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Cronaca

Dite la verità ogni volta che aprite una bottiglietta vi chiedete ancora: ma perché quel benedetto tappo non si stacca?

I tappi delle bottiglie di plastica non si staccano dalle stesse per seguire la direttiva europea che contrasta l’inquinamento da plastiche.

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    Ve ne sarete già accorti da tempo eppure per c’è ancora qualcuno che lo prende come un fatto personale. I tappi delle bottiglie di plastica non ce l’hanno con voi, state tranquilli. Dopo averli svitati due o tre volte i tappi restano attaccati alla bottiglia. E perchè? Ve lo ricordiamo ancora una volta: per rispondere alladirettiva per contrastare l’inquinamento causato dalla plastica monouso. La direttiva recita che tutte le bottiglie in PET (polietilene tereftalato) fino a 3 litri dovranno essere dotate di “tethered cap” (tappi uniti al contenitore). Ovvero tappi che rimangono attaccati alla bottiglia una volta svitati. Questa misura della Commissione europea ha come obiettivo quello di ridurre l’inquinamento ambientale, rendendo più difficile la dispersione dei tappi nell’ambiente quando le bottiglie vengono buttate via. Vi basta?!

    Nobili obiettivi

    L’obiettivo della direttiva quindi è chiaro: combattere l’uso di plastica monouso e ridurre la dispersione di plastica nell’ambiente. Attualmente, l’85% dei rifiuti trovati nei mari e sulle spiagge europee è costituito da plastica, di cui il 50% è monouso. Questa iniziativa si allinea con l’Agenda 2030 dell’ONU, che promuove l’economia circolare. Tra i prossimi obiettivi è prevista entro il 2025 la produzione di bottiglie con una percentuale del 25% di plastica riciclata. Una percentuale destinata a crescere fino al 30% entro il 2030.

    Plastica nel mare: lo studio del WWF

    Uno studio del WWF prevede che entro il 2050 la quantità di plastica negli oceani quadruplicherà, compromettendo ulteriormente la vita degli animali marini. Intrappolamento, ingestione e soffocamento sono solo alcuni dei pericoli per l’ecosistema marino. Le microplastiche, particelle di plastica inferiori a 5 millimetri, non solo danneggiano l’ambiente e gli animali, ma sono anche pericolose per la salute umana. Studi recenti hanno rilevato microplastiche nel cuore, nel sangue, nelle urine e nella placenta umana.

    Ingeriamo 5 grammi di microplastiche al giorno

    Secondo WWF Italia, ogni settimana possiamo ingerire oltre 5 grammi di microplastiche, l’equivalente di una carta di credito, attraverso l’aria, l’acqua, la frutta, la verdura, i pesci e i molluschi. Le microplastiche sono state trovate anche nelle feci umane, nel sangue e nei polmoni profondi.

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      Cronaca Nera

      Filippo Turetta aggredito in carcere a Verona: colpito con un pugno da un altro detenuto nella quarta sezione di Montorio

      Il ragazzo, condannato all’ergastolo in primo grado per l’uccisione di Giulia Cecchettin, era stato trasferito dalla sezione protetta a quella ordinaria. Dopo l’attacco, l’autore è finito prima in isolamento e poi in cella singola.

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        Filippo Turetta, condannato all’ergastolo in primo grado per l’omicidio di Giulia Cecchettin, sarebbe stato vittima di un’aggressione all’interno del carcere di Montorio, a Verona. Secondo quanto riportato dal quotidiano L’Arena, l’episodio si sarebbe verificato nel mese di agosto nella quarta sezione della struttura penitenziaria, dove il giovane era stato trasferito dopo un periodo trascorso nel reparto “protetto”.

        Colpito con un pugno

        Il 22enne si sarebbe trovato a condividere gli spazi con detenuti comuni, quando un uomo di 55 anni, con alle spalle una condanna definitiva per omicidio e tentato omicidio, lo avrebbe colpito con un pugno. L’aggressione, a quanto trapela, sarebbe maturata dopo giorni di malumori espressi apertamente dall’uomo, infastidito dalla presenza di Turetta nella sezione.

        Quindici giorni in isolamento

        Il responsabile del gesto è stato immediatamente isolato: per lui è scattato un provvedimento disciplinare con 15 giorni in cella di isolamento. Terminata la misura, il detenuto è stato trasferito in una cella singola, che però si sarebbe rivelata in condizioni precarie perché danneggiata dal precedente occupante. Una situazione che lo avrebbe portato a nuove proteste, fino a rifiutare cibo, acqua e perfino i farmaci che gli erano stati prescritti.

        L’aggressione non risulterebbe aver causato gravi conseguenze fisiche a Turetta, ma conferma la delicatezza della sua permanenza in carcere. Già nei mesi scorsi le autorità penitenziarie avevano deciso di collocarlo in sezione protetta per motivi di sicurezza, considerata la notorietà del caso giudiziario che lo vede protagonista.

        Il trasferimento nella sezione ordinaria, avvenuto ad agosto, si era inserito in un percorso di graduale “normalizzazione” della sua vita detentiva. Ma l’episodio di violenza sembra dimostrare che la convivenza con altri detenuti non è priva di tensioni, soprattutto in un contesto in cui i reati per cui Turetta è stato condannato suscitano forte ostilità tra i carcerati stessi.

        La direzione del carcere di Montorio e il personale della polizia penitenziaria continuano a monitorare la situazione, anche per prevenire ulteriori incidenti. Il nome di Turetta, del resto, resta legato a uno dei delitti che più hanno scosso l’opinione pubblica italiana negli ultimi anni.

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          Mistero

          Scompare dal Museo del Cairo un braccialetto d’oro di 3mila anni: era del faraone Amenemope

          Il monile apparteneva al re Amenemope della XXI dinastia ed era stato rinvenuto a Tanis nel 1940. Allertati aeroporti e porti egiziani, in corso un inventario straordinario di tutti i reperti.

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            Un gioiello di valore inestimabile è svanito dal cuore dell’archeologia mondiale. Un braccialetto d’oro risalente a circa tremila anni fa, ornato da una perla di lapislazzuli e appartenuto al faraone Amenemope, è stato dichiarato scomparso dal laboratorio di restauro del Museo Egizio del Cairo. A rivelarlo è stata la Bbc, citando una nota del ministero egiziano del Turismo e delle Antichità.

            Allarme immediato

            La sparizione ha fatto scattare l’allarme immediato. Il caso è stato segnalato alle forze dell’ordine e alla Procura della Repubblica, mentre un’immagine del monile è stata diffusa a tutti gli aeroporti, porti e valichi di frontiera del Paese per scongiurare un eventuale tentativo di contrabbando. Si teme infatti che il braccialetto possa essere già entrato nel circuito del traffico internazionale di reperti archeologici, una piaga che da decenni impoverisce il patrimonio culturale egiziano.

            Inventario straordinario

            Il direttore del Museo ha dovuto anche smentire alcune foto circolate online che ritraevano un bracciale simile, chiarendo che non si trattava dell’oggetto scomparso ma di un altro manufatto esposto nelle sale. Intanto, tutti i reperti custoditi nel laboratorio saranno sottoposti a un inventario straordinario da parte di una commissione di esperti, per verificare eventuali altre mancanze.

            Il braccialetto perduto non è un semplice ornamento. Apparteneva al re Amenemope, sovrano della XXI dinastia (1076-943 a.C.), figura poco nota ma significativa del Terzo Periodo Intermedio. Il suo corpo, originariamente deposto in una tomba modesta a Tanis, fu traslato accanto a Psusennes I, uno dei faraoni più influenti dell’epoca. La sepoltura venne riportata alla luce nel 1940, portando alla ribalta la figura di Amenemope e i preziosi oggetti della sua tomba.

            Il furto o la scomparsa di un reperto di tale portata rischia di riaccendere le polemiche sulla sicurezza del Museo del Cairo, già alle prese con il trasferimento di parte delle collezioni al nuovo complesso di Giza. Nel 2024 due uomini erano stati arrestati ad Alessandria con l’accusa di voler trafugare antichi manufatti sommersi nella baia di Abu Qir. Oggi, con il braccialetto di Amenemope svanito nel nulla, il timore è che la storia si ripeta, confermando quanto la febbre del traffico illecito continui a minacciare il patrimonio faraonico.

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              Storie vere

              Varazze, la sposa arriva tardi e il parroco inizia senza di lei: «Il matrimonio non può bloccare la messa»

              Polemiche a Varazze: la sposa, in abito bianco sul sagrato, ha visto il sacerdote dare avvio alla celebrazione senza aspettarla. La cerimonia è partita tra stupore e rabbia.

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                Il giorno più atteso, quello che doveva restare impresso nella memoria come il coronamento di una favola d’amore, si è trasformato in un piccolo caso di cronaca parrocchiale. È accaduto a Varazze, nella chiesa di Sant’Ambrogio, dove don Claudio Doglio ha deciso di rispettare il calendario liturgico più che la tradizione delle spose in ritardo. Alle 11 in punto, quando la campana annunciava l’inizio della messa domenicale, il sacerdote ha concesso alla futura moglie appena cinque minuti di tolleranza. Poi, senza ulteriori esitazioni, ha dato il via alla funzione.

                Una decisione che ha lasciato a bocca aperta molti presenti. La sposa, raccontano, era già arrivata davanti al sagrato, pronta a fare il suo ingresso. Forse un problema con l’abito, forse il classico temporeggiamento prima della navata: sta di fatto che il via libera non è arrivato e la donna è rimasta bloccata fuori dalla porta della chiesa. Intanto, dentro, il prete aveva già iniziato a officiare la messa, tra lo stupore degli invitati che non credevano ai loro occhi.

                «Avevo avvisato gli sposi – ha spiegato don Doglio –. Alle 11 c’è la messa festiva, i fedeli vengono per questo e non possono essere costretti ad attendere. Avevo suggerito un altro orario, ma loro hanno insistito per sposarsi a quell’ora. Mi ero raccomandato: siate puntuali». Una puntualità che, nella prassi dei matrimoni, è più una speranza che una regola. Ma questa volta la rigidità del sacerdote ha cambiato il copione.

                La sposa è riuscita infine a entrare, tra sguardi sorpresi e qualche mormorio. L’abito bianco ha attraversato la navata quando la celebrazione era già iniziata, in un’atmosfera più tesa che festosa. Polemiche inevitabili: parenti e amici si sono divisi tra chi ha difeso il gesto di rigore del parroco e chi lo ha giudicato un eccesso di intransigenza, soprattutto in un giorno che avrebbe dovuto essere dedicato soltanto alla gioia.

                Alla fine il matrimonio si è celebrato, ma il ricordo resterà segnato da quell’avvio anomalo. Non il classico “ritardo della sposa”, ma un “anticipo del prete” che difficilmente gli invitati dimenticheranno.

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