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Cronaca

La verità su Emanuela Orlandi? In una cassaforte in Vaticano

Sophie, la testimone che dal 2021 scrive a giornalisti e curie, racconta una verità disturbante sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Secondo le sue ricostruzioni, ci sarebbe un dossier inaccessibile custodito in Vaticano, tra telefonate, incontri riservati e abusi. Ma la famiglia frena: “Molte cose non tornano”. E lei si difende: “Ho solo trasmesso ciò che ho ricevuto”.

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    Un fascicolo inaccessibile, chiuso in cassaforte nei palazzi vaticani, contenente le registrazioni delle telefonate del giorno della scomparsa, gli appunti di incontri riservati, gli scambi tra figure di primo piano della Curia. Secondo la testimone francese conosciuta con lo pseudonimo di Sophie, la verità sulla sorte di Emanuela Orlandi sarebbe lì, sigillata nel cuore dello Stato pontificio.

    Da due anni Sophie invia mail dettagliate a giornalisti e ambienti religiosi. Parla in prima persona, come se fosse Emanuela. Racconta di auto nere, prelati influenti, di Enrico De Pedis — il boss della Magliana sepolto a Sant’Apollinare — che l’avrebbe coinvolta con la scusa di un lavoretto. Di orge, abusi, giochi di potere. E di un “cardinale ancora in vita” che l’avrebbe molestata nei giardini vaticani.

    Ma le sue rivelazioni sono un mosaico difficile da incastrare. Alcuni dettagli risultano già noti o contraddittori, altri sono del tutto nuovi. La giovane parla di pressioni subite, uomini sospetti sotto casa, timore di essere rapita. Eppure, la famiglia Orlandi frena: “Nulla che non sia già stato detto — osserva Pietro Orlandi — e alcune cose sono state smentite da tempo”.

    Sophie, però, non si tira indietro: “Non ho interessi personali, né ero nata all’epoca. Ho solo trasmesso ciò che ho ricevuto. Se qualcosa è falso, forse è il demonio a voler confondere. Ma so che la chiave resta nel legame tra la scuola di musica e De Pedis”.

    A distanza di quarant’anni, il mistero Orlandi resta un abisso che inghiotte tutto: testimonianze, piste, speranze. E forse anche la verità.

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      Mondo

      Trump vuole il Nobel per la Pace. Ma di pacifico, in lui, c’è solo l’ego

      Si paragona a Mandela, ma firma accordi che non reggono una settimana, minaccia l’Iran, accarezza Netanyahu e rilancia la pena di morte. Ora sogna il Nobel per la Pace, come se la pace fosse un reality di cui essere il protagonista.

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        Donald Trump non vuole solo governare il mondo. Vuole anche essere premiato per averlo messo a ferro e fuoco. Il 10 ottobre verrà annunciato il nuovo Nobel per la Pace e, tra i candidati più discussi, spunta proprio lui: l’uomo che bombarda, firma tregue che non durano un giorno e si autoproclama salvatore dell’umanità.

        «Ho concluso sette guerre», si è vantato dal palco dell’Onu, mentre il pianeta conta i danni lasciati dalle sue “missioni di pace”. Dall’Iran al Congo, dal Caucaso a Gaza, Trump si attribuisce meriti che non ha e si vende come un mediatore globale. In realtà, le sue “pacificazioni” sono contratti commerciali camuffati da diplomazia.

        Gli Accordi di Abramo, che nel 2020 dovevano normalizzare i rapporti tra Israele e il mondo arabo, oggi sono ridotti in macerie. Il Medio Oriente brucia, Netanyahu lo ringrazia a colpi di missili e i Paesi firmatari si sfilano uno dopo l’altro. Lo stesso vale per l’Asia, dove i “cessate il fuoco” tra India e Pakistan o tra Thailandia e Cambogia sono serviti solo a fargli scrivere qualche tweet trionfale.

        Ma il colpo più grottesco resta la “pace” afghana. Trump firmò con i Talebani un accordo di resa travestito da vittoria, lasciando a Biden il compito di gestire la disfatta. La sua eredità? Un Paese tornato indietro di vent’anni e le donne di nuovo sotto il burqa.

        Eppure, nonostante guerre sospese e bombe che ancora cadono, Trump insiste: “Merito il Nobel”. Del resto, ha appena ribattezzato il Pentagono “Dipartimento della Guerra” e reintrodotto la pena di morte a Washington DC. È la sua personale idea di “fratellanza tra i popoli”.

        Il Comitato di Oslo, se ha ancora un briciolo di senso dell’umorismo, potrebbe anche premiarlo. Ma dovrebbe farlo per la categoria giusta: miglior attore non protagonista nel film della pace mondiale. Perché se davvero il Nobel finisse nelle sue mani, l’unica cosa a morire sarebbe la credibilità del premio stesso.

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          Cronaca

          Contactless, nuovo allarme: i ladri del Pos invisibile

          Usavano un Pos portatile per addebitare piccole somme a ignari passanti in luoghi affollati. I carabinieri indagano su una nuova forma di furto invisibile, il cosiddetto “tap invisibile”.

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          Contactless

            A Sorrento si indaga su un sofisticato caso di furto elettronico che coinvolge le persone, sospettate di aver usato un Pos contactless portatile per compiere addebiti fraudolenti ai danni di ignari turisti e passanti. Un metodo silenzioso ma efficace, che sfrutta la tecnologia NFC (Near Field Communication) per sottrarre piccole somme — dai 9 ai 15 euro — senza bisogno di inserire alcun PIN.

            Il Pos incriminato, del tutto simile a quelli legittimamente usati da commercianti o liberi professionisti, è stato trovato nella borsa di una sospettata durante una perquisizione. Il dispositivo era collegato a un conto corrente intestato a un presunto prestanome, dettaglio che ha fatto scattare ulteriori accertamenti sui flussi di denaro.

            La tecnica è tanto semplice quanto inquietante: si imposta manualmente una somma inferiore a 50 euro — soglia entro cui non è necessaria l’autenticazione — si attiva il Pos e lo si avvicina alle borse o alle tasche delle vittime. La transazione avviene in meno di due secondi, spesso senza che la persona se ne accorga. Il “tap invisibile” funziona particolarmente bene in contesti rumorosi e affollati, come mercati, stazioni o mezzi pubblici, dove il lieve segnale acustico del Pos può passare inosservato.

            Eppure, non si tratta di un metodo infallibile. Il raggio d’azione del segnale NFC è limitato a 1-2 centimetri, e la presenza di portafogli spessi, borse chiuse o schermate può annullare la transazione. Anche la presenza di più carte nello stesso spazio può causare errori di lettura. Nonostante ciò, casi simili sono stati già segnalati anche a Roma e Milano, alimentando i timori su una nuova frontiera del borseggio digitale.

            Le forze dell’ordine invitano alla massima prudenza e suggeriscono alcune misure preventive fondamentali:


            Come proteggersi dal “borseggio contactless”

            • Usa un portafoglio schermato RFID: blocca i segnali NFC impedendo letture non autorizzate.
            • Porta le carte in tasche interne o zaini chiusi: evita tasche esterne o facilmente accessibili.
            • Attiva le notifiche istantanee dalla banca: consente di ricevere avvisi in tempo reale per ogni pagamento.
            • Riduci il numero di carte nel portafoglio: meno carte, meno rischio.
            • Utilizza cover protettive per singole carte: sottili ed economiche, offrono un buon livello di sicurezza.
            • Controlla spesso l’estratto conto: cerca addebiti sospetti di piccoli importi che non riconosci.
            • Disattiva la funzione contactless, se non necessaria: molte app bancarie offrono questa opzione.
            • Mai lasciare carte incustodite o visibili: nemmeno per pochi secondi.
            • Fai attenzione nei luoghi affollati: se qualcuno si avvicina troppo, proteggi la tua borsa.
            • Segnala subito movimenti sospetti: blocca immediatamente la carta e contatta la banca.

            Le indagini dei carabinieri continuano per verificare l’entità delle transazioni illecite, eventuali complici e l’estensione della rete. Nel frattempo, un monito chiaro si fa strada: più tecnologia significa anche più consapevolezza e attenzione nella vita quotidiana.

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              Cronaca Nera

              La gaffe di Garofano che inguaia i Sempio: cita una perizia segreta che non poteva conoscere

              Luciano Garofano respinge le accuse di corruzione e parla di “massacro mediatico”. Ma le sue parole riaccendono i sospetti sui rapporti tra la famiglia Sempio e chi, all’interno della macchina giudiziaria, avrebbe potuto proteggerla.

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                «Sono finito anche io nel tritacarne». Con queste parole, l’ex generale dei carabinieri Luciano Garofano si è difeso davanti alle telecamere di Quarto grado, dopo essere stato citato nell’inchiesta bis sul delitto di Garlasco. Il suo nome compare accanto a quello dell’ex procuratore di Pavia Mario Venditti, indagato per corruzione nell’indagine condotta oggi dalla Procura di Brescia.

                Nel fascicolo spunta un bonifico da 6.343 euro partito dalla famiglia di Andrea Sempio, l’amico d’infanzia di Chiara Poggi finito sotto accusa e poi archiviato. Garofano parla di una “consulenza” regolare, con tanto di fattura datata 27 gennaio 2017, ma il suo racconto solleva più dubbi che certezze.

                «Ho analizzato la perizia del dottor De Stefano e la consulenza del dottor Linarello – ha detto in tv – e ho espresso le mie conclusioni». Una frase apparentemente innocua, se non fosse che la consulenza del genetista Pasquale Linarello, citata dal generale, non era un documento pubblico. Era un atto riservato, depositato dai difensori di Alberto Stasi per chiedere la riapertura dell’inchiesta, e conteneva la scoperta di una traccia di Dna compatibile con quello di Sempio sotto le unghie di Chiara Poggi.

                Nel gennaio 2017 quella relazione era ancora coperta da segreto istruttorio. Come abbia potuto Garofano leggerla resta un mistero, oggi al centro delle verifiche della Procura di Brescia. L’ipotesi è che il documento sia arrivato in qualche modo ai Sempio, avvisandoli del rischio di un nuovo filone d’indagine a loro carico.

                A rendere tutto più opaco è il fatto che la consulenza di Garofano non risulta mai depositata né richiesta formalmente da alcun legale. Eppure il pagamento è tracciato e l’ex comandante dei Ris ammette di aver studiato proprio quel testo “fantasma” che indicava per la prima volta Sempio come possibile responsabile del delitto.

                Per gli inquirenti, quel passaggio potrebbe spiegare perché la famiglia Sempio si presentò agli interrogatori “già preparata” a rispondere su temi che non erano ancora stati resi noti.

                Garofano parla di «illazioni vergognose», ma la sua stessa gaffe rischia di costargli cara. Perché, in un caso dove ogni fuga di notizie può aver deviato la verità, anche una parola di troppo pesa come un colpo di scena.

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