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Ecco chi sono i leader iraniani uccisi nell’attacco: dal capo dei pasdaran agli scienziati della bomba

Colpiti Salami, Bagheri, Shamkhani, Jafari e due scienziati nucleari. Ma i raid hanno devastato anche quartieri residenziali. E tra le vittime ci sono civili, donne, bambini. E forse pure mia nonna.

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    È partito come un attacco chirurgico ai siti nucleari, è finito come una decapitazione politica. Nell’operazione “Rising Lion”, Israele ha colpito dritto al cuore del potere iraniano. Non solo centrifughe e missili, ma nomi e volti che rappresentavano il pugno di ferro del regime.

    Il più noto: Hossein Salami, comandante dei pasdaran, l’uomo che ad aprile aveva lanciato 300 droni su Israele e minacciato “l’inferno”. Ce l’ha trovato, dentro una palazzina ridotta in macerie. A capo della Guardia rivoluzionaria dal 2019, Salami era il simbolo del potere militare duro e puro, quello che non arretra, non media, non si scusa.

    Ucciso anche Mohammad Hossein Bagheri, capo di Stato maggiore dell’esercito, teorico della riorganizzazione bellica del regime. Dal 2016 controllava le forze armate, dal 2022 era sotto sanzioni USA e Canada per la repressione interna. Al suo posto ora c’è Mousavi, ma il colpo è pesantissimo.

    Ma la lista è lunga: Ali Shamkhani, consigliere personale della Guida suprema Khamenei. Mohammad Ali Jafari, ex capo dei pasdaran durante le operazioni in Siria e in Iraq. E poi due scienziati: Tehranchi, fisico teorico e stratega nucleare, e Abbasi, ex direttore dell’agenzia atomica.

    I luoghi colpiti? Tutti: il sito di Natanz, scavato 50 metri sotto terra; l’Organizzazione per le industrie aerospaziali in piazza Nobonyad; il quartiere di Lazivan (presunto sito nucleare mai verificato); il distretto di Amir Abad e la società Pars Garna, legata alla costruzione di bunker per arricchire uranio.

    Ma c’è anche l’altra faccia della guerra: i civili morti. Perché i missili hanno colpito anche quartieri abitati, distruggendo case, scuole, vite. Le stime parlano di decine di vittime non militari.

    Il regime iraniano è in silenzio apparente. Ma la risposta potrebbe arrivare. E non sarà gentile.

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      Mondo

      Altro che Kung Fu Panda! Shaolin shock: l’abate “monaco Ceo” cacciato tra soldi, donne e scandali

      Il maestro del kung fu e degli affari, simbolo del Tempio Shaolin, è stato ridotto allo stato laicale. Accuse di appropriazione indebita, figli illegittimi e un impero commerciale sotto indagine

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        La meditazione non basta. Nemmeno le arti marziali, a quanto pare. In Cina, il colpo di gong non arriva da una sfida di kung fu, ma da un’inchiesta. Che travolge Shi Yongxin, l’abate più famoso del Tempio Shaolin, la culla millenaria del buddismo Chan e delle acrobazie marziali da film.

        Le accuse? Appropriazione indebita di fondi del monastero, gestione opaca dei beni del tempio e gravi violazioni dei precetti buddisti. Quest’ultima voce, che in Occidente farebbe sorridere, in Cina ha il peso di uno scandalo morale. Relazioni con più di una donna e almeno un figlio illegittimo, in aperto contrasto con la vita monastica.

        A confermare le voci è stato lo stesso Tempio Shaolin, attraverso una nota ufficiale su WeChat. Shi Yongxin è stato sospeso dal ruolo di guida spirituale. E ridotto allo stato laicale. Una caduta rovinosa per colui che per vent’anni era stato il volto del monastero e del kung fu nel mondo, trasformandolo in un brand globale.

        Shi non era un monaco qualunque. Dalla sua nomina ad abate nel 1999, ha reso Shaolin un impero commerciale. Tour per turisti, spettacoli internazionali di arti marziali, film e merchandising a tema monaco volante. Da Hollywood a Bollywood, chiunque abbia visto un calciatore saltare in aria in Shaolin Soccer ha assaggiato la sua idea di business spirituale. E così è arrivato il soprannome impietoso: “monaco Ceo”, più a suo agio con i conti bancari che con il silenzio della meditazione.

        Ora però, i conti li sta facendo con la polizia e con le autorità anticorruzione. L’indagine congiunta coinvolge forze dell’ordine, organi religiosi e uffici statali, decisi a fare chiarezza su un patrimonio che si è trasformato in una rete di società e fondazioni. Shi, secondo i registri di Qichacha, risultava legato a otto aziende, di cui cinque già liquidate. Tra quelle ancora attive spiccano l’Associazione buddista di Zhengzhou, la provinciale dello Henan e la China Songshan Shaolin Temple, la cassaforte fondata nel 1995 per monetizzare l’aura spirituale del monastero. Ma i controlli si allargano: 17 altre entità tra scuole di kung fu, centri di meditazione e aziende di medicina tradizionale sono finite sotto la lente.

        Non è la prima volta che Shi finisce al centro di un giallo finanziario e morale. Nel 2015 un monaco “dissidente” lo accusò di amanti, auto di lusso e figli segreti, mentre il tempio progettava un resort da 300 milioni di dollari in Australia con campo da golf e accademia di kung fu vista oceano. All’epoca le accuse furono archiviate nel 2017 e lui riapparve in pubblico come se nulla fosse, pronto a riprendersi applausi e flash. Ma stavolta l’aria è diversa: la sospensione è ufficiale, la laicizzazione definitiva, e la sua immagine di maestro serafico sembra destinata a rimanere solo sulle locandine dei vecchi spettacoli itineranti.

        Nel frattempo, il tempio Shaolin cerca di ripulire la sua immagine, ricordando al mondo che oltre ai colpi di kung fu ci sono ancora monaci pronti a meditare tra le nebbie del monte Song. E Shi? Lui, il monaco imprenditore, il campione delle arti marziali e della finanza creativa, ora sembra avere davanti un solo avversario che non si può battere a calci volanti: la legge.

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          Mondo

          Chi di Epstein ferisce di Epstein perisce, c’è il nome di Elon Musk nei file segreti. E con lui c’è il fratello Kimbal

          Secondo il Daily Mail, tra le oltre 100 personalità citate da Ghislaine Maxwell ci sarebbero anche i fratelli Musk. Un effetto boomerang dopo le accuse lanciate da Elon contro Trump.

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            Nove ore. Tanto è durato il faccia a faccia tra Maxwell e il segretario alla Giustizia americana Todd Blanche. Un incontro riservatissimo, che avrebbe avuto come obiettivo non solo l’ampliamento dell’elenco dei nomi coinvolti, ma anche – e forse soprattutto – la costruzione di una cornice utile ad alleggerire la posizione di Donald Trump. L’ex presidente, infatti, aleggia da mesi come un’ombra tra i dossier, e coinvolgere una miriade di altri personaggi potrebbe servire a diluire responsabilità e attenzioni.

            In questo quadro, l’ironia è evidente. A tirare in ballo Trump era stato proprio Musk, accusandolo via social di voler insabbiare la pubblicazione dei file perché coinvolto. Ora, secondo le fonti, anche il patron di X (ex Twitter) figurerebbe nei documenti. Con lui, il fratello Kimbal. Non è chiaro in quale veste o per quali rapporti, ma il fatto stesso che siano stati nominati nell’interrogatorio non passa inosservato.

            Maxwell, ex compagna e socia di Epstein, ha risposto – si legge – “onestamente e sinceramente” a tutte le domande. Ha parlato del principe Andrea, che ha sempre negato ogni accusa e che anni fa ha chiuso con un risarcimento milionario la causa intentata da Virginia Giuffre, poi morta suicida. E ha fatto nomi: Bill Gates, Bill Clinton, Alan Dershowitz, Les Wexner, Leon Black, solo per citarne alcuni.

            Ora si apre un’altra fase. Il ritorno di Blanche da un viaggio in Scozia coinciderà con un incontro a porte chiuse con Trump. Sul tavolo, la possibilità di una grazia a Ghislaine Maxwell, in cambio della sua collaborazione. Un’operazione delicata, che potrebbe scoperchiare nuovi dettagli o insabbiare per sempre quelli più scomodi. Intanto, tra le pieghe dei file, Elon e Kimbal fanno capolino. E forse cominciano a capire quanto possa essere pericoloso giocare col fuoco.

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              Un Papa americano tra Dio e il fisco: Leone XIV rischia di perdere la cittadinanza Usa o dichiarare i suoi redditi

              Un deputato repubblicano ha presentato una proposta di legge per esentare il Papa dagli obblighi fiscali previsti per i cittadini americani all’estero. Ma il paradosso resta: può un pontefice essere anche contribuente sotto lo sguardo del Tesoro statunitense?

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                Non è un romanzo di Dan Brown, anche se ne ha tutti i tratti: un Papa americano, un codice fiscale, e il Dipartimento del Tesoro che bussa alle porte del Vaticano. Robert Francis Prevost, nato a Chicago nel 1955 e oggi noto al mondo come Leone XIV, è il primo pontefice statunitense della storia. E con lui, arriva un dilemma mai visto prima: deve davvero compilare la dichiarazione dei redditi americana?

                Il problema nasce dal sistema fiscale degli Stati Uniti, che tassa non in base alla residenza ma alla cittadinanza. Anche se vivi in un altro continente. Anche se sei diventato Capo di Stato. Anche se ti vesti di bianco e ti chiamano “Santo Padre”.

                E così, mentre Leone XIV lavora per la pace, predica la sobrietà e riceve leader da ogni angolo del globo, gli uffici fiscali di Washington lo tengono teoricamente sotto osservazione. Perché la legge non fa eccezioni: un cittadino americano deve rendere conto dei suoi guadagni, ovunque si trovi. Anche in Vaticano.

                A sollevare il caso è stato il Washington Post, ricordando che il Papa, almeno sulla carta, è soggetto agli obblighi di dichiarazione. E a cercare di risolverlo ci ha pensato Jeff Hurd, deputato repubblicano del Texas, che ha presentato alla Camera l’Holy Sovereignty Protection Act, una legge ad personam per blindare il pontefice dagli occhi del fisco. “Un americano chiamato a guidare la Chiesa non può rischiare di perdere la cittadinanza o affrontare burocrazie assurde”, ha detto.

                Prevost, peraltro, non ha solo un passaporto. Ne ha tre: americano, peruviano (ottenuto nel 2015 quando era vescovo a Chiclayo) e vaticano. E ha recentemente rinnovato anche i documenti peruviani. Ma non ha mai rinunciato alla cittadinanza Usa. Il che lo rende, tecnicamente, un contribuente sotto l’autorità dell’IRS.

                A inquietare, però, non è tanto il destino fiscale del Papa, quanto le possibili implicazioni: cosa succederebbe se venisse chiesto di dichiarare, per esempio, i fondi dell’Obolo di San Pietro? O altre risorse caritatevoli della Santa Sede? Un cortocircuito tra fede e burocrazia che ha già messo in allarme la diplomazia vaticana.

                In attesa che il Congresso decida, il paradosso resta tutto: può un uomo considerato infallibile ex cathedra essere comunque obbligato a spiegare ogni centesimo al Tesoro di un altro Stato?

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