Cronaca
La scarcerazione di Schettino e il dolore senza fine dei familiari delle vittime della Concordia
Elio Vincenzi, vedovo di Maria Grazia Trecarichi, una delle 32 vittime del disastro, racconta il dolore che non si è mai placato. “Schettino potrà tornare alla sua vita, io da 13 anni non ho più la mia. L’albero di Natale che mia moglie montò prima di partire è ancora lì, non ho mai avuto il coraggio di smontarlo”.

Il 4 marzo i giudici decideranno se concedere a Francesco Schettino, ex comandante della Costa Concordia, un regime di semilibertà, dopo aver scontato più della metà della condanna a 16 anni di carcere. La notizia ha riacceso il dolore di chi, in quella notte di gennaio del 2012, ha perso i propri cari nel naufragio avvenuto davanti all’Isola del Giglio.
Tra loro c’è Elio Vincenzi, marito di Maria Grazia Trecarichi, una delle 32 vittime di quella tragedia. Per lui, il verdetto del tribunale non cambia nulla: la sua condanna è a vita. “Schettino avrà un nuovo inizio. Io no”, dice con amarezza. “Ha diritto ai benefici di legge e non sarò certo io a commentarli, ma mi lascia un profondo senso di ingiustizia”.
La sua voce è rotta dal dolore di chi non ha mai smesso di soffrire. “Lui potrà tornare a casa dalla sua famiglia, riprendere in mano la sua vita. Io non so a chi rivolgermi per avere le stesse agevolazioni, perché il mio ergastolo è reale e definitivo”.
Il naufragio della Costa Concordia, avvenuto il 13 gennaio 2012, è stato uno dei peggiori disastri marittimi della storia italiana. Quella notte, la nave da crociera urtò gli scogli del Giglio durante una manovra azzardata e non autorizzata, il cosiddetto inchino, provocando la morte di 32 persone e il terrore per oltre 4.000 passeggeri.
Schettino fu condannato per omicidio colposo plurimo, naufragio e abbandono della nave. Oggi, grazie al tempo già scontato in carcere e ai requisiti maturati, potrebbe beneficiare di una misura alternativa alla detenzione.
Ma per chi ha perso i propri cari, il tempo non ha curato le ferite. “Ogni anno la commemorazione del naufragio è sempre più dimenticata. Quest’anno nessuna autorità ha partecipato, nessuna corona è stata portata al Giglio. Solo una messa, quasi a voler chiudere il capitolo”, dice Vincenzi con amarezza.
Nel suo salotto, il dolore si è cristallizzato in un simbolo toccante. “Questo albero di Natale lo montò mia moglie prima di partire. Mi disse di non toccarlo fino al suo ritorno. Ma lei non è mai tornata”, racconta con la voce rotta. “Non ho mai avuto il coraggio di smontarlo. Rimarrà lì per sempre”.
La semilibertà di Schettino, se concessa, non cancellerà il passato. Ma per chi ha perso tutto, il presente è un eterno ricordo di una notte che ha segnato per sempre le loro vite.
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Cose dell'altro mondo
L’orrore in Kenya non si ferma: nuove fosse comuni della setta del digiuno, Mackenzie accusato di genocidio
Il predicatore Paul Mackenzie, a processo insieme a 29 coimputati, avrebbe convinto i fedeli a lasciarsi morire di fame per “raggiungere Gesù”. Le vittime accertate sono oltre 400, ma la Croce Rossa teme che possano essere almeno 610.

In Kenya l’orrore continua a riaffiorare dalla terra. Nell’entroterra di Malindi, nella foresta di Shakahola, la Direzione delle indagini criminali ha portato alla luce nuove fosse comuni con decine di corpi senza vita. Tutti riconducibili alla “setta del digiuno”, fondata e guidata dal predicatore Paul Mackenzie, già sotto processo insieme a 29 complici.
Le cifre sono impressionanti: oltre 400 le vittime accertate finora, di cui quasi la metà bambini. Ma secondo la Croce Rossa del Kenya, che assiste i familiari e monitora le ricerche, il bilancio potrebbe salire fino a 610 persone. Un massacro silenzioso, consumato lontano dalle città, che oggi scuote il Paese e la comunità internazionale.
Il meccanismo era sempre lo stesso: Mackenzie convinceva i suoi adepti che digiunare fino alla morte fosse l’unico modo per “vedere Gesù in paradiso”. Un’ossessione alimentata da prediche infuocate, registrazioni e riti collettivi che trasformavano la foresta in un campo di annientamento.
Alcuni sopravvissuti, ora sotto protezione, hanno raccontato scenari da incubo. Minori costretti ad assistere all’agonia dei genitori, a scavare fosse e seppellire i corpi. Famiglie intere convertite dall’islam al cristianesimo per seguire i precetti del pastore, che prometteva salvezza eterna in cambio della vita terrena. «Mio padre diceva che non poteva più mangiare perché Gesù lo stava chiamando», ha raccontato una testimone davanti agli investigatori.
Sull’uomo pendono accuse pesantissime: omicidio di massa, terrorismo, abuso su minori, fino al capo d’imputazione di genocidio. Le autorità keniane hanno avviato un processo che si annuncia lungo e complesso, ma che dovrà fare i conti con centinaia di famiglie distrutte e con una comunità segnata per sempre.
Il caso di Shakahola è già stato definito “il più grande massacro rituale della storia recente dell’Africa orientale”. E mentre gli scavi continuano e i corpi riaffiorano dal terreno, resta una domanda inquietante: come è stato possibile che una predicazione delirante abbia potuto trascinare nella morte centinaia di persone, nel silenzio e nell’indifferenza generale, fino a quando era ormai troppo tardi?
Mondo
Trump e quel livido viola sulla mano: mistero sulla salute del presidente tra gonfiori, trucco e smentite
La Casa Bianca parla di semplici “strette di mano” e di aspirina, ma il gonfiore alle caviglie e la diagnosi di insufficienza venosa alimentano nuove speculazioni sulla resistenza fisica del presidente più discusso del mondo.

Donald Trump, 79 anni, non è nuovo a polemiche, ma questa volta non c’entrano né la politica né i comizi incendiari. Stavolta al centro dell’attenzione c’è un dettaglio fisico: un livido viola, vistoso, comparso sulla mano destra del presidente. L’ematoma, immortalato dai fotografi durante l’incontro con il presidente sudcoreano Lee Jae Myung nello Studio Ovale, ha immediatamente fatto il giro del mondo.



Trump di solito copre le imperfezioni con un velo di fondotinta: stavolta, però, il segno era troppo evidente per passare inosservato. Una macchia che ha alimentato il tam tam sui social e che ha risvegliato vecchi sospetti sulla sua salute.
La portavoce della Casa Bianca, Caroline Leavitt, si è affrettata a minimizzare: «Si tratta solo di una lieve irritazione dei tessuti molli, causata da frequenti strette di mano e dall’uso quotidiano di aspirina». Una spiegazione ribadita anche dal suo medico personale, il dottor Ronny Jackson, che ha assicurato: «Il presidente gode di buona salute».
Eppure il livido non è l’unico segnale che fa discutere. Già il mese scorso la stessa Casa Bianca aveva rivelato che a Trump è stata diagnosticata una “insufficienza venosa cronica”, responsabile del gonfiore alle caviglie. Una condizione che di certo non mette a rischio immediato la vita, ma che per l’opinione pubblica suona come un campanello d’allarme: soprattutto per un uomo che ha appena riconquistato lo Studio Ovale e che si presenta come simbolo di forza e resistenza.
Nelle foto trapelate, oltre al livido sulla mano, spiccano i piedi gonfi nelle scarpe lucide. I detrattori ne fanno motivo di ironia, i sostenitori parlano invece di “attacchi strumentali”. Ma l’immagine resta: quella di un leader che non riesce più a mascherare i segni del tempo, nonostante il fondotinta e la retorica muscolare.
Per i suoi avversari,non è più l’uomo in grado di reggere la pressione di un secondo mandato. Per i suoi fan, invece, il livido è solo un dettaglio: “anche gli eroi stringono mani e portano cicatrici”. La verità, come spesso accade con Trump, resta sospesa tra propaganda, ombre e immagini che parlano da sole.
Italia
Targa polacca per risparmiare sull’RC. Conviene? Un escamotage a rischio
Boom di targhe polacche su motorini e auto: servono ad aggirare le assicurazioni. Una scelta molto rischiosa.

Sono sempre di più i veicoli che circolano con targa polacca: un trucco per abbattere i costi dell’assicurazione, ma che può avere conseguenze inaspettate.
Il fenomeno dell’utilizzo delle targhe polacche per motorini e auto in Italia è diventato sempre più diffuso. In particolare in città come Napoli e in genere al Sud Italia. Delle 53 mila targhe straniere in Italia ben 35 mila, infatti, sono solo a Napoli. Una tendenza che è alimentata dai costi elevati delle assicurazioni. Del resto Napoli, dopo Prato è la città dove l’assicurazione Rc auto è la più costosa. Un esempio? L’Rc di un motorino nel capoluogo campano annualmente può superare i 1.500 euro annui di spesa. Con l’utilizzo di una targa straniera il costo si può ridurre fino a un quinto.
Come si fa in pratica
Il trucco consiste nel registrare il proprio veicolo come esportato in Polonia attraverso una procedura che coinvolge la radiazione del veicolo in Italia e la successiva immatricolazione in Polonia. Una volta ottenuta la nuova immatricolazione, il proprietario stipula un contratto di noleggio con una società intestataria polacca, consentendo di pagare tariffe assicurative significativamente inferiori rispetto a quelle italiane. Un giochino semplice semplice. Si pagano circa 600-800 euro il primo anno che diventano 300-350 euro per gli anni successivi. La pratica è consentita dalle normative italiane, come Giuseppe Guarino, Segretario Nazionale Studi di Unasca (Unione Nazionale Autoscuole e Studi di Consulenza Automobilistica). “Le agenzie di pratiche auto applicano le norme che consentono queste procedure“.
Risparmio ma con quali rischi?
Questa pratica comporta serie conseguenze. In caso di incidente, la nuova compagnia assicurativa polacca potrebbe non pagare o farlo con ritardi significativi. Inoltre, il proprietario perde il controllo diretto del veicolo, non potendo più venderlo o disporne liberamente. Se la società intestataria del veicolo fallisse, tutti i veicoli registrati con essa verrebbero confiscati, causando ulteriori complicazioni per gli ex proprietari. Insomma è necessario valutare molto bene se conviene risparmiare ma rischiare complicazioni anche penali oltre che amministrative.
Italia tra i paesi più cari
Questa pratica evidenzia un problema più ampio: i costi elevati delle assicurazioni in Italia. L’IVASS ha rilevato che gli italiani pagano il 27% in più rispetto alla media europea per assicurare i propri veicoli, con un aumento dei prezzi superiore all’inflazione negli ultimi anni. Questo fenomeno potrebbe essere un catalizzatore per l’aumento degli evasori assicurativi, con milioni di veicoli che circolano senza l’assicurazione obbligatoria. Nel nostro Paese, infatti, per assicurare un veicolo si paga il 27% in più rispetto alla media degli altri Paesi europei e nell’ultimo anno i prezzi sono saliti del 7,5%, un valore maggiore dell’inflazione.
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