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Ali di pollo, mutande e ostie: la lista dei dazi Ue contro Trump (e la guerra commerciale si infiamma)

L’Unione europea risponde alle tariffe americane con una lista di 99 pagine di prodotti da colpire: dal pollo alle sigarette elettroniche, passando per i jeans e i bourbon

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    Altro che diplomazia: la guerra commerciale tra Stati Uniti e Unione europea è ufficialmente entrata nel vivo. Dopo l’entrata in vigore dei dazi del 25% imposti da Donald Trump su alluminio e acciaio europei, Bruxelles ha deciso di rispondere con una lista di contromisure degna di una sceneggiatura da guerra fredda economica.

    Il piano dell’Unione europea è stato annunciato da Ursula von der Leyen, che ha chiarito i tempi della vendetta commerciale: “Le nostre controtariffe saranno introdotte in due fasi, a partire dal 1° aprile e pienamente operative entro il 13 aprile”. Il messaggio è chiaro: colpire gli Stati Uniti dove fa più male, economicamente e politicamente.

    Ma la domanda è: quali prodotti saranno coinvolti? La lista è lunga ben 99 pagine, e dentro c’è di tutto. Ali di pollo, mutande, bourbon, sigarette elettroniche, persino ostie.

    L’Europa risponde a Trump: una lista esplosiva

    Se qualcuno si aspettava un elenco di prodotti di nicchia, si sbagliava di grosso. Bruxelles ha messo a punto una vera e propria lista della spesa (o della non-spesa, in questo caso), che prende di mira alcuni tra i prodotti più tipici del mercato americano.

    Si parte dagli alimenti, e qui l’Unione europea ha deciso di puntare su prodotti che negli USA valgono miliardi di dollari di esportazioni. Oltre ai famosi polli (rigorosamente interi, a pezzi, con o senza testa), l’elenco include:

    • Anatre, oche, tacchini e faraone (non si sa mai, meglio essere completi).
    • Quarti di carne bovina, sia interi che separati meccanicamente.
    • Carne equina (perché no?).
    • Carne surgelata, con testa, senza testa, in ogni variante possibile.

    E poi c’è l’elemento più surreale della lista: le ostie. Sì, proprio quelle per la comunione. A quanto pare, anche la Chiesa dovrà fare i conti con la guerra commerciale.

    Ma non è tutto. Bruxelles ha inserito anche frutta, verdura, bevande alcoliche e una serie di prodotti alimentari strategici.

    Dazi sulle mutande e sulle Harley-Davidson: il piano per colpire gli Stati repubblicani

    Se pensavate che l’elenco fosse già abbastanza variegato, aspettate di leggere la sezione “prodotti vari”. Tra i beni colpiti dai dazi europei compaiono:

    • Sigarette elettroniche e cerotti alla nicotina (perché far smettere di fumare gli americani dovrebbe essere una priorità).
    • Jeans, pigiami, slip e mutande (sia da uomo che da donna, perché la parità di genere è importante anche nei dazi).
    • Dopobarba, shampoo e dentifrici (l’Europa non si fida dell’igiene personale degli americani?).
    • Spazzaneve, macchinari industriali e mobili di legno e metallo (per non farli stare comodi né caldi).

    Ma il vero colpo di genio di Bruxelles sta nel colpire prodotti simbolo di specifiche aree politiche degli Stati Uniti. L’obiettivo? Mettere pressione sugli Stati governati dai repubblicani, quelli che hanno più da perdere in termini economici.

    Ecco perché tra i prodotti colpiti ci sono anche:

    • Il bourbon, il re degli alcolici americani, prodotto principalmente in Kentucky (terra repubblicana).
    • Le Harley-Davidson, un’icona americana fabbricata in Wisconsin, anch’esso roccaforte conservatrice.
    • I jeans, simbolo del Made in USA, prodotti in diversi Stati a guida repubblicana.

    Bruxelles colpisce Trump dove fa più male

    L’idea dell’Unione europea è geniale nella sua semplicità: non solo colpire l’economia americana, ma creare problemi politici a Trump. Se le industrie colpite dai dazi iniziano a perdere soldi, è probabile che gli elettori repubblicani inizino a fare pressione sul presidente.

    E questo potrebbe diventare un grosso problema per Trump in un anno elettorale.

    Non è la prima volta che l’Europa usa questa strategia. Già nel 2018, in risposta ai dazi di Trump, Bruxelles aveva colpito il bourbon e le motociclette Harley-Davidson, scatenando il malcontento di intere categorie produttive negli USA.

    E adesso? La guerra commerciale è appena cominciata

    Il rischio di un’escalation commerciale tra Unione europea e Stati Uniti è sempre più concreto. Se Trump deciderà di rispondere ai dazi europei con nuove misure punitive, lo scenario potrebbe diventare ancora più teso.

    Nel frattempo, in attesa che la guerra commerciale si plachi, le aziende americane produttrici di mutande, bourbon e pollo stanno già facendo i conti con un futuro meno roseo.

    E se pensavate che il prossimo capitolo delle relazioni USA-UE si sarebbe giocato su temi di grande rilevanza politica, be’, vi sbagliavate: la battaglia si combatte a suon di Harley-Davidson, sigarette elettroniche e ostie da messa.

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      Mondo

      Burke, Sarah, Müller: in Conclave gli ultraconservatori contro Francesco

      Dalla comunione ai divorziati al ruolo delle donne nella Chiesa: le battaglie della fronda più tradizionalista, tra accuse, polemiche e una contrapposizione ormai decennale con il pontificato di Francesco. Ma i numeri, oggi, non sono dalla loro parte.

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        Sono agguerriti ma isolati. Determinati a far sentire la propria voce, ma condannati, come già in passato, a restare ai margini.
        Nel Conclave che dovrà eleggere il successore di papa Francesco si affacciano anche loro: i cardinali ultraconservatori, protagonisti per oltre un decennio di una contestazione costante e rumorosa contro le riforme del pontificato di Bergoglio.

        Non si tratta di un’opposizione nuova. Fin dal 2013, quando Jorge Mario Bergoglio fu eletto, si delineò una fronda interna, prevalentemente collocata nell’area più tradizionalista del Sacro Collegio. Una fronda che non aveva mai perdonato la rinuncia di Benedetto XVI, considerata un gesto che aprì la strada a un cambiamento temuto e osteggiato. «Sarà un disastro», avrebbe commentato a caldo in Cappella Sistina il cardinale sloveno Franc Rodé, esprimendo un sentimento diffuso tra i nostalgici dell’ortodossia preconciliare.

        Da sinodo a sinodo: lo scontro sulle riforme
        La battaglia si è inasprita con i Sinodi sulla famiglia del 2014 e del 2015, quando iniziarono a circolare aperture sulle coppie di fatto, sull’accoglienza delle persone omosessuali e sulla possibilità di accesso all’eucaristia per i divorziati risposati.
        Una rivoluzione che trovò una sua formalizzazione nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia, e che scatenò la reazione più dura degli ultraconservatori: i “dubia” presentati nel 2016 da quattro cardinali – Raymond Leo Burke, Walter Brandmüller, Joachim Meisner e Carlo Caffarra – che, con linguaggio filiale ma tono fermo, chiesero chiarimenti al Papa su aspetti dottrinali fondamentali.

        Sempre gli stessi temi, sempre le stesse barricate
        Da allora, le occasioni di scontro non sono mancate. L’omosessualità, il celibato sacerdotale, il ruolo delle donne nella Chiesa, il ritorno alla Messa preconciliare: ogni tentativo di riforma, ogni segnale di apertura è stato accolto da una levata di scudi. Con toni che, col passare degli anni, si sono fatti via via più duri.

        Tra i protagonisti di questa opposizione permanente c’è il cardinale americano Raymond Leo Burke, 76 anni, sostenitore convinto di Donald Trump e strenuo difensore della liturgia tradizionale. Negli ultimi tempi, il suo rapporto con il Vaticano si è ulteriormente deteriorato: Francesco gli ha tolto il diritto a un alloggio gratuito e alla pensione cardinalizia, segnando così la fine formale di ogni benevolenza istituzionale.

        I nuovi volti della fronda
        Accanto a Burke, si sono fatti strada altri esponenti del fronte conservatore. Il cardinale guineano Robert Sarah, 79 anni, già prefetto della Congregazione per il Culto Divino, si è distinto per le critiche aperte alla gestione bergogliana del sinodo sull’Amazzonia, soprattutto sul tema dei “viri probati”, cioè l’ipotesi di ordinazione sacerdotale per uomini sposati in zone remote.
        Un dissenso culminato nella pubblicazione di un libro – inizialmente presentato come scritto a quattro mani con Benedetto XVI – in difesa del celibato sacerdotale obbligatorio. Un’operazione che suscitò clamore e imbarazzo, anche a causa della successiva smentita da parte dell’entourage del Papa emerito.

        Tra i più attivi nel criticare il pontificato c’è anche il cardinale tedesco Gerhard Ludwig Müller, 77 anni, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede sotto Benedetto XVI e poi confermato da Francesco, salvo essere congedato nel 2017. Da allora, Müller ha moltiplicato interventi e interviste pubbliche, contestando le aperture verso i divorziati, il sinodo dei giovani, il sinodo sull’Amazzonia e l’ipotesi di un maggiore ruolo delle donne nella Chiesa.

        Minoranza rumorosa
        Nonostante la visibilità mediatica e il peso storico di alcuni protagonisti, gli ultraconservatori restano una minoranza nel Collegio cardinalizio. Non perché i cardinali creati da Francesco siano tutti progressisti – anzi, molti provengono da contesti pastorali molto diversi, spesso lontani da qualunque etichetta ideologica – ma perché l’impronta globale e pastorale impressa da Bergoglio ha reso marginale il tradizionalismo più rigido.

        Burke, Sarah e Müller entrano in Conclave con la volontà di orientare il dibattito, di frenare ulteriori aperture, di invocare una restaurazione della disciplina tradizionale. Ma, nella realtà dei numeri, le loro possibilità di determinare l’elezione del nuovo Papa appaiono estremamente limitate.

        Un segnale, più che un programma
        Il loro peso politico oggi risiede più nella testimonianza di una protesta che nella capacità di incidere realmente sulla scelta del futuro Pontefice. Difficilmente un loro candidato potrà essere eletto. Più probabile, semmai, che il loro dissenso venga assorbito, in parte neutralizzato, da un collegio cardinalizio che – pur non rinnegando la tradizione – sembra orientato a scegliere un successore capace di proseguire, magari con toni diversi, il cammino tracciato negli ultimi dodici anni.

        Ma quanto la voglia di una frenata sulle riforme sarà condivisa oltre i confini della fronda più radicale, lo diranno solo le votazioni a porte chiuse. E a quel punto, più che i proclami, parleranno i numeri.

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          Trump contro Amazon: “Atto ostile”. Bezos chiarisce, ma la Casa Bianca alza i toni

          La tensione tra Washington e Amazon esplode nel giorno in cui la Casa Bianca valuta l’allentamento dei dazi sulle auto. Secondo la CNN, Trump ha chiamato personalmente Jeff Bezos dopo aver appreso dell’intenzione – poi smentita – di evidenziare sui prodotti Amazon l’effetto delle tariffe d’importazione. La risposta della Big Tech: “Era solo un’ipotesi interna allo store low cost, mai arrivata sul sito principale”.

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            Nella nuova stagione della guerra commerciale targata Donald Trump, il bersaglio non è solo la Cina. È anche chi, negli Stati Uniti, osa far notare ai consumatori quanto quei dazi incidano davvero sul prezzo dei prodotti.
            Amazon, secondo la Casa Bianca, avrebbe tentato un’operazione considerata “politica e ostile”. A dirlo, senza mezzi termini, è stata la portavoce presidenziale Karoline Leavitt, che in conferenza stampa ha accusato l’azienda di Jeff Bezos di flirtare con “una branca della propaganda cinese”, insinuando un presunto allineamento strategico nella battaglia economica in corso.

            Tutto parte da un’indiscrezione pubblicata da Punchbowl News, secondo cui alcuni team interni ad Amazon stavano valutando l’idea di mostrare ai clienti l’impatto diretto delle tariffe doganali accanto al prezzo dei prodotti: una sorta di “scontrino trasparente” con tutte le voci di importazione evidenziate.

            L’intento? A detta dei detrattori, quello di trasferire sulle politiche dell’amministrazione la responsabilità degli aumenti percepiti dai consumatori. Una mossa che, se applicata davvero, avrebbe avuto ricadute evidenti sulla comunicazione politica di Trump, proprio nei giorni in cui la Casa Bianca si prepara ad annunciare un allentamento dei dazi sulle auto per calmare i mercati e rilanciare l’industria domestica.

            Secondo quanto riportato dalla giornalista della CNN Alayna Treene, il presidente Trump ha reagito personalmente, chiamando al telefono Jeff Bezos per chiedere spiegazioni dirette. Un gesto inusuale, ma che segnala quanto il rapporto tra il tycoon e l’ex uomo più ricco del mondo resti fragile, nonostante un avvicinamento nelle ultime settimane.

            Amazon ha risposto con una precisazione immediata, attraverso un portavoce: «Il team che gestisce il nostro negozio ultra low cost Amazon Haul ha discusso internamente la possibilità di mostrare i costi di importazione su alcuni articoli. Si tratta di brainstorming ordinari. L’idea non è mai stata presa in considerazione per lo store principale di Amazon, né implementata su alcuna piattaforma».

            Una smentita che cerca di raffreddare il caso, ma che arriva troppo tardi per evitare lo scontro. Per la Casa Bianca, anche solo pensare di rendere visibili ai clienti gli effetti delle scelte governative sui loro portafogli è già un attacco politico.

            Sul piatto, però, ci sono anche 12 miliardi di euro di export italiano a rischio, colpiti dai dazi su acciaio, alluminio e auto. E mentre Trump agita la clava commerciale, i colossi americani – Amazon in testa – si trovano tra due fuochi: il pressing cinese da un lato, e quello di Washington dall’altro.

            Il messaggio, in fondo, è chiaro: in un’America dove i prezzi lievitano e la campagna elettorale è già entrata nel vivo, anche la trasparenza può diventare un’arma pericolosa. Soprattutto se usata sotto forma di etichetta.

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              Il papa di Giorgia? Conservatore e colto come Benedetto. E la Meloni lavora sotto traccia

              La premier spera in un Papa lontano dall’“uragano Francesco” e vicino alla linea teologica di Wojtyla e Ratzinger. I nomi che circolano a Palazzo Chigi: Giuseppe Betori in testa, ma anche Parolin come compromesso. Il ruolo chiave di Mantovano, ex presidente di “Aiuto alla Chiesa che soffre”, oggi regista silenzioso tra Curia e governo.

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                Giorgia Meloni, da sempre considerata legata alla tradizione più conservatrice della Chiesa, non ha mai fatto mistero della sua ammirazione per Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Papa Francesco, all’inizio, le appariva come un corpo estraneo. Ma in tre anni di governo a Palazzo Chigi, le distanze si sono accorciate. I contatti con il Vaticano si sono fatti frequenti e discreti. A fare da ponte tra i due mondi c’è Alfredo Mantovano, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, giurista, uomo di Chiesa e per molti l’interfaccia informale (e influente) tra la Santa Sede e il governo italiano. Una figura che conosce bene le gerarchie vaticane, i non detti, le attese. E che oggi, con un Papa defunto e un Conclave alle porte, lavora nell’ombra per portare a Santa Marta un successore più vicino alla sensibilità della premier.

                Non è solo un auspicio, è una strategia. Palazzo Chigi osserva con attenzione il gioco delle alleanze cardinalizie e, senza dare nell’occhio, tesse la sua trama. L’identikit del Papa ideale per Meloni è chiaro: un uomo solido nella dottrina, sobrio nei toni, distante dalle aperture bergogliane su migranti, omosessuali e nuovi modelli di famiglia. Uno come Giuseppe Betori, attuale arcivescovo di Firenze, già segretario generale della CEI ai tempi di Camillo Ruini. Un prelato che non ha mai nascosto la sua distanza da Francesco, soprattutto sul tema delle migrazioni, e che rappresenta agli occhi della destra italiana un punto di equilibrio tra fede, tradizione e rigore morale.

                Betori, tuttavia, non è l’unico nome sul taccuino di Mantovano. Il sottosegretario è stato presidente della fondazione pontificia “Aiuto alla Chiesa che Soffre” (ACS), una realtà molto apprezzata da Francesco ma profondamente radicata nelle istanze più tradizionaliste del cattolicesimo. La sua rete comprende figure come Mauro Piacenza e Angelo Bagnasco, non più elettori ma ancora molto influenti nei corridoi della Curia. La loro azione è silenziosa ma costante, e si muove sotto la regia del decano delle strategie cardinalizie italiane: Camillo Ruini.

                Meloni non prende posizione ufficialmente, ma se potesse parlare liberamente non farebbe mistero della preferenza per un pontefice che riporti ordine, chiarezza e autorevolezza in una Chiesa da lei percepita come smarrita nei meandri del dialogo a tutti i costi. Un Papa che recuperi il profilo battagliero di Wojtyla senza gli slanci populisti di Francesco. O almeno, nella peggiore delle ipotesi, un mediatore. Un uomo come Pietro Parolin, il Segretario di Stato, abile diplomatico, stimato da Francesco ma non identificabile come continuatore puro della sua linea. Una figura che a Palazzo Chigi appare rassicurante, affidabile, meno incline a sbandamenti teologici.

                Ciò che è certo è che a Giorgia Meloni il nome di Matteo Zuppi non piace. Il presidente della CEI, indicato da molti come l’erede più naturale del Papa defunto, è troppo sbilanciato a sinistra, troppo vicino a quel mondo che Meloni considera avversario politico. La battuta pronunciata entrando in Vaticano il 25 aprile – “Ricordiamoci della Liberazione” – è suonata come un messaggio. E non è passato inosservato.

                In questo clima di attese e manovre, il governo italiano gioca le sue carte. Senza clamore, ma con determinazione. Il prossimo Papa sarà scelto dai cardinali, ma molti occhi resteranno puntati anche su Roma. Quella dei palazzi del potere temporale, dove si sogna un Pontefice meno profeta e più sovrano.

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