa. Oggi presenta un calendario autoprodotto e rivendica la scelta come atto di emancipazione e autodeterminazione, trasformando la vicenda in un nuovo percorso professionale.

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                La chiamavano la “maestra di OnlyFans” e la sua storia aveva scatenato polemiche. Oggi Elena Maraga, 29 anni, dopo la bufera e il licenziamento dalla scuola materna cattolica del Trevigiano in cui insegnava, ha scelto di voltare pagina. Non solo non si è fermata, ma ha deciso di reinventarsi partendo proprio da quel caso che l’aveva messa all’angolo. Il suo nuovo progetto è un calendario autoprodotto, accompagnato dalla vendita online di polaroid di nudo attraverso il proprio e-commerce personale.

                Una scelta di continuità rispetto all’esperienza che aveva acceso lo scandalo. La primavera scorsa, quando alcuni genitori scoprirono il suo profilo sulla piattaforma per adulti, la direzione scolastica reagì con fermezza, inviandole due lettere di licenziamento per “giusta causa”. Un iter che si è concluso soltanto poche settimane fa, con un accordo definitivo tra l’istituto e l’insegnante. Un epilogo che non ha però cancellato il segno lasciato dalla vicenda, ma che per la diretta interessata si è trasformato in un’occasione di rinascita.

                Sul suo sito web, Maraga ha scelto di raccontare pubblicamente il percorso. “Ho perso il lavoro, ma non mi sono fermata. Amo il mio corpo perché racconta chi sono: ogni muscolo è una conquista, ogni curva parla di forza e libertà”, scrive la giovane, presentando così il suo calendario. Un progetto che non si limita all’aspetto estetico, ma che rivendica un messaggio preciso: l’idea che il corpo possa essere strumento di affermazione e libertà personale, indipendentemente dai giudizi esterni.

                Per molti la sua vicenda è stata un caso di cronaca legato al conflitto tra moralità, lavoro e libertà individuale. Per lei, invece, rappresenta la possibilità di costruire un percorso diverso. “Per qualcuno è stato uno scandalo, per me è stata una scelta consapevole”, rivendica. Dopo mesi di silenzio, Maraga ha scelto di presentarsi non come vittima ma come protagonista del proprio destino.

                Il calendario autoprodotto segna dunque l’inizio di una nuova fase, lontana dalle aule scolastiche ma vicina a un pubblico che, dopo la vicenda, ha imparato a conoscerla e a seguirla. Un passaggio netto che sancisce il modo in cui la ex maestra ha deciso di trasformare una pagina difficile in un progetto personale e professionale.

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