Cronaca
Leone XIV, il Papa dei ponti: “Aiutateci a costruire una pace disarmata e disarmante”
Saluta il mondo con parole di pace e tenerezza, parla di dialogo, carità e sinodalità, rivendica l’appartenenza agli agostiniani e ringrazia Papa Francesco: Leone XIV comincia il suo pontificato con un invito a non temere, e a restare uniti “mano nella mano con Dio”.

«La pace sia con tutti voi». Non è solo una formula rituale. È un’invocazione, un manifesto, forse già una dichiarazione di stile. Leone XIV ha scelto di iniziare il suo pontificato con un gesto semplice, eppure radicale: rivolgersi al mondo con le parole stesse del Risorto. Non ha parlato di potere, né di autorità. Ha parlato di pace. Una pace che non pretende, non impone, non divide. Ma una pace “disarmata e disarmante”, che – ha detto con voce tremante ma decisa – nasce da un Dio che ci ama incondizionatamente.
Il nuovo Papa è apparso visibilmente commosso affacciandosi dalla loggia centrale della Basilica Vaticana. Il suo primo discorso non ha avuto nulla della teatralità o della retorica enfatica che spesso accompagna i momenti solenni. È stato un discorso mite, tutto incentrato sulla tenerezza di Dio, sul cammino della Chiesa e sull’urgenza di restare uniti. Una parola dopo l’altra, Leone XIV ha tracciato già la traiettoria del suo pontificato. Un pontefice che vuole costruire, non dominare. Che chiede aiuto, non inchini.
Il riferimento a Papa Francesco non è mancato. Anzi, è stato uno dei passaggi più intensi: «Conserviamo nelle nostre orecchie quella voce coraggiosa che benediva Roma e il mondo. Quella mattina di Pasqua. Voglio dare seguito a quella benedizione». C’è un filo che lega il pontificato appena concluso a quello appena iniziato. E Leone XIV ha scelto di non reciderlo. Ha scelto, invece, di custodirne il senso, prolungarne l’eco.
Non si è limitato alla gratitudine. Ha subito marcato un’impronta. «Sono un figlio di Agostino», ha detto. Una frase che sa di confessione e identità. Come a voler dire: il Vescovo di Roma oggi è anche un agostiniano, e porterà nel cuore e nella mente il peso e la grazia di quel pensiero che ha fatto della ricerca inquieta, della grazia, della prossimità ai poveri e della comunità viva i suoi cardini. L’ha detto con fierezza, come se volesse rassicurare chi teme un pontificato incerto: “so da dove vengo, so dove voglio andare”.
La sua idea di Chiesa è uscita subito chiara. Una Chiesa aperta, dialogante, non rinchiusa nei palazzi ma immersa nella storia. «Una Chiesa che cammina, una Chiesa sinodale, una Chiesa di pace», ha ripetuto. Parole che parlano di uno stile, non solo di una strategia. La Chiesa che sogna Leone XIV è quella che non si stanca di ascoltare, di ricucire, di stare accanto a chi soffre. Ha evocato gli ultimi, i dimenticati, e ha invitato a pregare per “la pace della Chiesa in tutto il mondo”. Non ha usato il linguaggio del potere spirituale, ma quello dell’umiltà operosa.
Nel suo saluto alla diocesi di Chiclayo, pronunciato in spagnolo, ha svelato il legame mai spezzato con il Perù, terra che l’ha accolto, formato, amato. Ha mostrato che la sua Chiesa non è solo romana, ma anche latinoamericana. Non solo dottrinale, ma profondamente pastorale. Un pontefice che porta nel cuore più mappe geografiche e più lingue del mondo.
E poi la devozione alla Madonna di Pompei, ricordata non per folclore, ma come figura viva e presente nella quotidianità dei fedeli. Leone XIV ha voluto chiudere il suo discorso con una preghiera, non con un proclama. Ha invocato Maria non da teologo, ma da figlio. Un gesto che dice molto sul tono spirituale che intende mantenere. E forse anche sulla centralità che vorrà restituire alla dimensione popolare della fede, quella fatta di gesti semplici, parole essenziali, cuori che cercano.
Il nuovo Papa ha già fatto capire che sarà un pastore più che un principe. Che parlerà con le mani tese, non con l’indice alzato. Che crede in una Chiesa che non domina, ma accompagna. Che non giudica, ma accoglie. Il suo primo discorso è stato questo: una carezza, un abbraccio, un appello a non avere paura. E a camminare insieme, senza lasciarsi dividere dal rumore o dal sospetto.
La storia è appena cominciata. Ma Leone XIV ha già lasciato il segno.
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Cronaca
Trevignano, la Madonna piangeva sangue. Ma era della veggente
Il Dna rilevato sulle guance della statuina e sul quadro del Cristo corrisponde a quello della presunta veggente Maria Giuseppa Scarpulla. Nessun marchingegno nei simulacri, ma il gip chiude il caso: “Nessun miracolo, solo sangue umano”.

Niente miracoli. Niente misteri. Solo una perizia genetica e quattro tracce ematiche che parlano chiaro. È il colpo di scena nelle indagini sul caso della Madonna di Trevignano, che per anni ha attirato centinaia di fedeli e telecamere davanti alla villetta di Gisella Cardia, la presunta veggente che sosteneva di ricevere messaggi dalla Vergine e di assistere a lacrimazioni di sangue.
Ora, secondo gli esiti della super-perizia genetica depositata in Procura, quel sangue è suo. Maria Giuseppa Scarpulla, questo il suo vero nome, non è solo indagata per truffa aggravata ai danni dei fedeli: secondo gli accertamenti tecnici, il Dna riscontrato su tutti i reperti sequestrati corrisponde esattamente al suo.
A dirlo è Emiliano Giardina, genetista forense noto per aver lavorato ai casi di Yara Gambirasio e Melania Rea, che ha firmato un’analisi dettagliata di 135 pagine su quattro tracce di sangue: due sulle guance della statuina della Madonna, una sul volto e una sulla veste del quadro del Cristo. Tutte, nessuna esclusa, riconducono alla Scarpulla. Nessuna presenza di Dna misto, nessuna traccia del marito Gianni Cardia, che la difesa aveva tentato di coinvolgere tirando in ballo il cromosoma Y. Ma nemmeno quell’argomento ha retto.
Persino i batuffoli di cotone usati durante i riti e trovati nella casa riportano solo e soltanto il suo profilo genetico. Il che rende sempre più difficile, se non impossibile, sostenere l’ipotesi soprannaturale di fronte a un tribunale.
A togliere ogni ulteriore margine di dubbio ci ha pensato anche la tomografia computerizzata a 128 strati, che ha scansionato a fondo i due simulacri sacri: nessun marchingegno, nessuna cavità nascosta, nessun sistema per far fuoriuscire liquidi. Solo una fusione compatta di materiali, senza ingranaggi, tubicini o fori. Insomma, nessun trucco, solo sangue. Umano.
Fine della messa, e anche dell’inchiesta. Il gip del Tribunale di Civitavecchia ha infatti respinto la richiesta di proroga delle indagini, riconoscendo la solidità del quadro probatorio. Non solo: è stata anche archiviata la querela per diffamazione che la stessa Cardia aveva sporto contro Luigi Avella, uno dei primi seguaci a denunciare pubblicamente quella che definì “una messinscena”. Per il giudice, le sue dichiarazioni sono da considerarsi legittime: rientrano nel diritto di critica e non hanno oltrepassato i limiti della continenza espressiva.
Un duro colpo per chi, in questi anni, ha creduto alla veggente di Trevignano, alle sue apparizioni mensili del 3 del mese, alle lacrime della Madonna e alle promesse di salvezza. E una conferma, per chi denunciava da tempo che dietro quel culto si celava un meccanismo ben più terreno.
Ora toccherà alla magistratura valutare se e come procedere sul fronte penale, ma una verità è già emersa: il sangue che commuoveva i fedeli non veniva dal cielo, ma da una donna in carne e ossa.
Italia
Gemelle siamesi unite per la testa, a Monza l’intervento eccezionale: una sopravvive, l’altra muore dopo 48 ore di sala operatoria
Dopo dieci mesi di preparazione e 48 ore in sala operatoria, solo una delle gemelline siamesi senegalesi unite per la testa è sopravvissuta. I medici parlano di “progresso clinico” per D., mentre i genitori ringraziano: “Abbiamo visto l’amore fino all’ultimo”.

Un caso medico rarissimo, una sfida umana e scientifica senza precedenti, una speranza spezzata e una vita che, nonostante tutto, resiste. È il bilancio tragico ma straordinario dell’intervento di separazione delle gemelle siamesi senegalesi di due anni e mezzo, unite per la testa, avvenuto nei giorni scorsi presso l’ospedale San Gerardo di Monza. Un’operazione chirurgica titanica, durata 48 ore consecutive, che ha purtroppo visto il decesso della piccola T., mentre la sorellina D. è ora ricoverata in terapia intensiva neurologica, con segnali definiti “incoraggianti” dai medici.
Le due bambine erano affette da una forma eccezionalmente rara e complessa di craniopago verticale totale, una condizione in cui i crani, parte dei cervelli e i vasi sanguigni dei gemelli risultano fusi. Una situazione che si verifica in un caso ogni 2,5 milioni di nascite, con meno di 60 interventi di separazione documentati nel mondo negli ultimi settant’anni.
Giunte in Italia nel luglio del 2024 grazie all’intervento di associazioni umanitarie e con il supporto di Areu Lombardia, le bambine sono state accolte in una struttura specializzata dove, per quasi un anno, sono state seguite da un’équipe multidisciplinare altamente specializzata: neurochirurghi, anestesisti, radiologi, infermieri pediatrici, psicologi e tecnici biomedici. Ogni fase del percorso è stata preceduta da simulazioni digitali tridimensionali, per prepararsi a ogni possibile scenario.
L’operazione, eseguita nei giorni scorsi, è stata descritta dai chirurghi come “una delle prove più ardue mai affrontate nella storia del nostro ospedale”. L’obiettivo era ridare a entrambe una possibilità di vita autonoma, lontana dalle limitazioni e dai rischi legati alla loro condizione. Ma la realtà è stata più dura delle proiezioni.
T. non ce l’ha fatta. Ha perso la vita al termine della fase più critica dell’intervento, nonostante ogni sforzo. La sua morte ha lasciato un vuoto profondissimo non solo nella famiglia, ma anche tra i medici, che avevano condiviso un anno intero di lotte, speranze e preparativi. La sorella, D., lotta ancora, ma i segnali sono positivi: “Sta reagendo bene”, fanno sapere i sanitari, “ma il percorso sarà lungo”.
Colpiti dal lutto ma anche dal sostegno ricevuto, i genitori hanno affidato il loro dolore a parole piene di riconoscenza: “Abbiamo perso una figlia, ma abbiamo visto fino all’ultimo quanto amore e impegno ci siano stati attorno a noi. Siamo grati a chi ha creduto in questo sogno”.
Ora resta la speranza per D., e il patrimonio di conoscenze accumulato da un’équipe che, pur nell’esito tragico, ha compiuto un’impresa che entra a pieno titolo nella storia della medicina italiana.
Cronaca Nera
Omicidio Tramontano, la difesa in appello: “Non fu crudele, voleva solo uccidere il feto”
Secondo l’avvocata Geradini, l’ex barman non avrebbe agito con premeditazione né con crudeltà: “Voleva solo fermare la gravidanza, il delitto fu maldestro e non pianificato”. Ma per la Corte d’assise di Milano aveva pianificato ogni dettaglio.

Un omicidio efferato, un femminicidio che ha sconvolto il Paese, un uomo condannato all’ergastolo che oggi cerca di riscrivere i contorni della sua colpa. Mercoledì si riapre a Milano il caso di Giulia Tramontano, la giovane di 29 anni uccisa il 27 maggio 2023 dal compagno Alessandro Impagnatiello, mentre era incinta al settimo mese. Davanti alla Corte d’assise d’appello, la difesa del trentaduenne cerca ora di scardinare le due aggravanti più pesanti della condanna di primo grado: la premeditazione e la crudeltà.
Per l’avvocata Giulia Geradini, Impagnatiello non sarebbe stato un lucido assassino, ma un uomo in crisi, travolto dal crollo del castello di bugie che aveva costruito intorno a sé. Nessuna pianificazione fredda, nessun piano studiato nei dettagli: solo, secondo la tesi difensiva, un gesto improvviso, nato nel momento in cui le sue menzogne – la doppia vita, la relazione parallela, la gravidanza scomoda – erano giunte al capolinea. “Il delitto – argomenta la legale – fu commesso quando si verificò uno smascheramento irreparabile”.
A detta della difesa, il comportamento di Impagnatiello dopo l’omicidio dimostrerebbe proprio l’assenza di lucidità: “Ha commesso errori grossolani, maldestri, nel tentativo di nascondere il cadavere e simulare una scomparsa”. Un comportamento che, secondo Geradini, non si concilia con quello di un assassino che ha pianificato ogni passo. E per quanto riguarda la crudeltà? “Giulia non si è resa conto di ciò che stava accadendo. Non ha avuto tempo di difendersi: sul corpo non ci sono segni di reazione. È morta all’istante”.
La difesa porta in aula una narrazione alternativa: Impagnatiello non voleva uccidere Giulia, ma solo fermare la gravidanza. “Voleva solo uccidere il feto”, ha dichiarato la legale, puntando sulla convinzione dell’imputato di vedere quel bambino come un ostacolo alla propria carriera, alla vita con l’altra donna, al futuro che immaginava per sé. Una motivazione che la Corte d’assise, però, aveva già rigettato con forza, sostenendo che Giulia era perfettamente consapevole di stare morendo insieme a suo figlio.
Nel processo di primo grado, la sentenza era stata netta: delitto premeditato, preceduto da mesi di somministrazione di veleno (un topicida) da parte di Impagnatiello nel tentativo di indurre un aborto. Un piano lucido, secondo i giudici, che culminò nell’omicidio brutale. Alla famiglia Tramontano era stata riconosciuta una provvisionale di 700mila euro, e all’imputato erano stati inflitti anche tre mesi di isolamento diurno.
Ora, in appello, si riapre il fronte delle attenuanti generiche. La difesa chiede che vengano riconosciute in base al “contesto personologico” emerso dalla perizia psichiatrica: tratti narcisistici e psicopatici, ma piena capacità di intendere e volere. E invoca le fragilità mostrate da Impagnatiello durante l’interrogatorio: “Ha pianto, ha vacillato. Ha confessato. Non è un mostro, è un uomo devastato”.
Ma la domanda che aleggia nell’aula è un’altra: si può davvero separare un omicidio dalla sua atrocità solo perché chi lo ha compiuto non è stato abbastanza bravo a nasconderlo? La risposta spetta ora ai giudici d’appello.
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