Mistero
La cyber criminalità nordcoreana si infiltra nelle aziende occidentali
Come informatici sotto falsa identità e facilitatori locali favoriscono l’espansione del regime di Pyongyang nel mondo del lavoro remoto.

Da anni, il regime nordcoreano piazza giovani informatici nelle aziende occidentali sfruttando identità rubate e l’espansione del lavoro remoto. E, più recentemente, l’intelligenza artificiale. Il fondatore della startup di cyber sicurezza C.Side, il belga Wijckmans, ha intuito qualcosa di sospetto quando ha incontrato candidati con caratteristiche comuni. Avevano tutti nomi anglosassoni, connessioni lente, sfondi virtuali e scarso interesse per il lavoro. Approfondendo, ha scoperto un’ondata di candidature anomale, con test di programmazione eseguiti tramite VPN.
Contemporaneamente al sospetto di C-Side, Christina Chapman, una donna del Minnesota, ha rivelato il ruolo dei facilitatori locali. Assunta per rappresentare informatici d’oltreoceano, Chapman gestiva documenti falsi, stipendi e il cosiddetto “parco computer,” permettendo ai falsi lavoratori di operare da remoto come se fossero negli Stati Uniti. Nel 2023, gli investigatori federali hanno scoperto la sua complicità nel generare profitti illeciti per il governo nordcoreano, confermando l’esistenza di una rete di cyber criminali sofisticata e ben organizzata.
Zitti, zitti sabotano le aziende occidentali
Christina Chapman è diventata un tassello chiave nel sistema che consentiva ai falsi lavoratori di sembrare presenti sul territorio statunitense. L’FBI ha scoperto che il suo operato aveva facilitato il trasferimento di almeno 17 milioni di dollari, portando alla sua incriminazione per frode telematica, furto d’identità e riciclaggio. Investigazioni hanno rivelato un’ampia rete di cyber criminali, con falsi recruiter e aziende fantasma che hanno truffato centinaia di società, dalle grandi case automobilistiche americane ai colossi della Silicon Valley. L’evoluzione del cybercrimine nordcoreano ha portato il regime a diversificare le sue operazioni, passando dai ransomware ai furti di criptovalute multimilionari, sfruttando l’espansione del lavoro a distanza per consolidare le sue finanze illecite.
Secondo il governo statunitense, una squadra di impostori informatici nordcoreani può generare fino a 3 milioni di dollari l’anno per finanziare il regime di Pyongyang. Questo flusso di denaro alimenta attività che vanno dal fondo personale di Kim Jong Un al programma di armi nucleari, rendendo l’infiltrazione nel lavoro remoto una strategia discreta ma efficace. Nel 2022, un’importante multinazionale ha assunto un programmatore da remoto, considerato il più produttivo del team. Solo dopo un anno un dettaglio banale ha fatto emergere sospetti: aveva dimenticato la data di nascita dichiarata nei documenti. Un’indagine interna ha rivelato che il dipendente utilizzava strumenti di accesso remoto. Solo in seguito, il suo nome è emerso nell’inchiesta federale legata a Christina Chapman, la facilitatrice che aveva gestito documenti falsi e parchi informatici per l’organizzazione nordcoreana.
La sofisticata “infiltrazione” nordcoreana nel lavoro remoto
Gli infiltrati non sempre puntano al furto di dati, spesso lavorano per mesi o anni senza destare sospetti, assicurandosi stipendi elevati da destinare al regime. In altri casi, si inseriscono nei sistemi per scaricare enormi quantità di dati o installare malware, lasciandoli dormienti fino al momento opportuno. Le aziende stanno intensificando i controlli, ma i truffatori sfruttano deepfake, filtri video e intelligenza artificiale per aggirare verifiche e colloqui. Questa evoluzione del cyber crimine nordcoreano ha reso difficile distinguere un lavoratore remoto legittimo da un agente straniero, aumentando i rischi per la sicurezza informatica globale.
L’inganno digitale e la vendetta di Wijckmans
Il fondatore C.Side, Wijckmans, ha intuito qualcosa di sospetto dopo aver letto del caso Knowbe4, una vicenda legata alla sicurezza informatica. I suoi sospetti si sono diretti su alcuni candidati che stavano cercando di entrare nella sua azienda. Deciso a vederci chiaro, inizia a fare delle verifiche e scopre che alcuni profili usano identità rubate. Non solo: alcuni di loro sono collegati a operazioni nordcoreane. A quel punto, Wijckmans decide di mettere in scena un esperimento, e invita un giornalista ad assistere. Alle 3 del mattino, l’imprenditore si collega su Google Meet per un colloquio con un candidato che dice di trovarsi a Miami. Il suo nome è “Harry”, e il dettaglio più strano è che, nonostante l’orario, sembra fin troppo riposato e lucido.
Ha poco meno di trent’anni, capelli corti e neri, un maglione a girocollo e una cuffia senza brand. Dice di essere nato a New York, ma il suo accento è decisamente atipico. Parla di linguaggi di programmazione, framework e tecnologie, ma continua a guardare verso destra, come se leggesse da uno schermo esterno. Quando Wijckmans aumenta il livello delle domande tecniche, Harry si blocca. Dopo una pausa, chiede di uscire dalla chiamata per sistemare il microfono. Quando torna online, le sue risposte sono molto più fluidem quasi troppo. Forse ha riavviato il suo chatbot o ha chiesto aiuto a un collega. Il secondo candidato si fa chiamare “Nic”, e sul suo curriculum ha inserito un link al suo sito web. Ma c’è un problema evidente: non somiglia affatto alla foto che appare sul portale.
La cyber spia arriva da oriente
Durante il colloquio, il suo inglese è confuso e mal strutturato. Quando gli chiedono che ora è, risponde: “Le sei dopo“, prima di correggersi con “Le sette meno un quarto“. Anche il suo luogo di residenza suona vago. “Per ora sono in Ohio“, come se avesse appena scelto la risposta giusta a un quiz. Ma il momento più surreale arriva quando Wijckmans gli chiede qualcosa sulla sicurezza informatica. Nic inizia a parlare di politica, funzionari governativi e leggi sull’immigrazione, come se avesse scambiato il termine Border Gateway Protocol—che riguarda il traffico Internet con il concetto di confine nazionale. Wijckmans capisce che sta perdendo tempo e chiude il colloquio bruscamente.
La vendetta digitale
Dopo questa esperienza, l’imprenditore ha deciso di creare un test trappola per smascherare futuri impostori. Ha sviluppato una pagina web che simula un esame di programmazione, ma non appena il candidato falso preme il pulsante per iniziare la prova, il suo computer viene sommerso da pop-up con informazioni su come disertare dalla Corea del Nord. Come ciliegina sulla torta, il sito farà partire a tutto volume Never Gonna Give You Up o l’inno nazionale degli Stati Uniti, mentre il browser inizierà a scaricare file a caso e a emettere un bip insopportabile. “Giusto una piccola vendetta“, ha commentano l’imprenditore. Ovviamente tutto questo non fermerà le operazioni nordcoreane. Ma almeno sono avvisati.
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Mistero
Quel morso nell’anca: la scoperta choc che riscrive la storia dei gladiatori in Britannia
Fino a oggi le prove dei sanguinosi spettacoli tra fiere e gladiatori fuori da Roma erano solo artistiche o letterarie. Ora, per la prima volta, uno scheletro umano con segni compatibili con un morso di leone fornisce la prova materiale che anche nelle province più periferiche dell’Impero si celebrava il macabro culto della violenza. Il teatro? L’antica Eboracum, la moderna York.

C’è un foro nell’osso dell’anca. Profondo, netto, senza margini di guarigione. Un taglio che non lascia spazio ai dubbi: chi ha subito quella ferita non è sopravvissuto. La cosa davvero sorprendente è che quel foro non lo ha provocato una spada, né una lancia, né uno dei tanti strumenti di morte dei gladiatori. È un morso. Di leone.





La scoperta arriva da York, nel Regno Unito, un tempo colonia romana nota come Eboracum, e cambia radicalmente la narrazione storica sugli spettacoli gladiatori fuori dalle mura di Roma. Lo scheletro appartiene a un uomo tra i 26 e i 35 anni, morto circa 1.800 anni fa, il cui corpo è stato sepolto con una cerimonia che suggerisce un certo rispetto. Eppure, di lui oggi resta solo quel foro nell’osso, la firma inconsapevole di un grande felino. E l’ipotesi di una morte sotto le zanne di una belva, in uno spettacolo pubblico.
Il ritrovamento è parte di un’indagine archeologica durata oltre vent’anni, coordinata dalla Maynooth University e da un consorzio di università e istituti britannici. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Plos One e rappresenta la prima prova osteologica diretta di un combattimento tra uomo e leone in territorio britannico.
La ferita, ricostruita in 3D, è stata confrontata con diversi modelli di dentature animali: quella del leone, per forma e dimensioni, è l’unica compatibile. “Una scoperta che apre una finestra terribile ma concreta sulla brutalità del potere romano”, spiega John Pearce del King’s College.
La tomba è stata rinvenuta nel sito di Driffield Terrace, noto per essere una delle necropoli gladiatorie meglio conservate del mondo romano. Già nel 2010 erano stati ritrovati 82 scheletri, molti dei quali con segni evidenti di vita da combattente: corpi robusti, fratture cicatrizzate, articolazioni rovinate dall’eccesso di sforzi. Uno di questi, oggi, parla con un morso.
Secondo l’archeologa Malin Holst, si trattava di un bestiario, il tipo di gladiatore addestrato a combattere con animali feroci. Le ossa di cavallo trovate accanto a lui, i traumi multipli e persino le tracce di malnutrizione infantile raccontano una vita di fatica, addestramento e probabilmente schiavitù. Un’esistenza passata a sfidare la morte — fino a che, un giorno, la morte ha vinto.
Eppure York non ha mai restituito tracce dirette di un anfiteatro romano. E allora dov’è avvenuto lo scontro? Forse in una struttura lignea temporanea. Forse in un’arena più piccola e già scomparsa. Di certo la ricchezza di Eboracum — la città che vide l’ascesa dell’imperatore Costantino nel 306 d.C. — giustifica la presenza di simili spettacoli. La provincia non era poi così lontana dal cuore pulsante dell’Impero.
Non erano solo giochi, erano messaggi politici. Simboli della forza romana, della sua capacità di domare le bestie, reali e metaforiche. La presenza di un leone a York ci ricorda un dettaglio spesso ignorato: l’impero catturava e deportava migliaia di animali esotici. Leoni, pantere, orsi dai monti dell’Atlante, tigri dall’India, giraffe, coccodrilli e ippopotami dall’Egitto. Viaggi impossibili, durissimi, solo per garantire al popolo quel miscuglio di orrore e meraviglia che teneva in piedi il consenso imperiale.
Quello che oggi possiamo chiamare intrattenimento era, in realtà, propaganda fatta carne. Carne umana, carne animale. E sangue.
Il foro nel bacino dell’uomo di York racconta tutto questo. Non servono mosaici, né affreschi, né epigrafi. Basta un morso. E un osso che ha atteso quasi due millenni per farsi sentire.
Mistero
Rituali e miti Egizi: il mistero del vaso di Bes e l’intruglio allucinogeno del passato
Gli antichi Egizi bevevano un mix di alcol, fluidi corporei e allucinogeni: la prova in una tazza di Bes.

Nel cuore del Tampa Museum of Art, tra le collezioni permanenti esposte nella mostra “Prelude: An Introduction to the Permanent Collection”, riproposta dopo varie integrazioni, brilla un pezzo unico che svela un aspetto intrigante dell’Antico Egitto. Si tratta di un vaso di Bes, la cui analisi scientifica ha rivelato segreti di antichi rituali religiosi. Questo manufatto, datato al periodo tolemaico, custodiva al suo interno residui di una miscela affascinante e allo stesso tempo molto inquietante. Si tratta di un intruglio di alcol, sostanze allucinogene e fluidi corporei. Questo miscuglio sembra aver avuto un ruolo simbolico e rituale, aiutando i partecipanti a rievocare la potenza di un mito epico legato alla divinità Bes e alla dea Hathor.
La scoperta scientifica dietro il mito di Bes
Il vaso di Bes è stato sottoposto a una serie di analisi avanzate, tra cui la spettroscopia infrarossa in trasformata di Fourier (FTIR) e l’estrazione di DNA antico. Le analisi hanno rivelato la presenza di sostanze come ruta selvatica, loto egiziano e una pianta del genere Cleome, tutte note per le loro proprietà psicotrope. Il contenuto era arricchito con ingredienti simbolici come miele, uva, semi di sesamo e pinoli, che contribuivano a rendere la miscela simile al sangue, evocando il mito dell’Occhio Solare. Secondo la leggenda, Bes riuscì a calmare l’ira della dea Hathor offrendole una bevanda allucinogena camuffata da sangue, inducendo in lei un sonno profondo e pacificante.
Riti di evocazione e significato religioso
Questa miscela non era solo una bevanda, ma un ponte verso il trascendente. Gli antichi Egizi la utilizzavano probabilmente in rituali che combinavano l’assunzione della sostanza con danze, canti e preghiere, tentando di ricreare un momento mitico di grande significato. La presenza di fluidi corporei nel composto, come saliva e sangue, potrebbe essere un simbolo di connessione tra umano e divino, oppure il risultato di pratiche di preparazione rituale.
Bes, il protettore di tutti
La divinità Bes, rappresentata come un nano grottesco con tratti leonini, è una figura enigmatica del pantheon egizio. Protettore della fertilità, delle partorienti e degli infanti, Bes era anche un dio popolare e accessibile. La sua immagine, spesso associata a rituali di protezione e gioia, viaggiò fino a raggiungere il Mediterraneo occidentale, portata dai navigatori fenici e cartaginesi.
Una nuova luce sul passato
Come ha sottolineato il professor Davide Tanasi della University of South Florida, il ritrovamento scientifico non solo conferma la veridicità di certi aspetti dei miti egizi, ma apre una finestra sui rituali poco conosciuti legati al culto di Bes e di altre divinità. Grazie a questa scoperta, la ricca cultura spirituale dell’Antico Egitto si arricchisce di nuovi dettagli, rivelando l’intima connessione tra mito, rituale e sostanze simboliche.
Mistero
Dracula sepolto a Napoli? Decifrata l’iscrizione sulla tomba misteriosa che riaccende la leggenda
Secondo una nuova ipotesi, Vlad l’Impalatore – ispiratore del Dracula letterario – non sarebbe morto in battaglia ma portato a Napoli dalla figlia e sepolto in una tomba nobiliare. La recente decifrazione di un’antica iscrizione potrebbe confermare tutto.

Dracula potrebbe essere morto a Napoli. Non è il plot di un film, ma una teoria che da anni incuriosisce studiosi, turisti e appassionati di misteri storici. Al centro di tutto, una tomba nel complesso monumentale di Santa Maria la Nova, a due passi dal cuore antico della città. E ora, una svolta clamorosa: la decifrazione di un’iscrizione funebre finora rimasta oscura rilancia la possibilità che sia davvero la sepoltura di Vlad III di Valacchia, il famigerato Impalatore passato alla leggenda come Dracula.
Ad anticiparlo è Giuseppe Reale, direttore del complesso, che dalla Romania fa sapere che un gruppo di studiosi ha interpretato la scritta come un elogio funebre dedicato proprio al principe valacco vissuto tra il 1431 e il 1477. Secondo la teoria, Vlad non sarebbe morto in battaglia, ma catturato dai turchi e poi liberato dalla figlia Maria Balsa, rifugiatasi a Napoli dopo essere stata adottata da una nobile famiglia locale.
Alla sua morte, Vlad sarebbe stato tumulato nella cappella Turbolo, nella tomba del suocero della figlia. La tomba, decorata con simboli egizi, draghi e iconografie non riconducibili alla tradizione locale, era già al centro di speculazioni fin dal 2014. Ora, però, la decifrazione dell’epigrafe – datata attorno al Cinquecento – dà nuova linfa alla leggenda.
Napoli, del resto, è abituata a ospitare l’impossibile: santi che fanno miracoli, sangue che si scioglie, teschi che parlano. E ora anche un Dracula… in trasferta definitiva. Non resta che attendere conferme, ma intanto il fascino resta intatto. Perché forse l’Impalatore non è mai tornato in Transilvania. Ha solo cambiato castello.
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