Mondo
Bezos sbarca a Venezia con star e miliardi, ma trova proteste e attivisti nei canali: “Questa non è Las Vegas”
Cinque giorni di festeggiamenti blindati tra yacht e star, ma a Venezia monta la rivolta. Gli attivisti capitanati da Bettin e Casarini annunciano azioni clamorose: “Vuole la Luna, intanto si prende la Serenissima. Basta svendere la città ai miliardari”.

Alla Casa Bianca lo accolgono come un imperatore, tra yacht spaziali e droni sorridenti. Ma a Venezia no. Qui, al secondo uomo più ricco del pianeta, Jeff Bezos, non basta affittare mezza città per cinque giorni e stappare Dom Pérignon con duecentocinquanta tra star, miliardari e compari del tecno-capitalismo. A riceverlo, tra una gondola e l’altra, ci sono striscioni, cortei, e l’eco (non troppo lontana) di qualche megafono arrabbiato.
Luna di miele? Macché. In laguna è luna di fiele. E c’è chi già prepara l’abbordaggio, in costume da bagno ma con lo spirito dei vecchi no-global: quelli che vent’anni fa lanciavano i sassi a Genova, oggi si tuffano nei canali gridando “No Space for Bezos”. Anche il matrimonio, nel 2025, è diventato geopolitica.
La polemica rimbalza tra palazzi nobiliari e calli popolari. Il punto non è che Jeff Bezos voglia sposarsi a Venezia – in fondo, ogni anno migliaia di stranieri lo fanno – ma come lo fa. “Con arroganza e ostentazione”, accusano gli attivisti. “È il simbolo dello sfruttamento digitale, il braccio economico del trumpismo mondiale. Se Trump si vuole comprare la Groenlandia, lui cerca di prendersi la Luna, e comincia affittando Venezia”.
A guidare la protesta sono Gianfranco Bettin, scrittore e vecchia anima della sinistra veneziana, e Luca Casarini, ex leader delle Tute Bianche oggi impegnato con Mediterranea. Hanno radunato artisti, universitari, ambientalisti e nostalgici del G8. Lo slogan? Sempre lo stesso: “Questa città non è in vendita”. E poi via, tutti in acqua. Letteralmente.
Sabato 28 giugno, annunciano, si butteranno nei cinque canali intorno alla Misericordia – sede designata del ricevimento – per bloccare l’accesso ai motoscafi blindati degli ospiti. Niente marce o cortei ufficiali. Niente preavvisi in questura. Solo corpi galleggianti, come diga contro il privilegio. “Bezos non è un vip qualsiasi – dice Casarini – è il megafono del nuovo oscurantismo globale. E chi lo accoglie a braccia aperte, accetta che Venezia diventi una Las Vegas acquatica”.
Nel mirino, oltre al magnate, anche il sindaco Luigi Brugnaro – già sotto inchiesta per l’affaire dei palazzi venduti al tycoon asiatico Ching Chiat Kwong – e il governatore Luca Zaia, che da mesi punta al quarto mandato tra benedizioni industriali e selfie con futuri sposi milionari. A loro si imputa di aver svenduto la città al miglior offerente, riducendola a una scenografia per festini d’élite.
La questura per ora tace. “Nessuna notifica di manifestazione”, dicono gli agenti, anche se le 72 ore di preavviso non sono ancora scadute. Ma il rischio è che la festa nuziale si trasformi in un remake – acquatico – dei cortei anti-G8. Bezos sperava in un matrimonio da favola. Troverà invece la laguna sollevata.
Dalla parte sua restano gli operatori turistici, albergatori, ristoratori e promotori immobiliari, per i quali il matrimonio del fondatore di Amazon è manna dal cielo. Dall’altra parte, una comunità che ancora si ostina a credere che Venezia sia un luogo da abitare, non solo da noleggiare. Gli sposi sfrecceranno tra le acque in motoscafi schermati. I veneziani superstiti resteranno a riva. A lutto.
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Mondo
Caine, il generale “senza regole” scelto da Trump: «Sono pronto a uccidere per lei, signore»
Razin Caine, soprannominato “Raising Cain”, ha conquistato Trump con uno slogan: «Ucciderò per lei». Nessun rispetto per i regolamenti, ma una devozione assoluta. Così diventa il nuovo capo di Stato maggiore congiunto.

«Sono pronto a uccidere per lei, signore». È una frase che Donald Trump ripete spesso con orgoglio, attribuendola al generale Razin Caine. L’aneddoto cambia di versione in versione – con o senza berretto MAGA, tempi di annientamento dell’Isis oscillanti – ma il succo resta quello: un uomo che si presenta come soldato, ma si comporta come un devoto. E per Trump, nulla vale più della lealtà personale.
Quando lo incontra per la prima volta in Iraq, Caine – che usa il soprannome da pilota di caccia invece del suo nome di battesimo – colpisce subito l’allora presidente. Carisma, spirito da “disruptor”, linguaggio muscolare. Il tipo d’uomo che Trump immagina al vertice del potere militare. E così, al suo ritorno alla Casa Bianca, decide di piazzarlo dove nessun regolamento avrebbe mai permesso: alla guida dello Stato maggiore congiunto delle forze armate USA.
A farne le spese è il generale Charles Q. Brown Jr., nominato da Biden e bollato come “troppo woke” per le idee progressiste sulle pari opportunità. Afroamericano e moderato, Brown viene silurato senza tante cerimonie. Caine prende il suo posto grazie a un’eccezione presidenziale, pur senza possedere i requisiti tecnici per il ruolo. Il Senato si piega: 60 voti favorevoli, 25 contrari, 15 assenti per le festività pasquali. Un numero basso per una carica così delicata, normalmente approvata con ampia maggioranza.
Il soprannome di Caine non è casuale: “Razin”, da “to raze”, radere al suolo. E “Raising Cain”, nell’inglese gergale, significa “scatenare il caos”. Tutto torna. È l’uomo giusto per l’America che Trump vuole: meno regole, più muscoli.
Caine ha 56 anni, una laurea in economia al Virginia Military Institute, migliaia di ore di volo su F-16 e due missioni in Iraq alle spalle. Ha diretto operazioni contro i missili Scud, lavorato nel Joint Special Operations Command, poi alla CIA. Il suo addestramento come pilota Euro-NATO e la lunga carriera lo rendono esperto. Ma è la fedeltà cieca, non il curriculum, ad avergli aperto la porta più alta del Pentagono.
In un’epoca in cui la linea tra potere civile e militare torna a farsi sottile, la figura di Caine è il simbolo di un esercito sempre più politicizzato. E di un comandante in capo che, più che generali, cerca fedelissimi. Anche a costo di radere al suolo ogni prassi.
Mondo
Sanders e Ocasio Cortez invocano l’impeachment: “Trump ha deciso da solo la guerra, è un atto incostituzionale gravissimo”
Con l’operazione “Martello di Mezzanotte”, il tycoon sfida ancora una volta il Congresso. Sanders grida alla violazione costituzionale, Ocasio-Cortez invoca l’impeachment. Gli USA bombardano, ma la vera esplosione è politica.

L’America bombarda. Ma stavolta, le esplosioni più fragorose non sono nei cieli sopra l’Iran, ma nei corridoi del potere a Washington. Con l’operazione “Martello di Mezzanotte”, lanciata su obiettivi nucleari iraniani, Donald Trump ha scatenato una bufera che rischia di travolgere non solo il Medio Oriente, ma anche l’equilibrio costituzionale degli Stati Uniti.
Il primo a parlare è Bernie Sanders. Non urla, ma le sue parole pesano come macigni: «È un atto gravemente incostituzionale. Solo il Congresso può decidere se portare il nostro Paese in guerra. Trump ha abusato del suo potere». Applausi a scena aperta, in un comizio a Tulsa. “No world war!”, urlano in coro i suoi sostenitori.
Alexandria Ocasio-Cortez non usa mezzi termini: «Trump ha ordinato un bombardamento senza autorizzazione. È una violazione della Costituzione, del War Powers Act e una base legittima per l’impeachment». È una delle accuse più dirette mai rivolte da un membro del Congresso a un presidente in carica per un’azione militare. E per la prima volta, la parola “impeachment” torna sul tavolo non per questioni fiscali o sessuali, ma per bombe sganciate oltre confine.
La questione non è solo politica, ma giuridica. L’articolo I della Costituzione assegna al Congresso il potere esclusivo di dichiarare guerra. Il War Powers Act del 1973 stabilisce che il presidente può intervenire militarmente solo in casi di emergenza, con l’obbligo di notificare il Congresso entro 48 ore e ottenere un’autorizzazione entro 60 giorni. Il problema è che, da decenni, ogni presidente aggira la norma invocando “urgenze”.
La Casa Bianca afferma che Trump ha rispettato la procedura, informando i vertici del Congresso «poco dopo il decollo degli aerei». Ma il dibattito è tutt’altro che chiuso. E il precedente potrebbe costare caro. Non solo sul piano interno, ma anche nella corsa per la Casa Bianca.
Trump, da parte sua, sembra non preoccuparsene: «È un giorno storico. L’America è più forte. I Repubblicani sono uniti. MAGA!». Ma l’eco delle critiche cresce. E stavolta, non si tratta solo di politica: è una battaglia per l’anima democratica degli Stati Uniti.
Mondo
Studiare negli Stati Uniti? Ora serve anche il “visto social”
Controlli sui profili online, appuntamenti bloccati e incertezza diplomatica: ecco cosa devono sapere gli studenti italiani che sognano l’America.

Studiare negli Stati Uniti è sempre stato un sogno per migliaia di studenti italiani, ma oggi quel sogno passa anche da un nuovo checkpoint: i social network. Dal 18 giugno 2025, il Dipartimento di Stato americano ha introdotto una misura che impone a tutti i richiedenti di rendere pubblici i propri profili social. Post, commenti, like e condivisioni saranno passati al setaccio dai funzionari consolari. Obiettivo: individuare eventuali “segnali di ostilità” verso gli Stati Uniti, la loro cultura o le istituzioni.
Consolati in attesa di nuovi ordini
La misura riguarda tutti i visti legati all’istruzione e agli scambi culturali: F1 per studenti universitari, J1 per liceali e programmi di scambio, M1 per formazione professionale. E non si tratta solo di nuove richieste: anche i rinnovi saranno soggetti a questo screening digitale. Il problema? Al momento non è ancora possibile fissare nuovi appuntamenti nei consolati americani in Italia. La procedura è stata riattivata “sulla carta”, ma nei fatti resta bloccata, lasciando migliaia di studenti, ricercatori e professori in un limbo burocratico. Le critiche non si sono fatte attendere. L’American Council on Education e NAFSA hanno espresso timori sull’impatto dissuasivo della misura. Sottolineano il rischio di un calo significativo nelle iscrizioni internazionali, già segnate da oltre 1.800 revoche di visto per motivi politici o ideologici.
Organizzazioni come ACLU e Human Rights Watch parlano di un “effetto gelido” sulla libertà di espressione, mentre il mondo accademico teme un crollo delle iscrizioni internazionali. Il rischio è che il visto diventi un test politico, soprattutto per chi ha espresso opinioni critiche, ad esempio in merito al conflitto israelo-palestinese.
Cosa fare, allora, se si vuole studiare negli USA?
Pulizia digitale. Rivedere i propri profili social, impostare la privacy su “pubblico” come richiesto, ma con attenzione a contenuti potenzialmente controversi. Avere sempre la documentazione pronta. Preparare con largo anticipo tutti i documenti richiesti, inclusi quelli accademici e finanziari. Monitorare i canali ufficiali come ambasciate e consolati che pubblicano aggiornamenti sulle disponibilità degli appuntamenti. Magari valutare alternative agli Stati Uniti. In caso di ritardi prolungati, considerare programmi in altri Paesi anglofoni o posticipare l’esperienza. Insomma studiare negli Stati Uniti è ancora possibile, ma occorre munirsi di più pazienza, più trasparenza e più consapevolezza digitale. Il sogno americano passa anche da un feed Instagram e ogni like potrebbe fare la differenza.
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