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Migranti italiani a rischio deportazione a Guantanamo? Tajani rassicura: «Li riprendiamo, non finiranno a Cuba»

Il ministro degli Esteri Tajani interviene sul caso: «Siamo pronti a rimpatriarli, non finiranno a Guantanamo». Intanto la Casa Bianca smentisce le indiscrezioni del Washington Post

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    Il caso dei due italiani irregolari negli Stati Uniti, che secondo indiscrezioni rischierebbero la deportazione nel famigerato carcere di Guantanamo, sta agitando la politica italiana. A lanciare l’allarme è stato un articolo del Washington Post che parla di circa 9.000 migranti in attesa di espulsione verso la base americana a Cuba. Tra loro, sostiene la testata Usa, ci sarebbero anche cittadini europei, italiani inclusi.

    Un’ipotesi che ha subito provocato reazioni. Secondo fonti parlamentari, uno dei due italiani sarebbe già stato rimpatriato nei giorni scorsi. Il secondo, invece, sarebbe in procinto di essere espulso e riportato in Italia. Ma la notizia dell’eventuale trasferimento a Guantanamo è stata bollata come «fake news» dalla portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt. «Non c’è nessun piano per portare cittadini europei a Guantanamo», ha dichiarato.

    A rassicurare ulteriormente ci ha pensato il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Intervenuto a “Italia Europa” del Tg2, Tajani ha spiegato: «Domani avrò una telefonata con il segretario di stato americano Marco Rubio e affronterò anche questa questione, ma le nostre ambasciate e i nostri consolati negli Stati Uniti sono al lavoro, quindi direi che possiamo essere relativamente tranquilli».

    Il ministro ha ricordato che l’Italia aveva già espresso la disponibilità a riprendere i propri cittadini irregolari. «Quando venne inviato il questionario qualche tempo fa, abbiamo fatto sapere agli Usa che eravamo pronti a rimpatriare i connazionali, garantendo loro tutti i diritti e l’assistenza consolare. Non ci sono quindi motivi per cui finiscano a Guantanamo».

    Secondo le informazioni preliminari del Dipartimento per la Sicurezza nazionale americano, la struttura militare cubana verrebbe utilizzata come estrema soluzione solo per i migranti irregolari provenienti da Paesi che rifiutano il rimpatrio. Un’eventualità che non riguarderebbe dunque i cittadini italiani.

    La vicenda, comunque, resta delicata. Anche perché la sola ipotesi di un trasferimento a Guantanamo – simbolo delle detenzioni extragiudiziali post 11 settembre – suscita comprensibili timori. Dal Viminale e dalla Farnesina assicurano massima vigilanza e dialogo continuo con Washington.

    Intanto, l’attenzione resta alta. Il destino dei due italiani coinvolti sembra ormai segnato: il rimpatrio, e non un volo verso la base militare più discussa al mondo. Ma il caso, anche se ridimensionato, alimenta la riflessione sulle politiche migratorie internazionali e sulle scelte spesso drastiche di gestione dei flussi. In un contesto, quello delle relazioni tra Italia e Usa, che appare solido e collaborativo, ma che non smette di sollevare interrogativi.

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      Mondo

      Trump umiliato da un giudice: la Guardia Nazionale deve tornare alla California

      Gavin Newsom vince in tribunale: Trump ha superato i limiti costituzionali nel dispiegare la Guardia Nazionale. Il presidente dovrà restituire il controllo delle truppe allo Stato. La Casa Bianca grida all’abuso giudiziario, ma il danno politico è fatto.

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        Un altro schiaffone per Donald Trump. Non dalle urne, non dai democratici, ma direttamente da una corte federale. Il giudice Charles Breyer, togato di lungo corso a San Francisco, ha deciso che l’ex presidente ha agito in violazione della Costituzione quando ha ordinato il dispiegamento della Guardia Nazionale in California.

        In particolare a Los Angeles, dove ha inviato le truppe per presidiare edifici federali e reprimere le proteste, scavalcando il governo statale.

        La sentenza – 36 pagine fitte e giuridicamente inappellabili – è una vittoria fragorosa per Gavin Newsom, governatore democratico della California, che aveva citato in giudizio l’ex presidente all’inizio della settimana.

        Un atto che sembrava solo politico, e invece ha trovato pieno accoglimento in tribunale. Breyer ha scritto nero su bianco che Trump ha oltrepassato i limiti del suo potere e violato il decimo emendamento, quello che garantisce agli Stati l’autonomia su tutto ciò che non è espressamente demandato al governo federale.

        La sentenza è destinata a far rumore. Anche perché Trump, da comandante in capo, ha sempre rivendicato il diritto assoluto di impiegare la Guardia Nazionale come strumento d’ordine pubblico, anche contro il parere degli Stati. L’amministrazione ha già annunciato ricorso, parlando di “straordinaria intrusione nei poteri presidenziali”.

        Il Dipartimento di Giustizia ha chiesto la sospensione della sentenza, sostenendo che il presidente ha il diritto, quando lo ritiene necessario, di mobilitare le truppe statali per proteggere i funzionari e gli edifici federali.

        Ma il danno d’immagine è fatto. L’ex presidente si ritrova ancora una volta nell’angolo, accusato di autoritarismo, di scavalcare la democrazia locale per piegarla a fini di propaganda. Gavin Newsom lo ha scritto chiaramente su X: “Un tribunale ha confermato ciò che tutti sappiamo: l’esercito non appartiene alle strade delle nostre città. Trump deve porre fine all’inutile militarizzazione di Los Angeles. Se non lo farà, confermerà le sue tendenze autoritarie”.

        Il caso politico è tutt’altro che chiuso. Trump continua a riproporsi come uomo forte, deciso, pronto a usare ogni leva del potere per mostrare muscoli e disciplina, anche se in violazione delle regole. Ma il giudice Breyer gli ha ricordato che negli Stati Uniti il potere ha un limite, e quel limite si chiama Costituzione.

        Newsom, da parte sua, cavalca l’onda della vittoria: non è più solo il governatore glamour della California progressista, ma il volto di una resistenza istituzionale all’ex presidente. La sua stoccata finale: “Se Trump vuole usare i soldati, lo faccia nelle fiction di Hollywood, non nella realtà democratica americana”.

        E stavolta, il giudice lo ha detto chiaro: quel potere non gli appartiene.

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          Mondo

          Ecco chi sono i leader iraniani uccisi nell’attacco: dal capo dei pasdaran agli scienziati della bomba

          Colpiti Salami, Bagheri, Shamkhani, Jafari e due scienziati nucleari. Ma i raid hanno devastato anche quartieri residenziali. E tra le vittime ci sono civili, donne, bambini. E forse pure mia nonna.

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            È partito come un attacco chirurgico ai siti nucleari, è finito come una decapitazione politica. Nell’operazione “Rising Lion”, Israele ha colpito dritto al cuore del potere iraniano. Non solo centrifughe e missili, ma nomi e volti che rappresentavano il pugno di ferro del regime.

            Il più noto: Hossein Salami, comandante dei pasdaran, l’uomo che ad aprile aveva lanciato 300 droni su Israele e minacciato “l’inferno”. Ce l’ha trovato, dentro una palazzina ridotta in macerie. A capo della Guardia rivoluzionaria dal 2019, Salami era il simbolo del potere militare duro e puro, quello che non arretra, non media, non si scusa.

            Ucciso anche Mohammad Hossein Bagheri, capo di Stato maggiore dell’esercito, teorico della riorganizzazione bellica del regime. Dal 2016 controllava le forze armate, dal 2022 era sotto sanzioni USA e Canada per la repressione interna. Al suo posto ora c’è Mousavi, ma il colpo è pesantissimo.

            Ma la lista è lunga: Ali Shamkhani, consigliere personale della Guida suprema Khamenei. Mohammad Ali Jafari, ex capo dei pasdaran durante le operazioni in Siria e in Iraq. E poi due scienziati: Tehranchi, fisico teorico e stratega nucleare, e Abbasi, ex direttore dell’agenzia atomica.

            I luoghi colpiti? Tutti: il sito di Natanz, scavato 50 metri sotto terra; l’Organizzazione per le industrie aerospaziali in piazza Nobonyad; il quartiere di Lazivan (presunto sito nucleare mai verificato); il distretto di Amir Abad e la società Pars Garna, legata alla costruzione di bunker per arricchire uranio.

            Ma c’è anche l’altra faccia della guerra: i civili morti. Perché i missili hanno colpito anche quartieri abitati, distruggendo case, scuole, vite. Le stime parlano di decine di vittime non militari.

            Il regime iraniano è in silenzio apparente. Ma la risposta potrebbe arrivare. E non sarà gentile.

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              Oggetti dimenticati sul taxi: Uber fa l’elenco, dagli smartphone… alle aragoste

              Milioni di oggetti smarriti ogni anno nei sedili posteriori dei taxi: ecco i più strani, i più costosi e le città dove accade più spesso.

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                Ogni anno Uber, il più noto servizio di trasporti, pubblica la lista degli oggetti più assurdi dimenticati dai suoi passeggeri. Se gli smartphone dominano la classifica – con 1,7 milioni di telefoni persi negli Stati Uniti solo nel 2024 – gli autisti trovano anche fiori, strumenti musicali, valigie intere e perfino cibo surgelato.

                New York batte Miami: la città degli sbadati

                Se l’anno scorso Miami era il paradiso degli utenti distratti, nel 2025 la medaglia d’oro va a New York, seguita da Chicago e Los Angeles. La fascia oraria critica? Tra le 23 e mezzanotte, quando la stanchezza (o forse qualche drink di troppo) fa dimenticare qualunque cosa in auto. Oltre agli smartphone, il podio dei grandi classici è occupato da chiavi, portafogli e giacche. Molte anche le valigie e gli zaini, alcuni lasciati nel bagagliaio – il che, se si trattava dell’inizio di un viaggio, è una partenza davvero sfortunata.

                Hamburger surgelati e aragoste vive

                Ma il vero divertimento arriva con la lista degli oggetti più bizzarri. Tra i ritrovamenti di quest’anno spiccano 175 hamburger congelati, una testa di manichino con capelli umani, dieci aragoste vive (forse in fuga da una pentola), una motosega, un enorme bouquet da 100 rose (qualcuno avrà avuto problemi con una dichiarazione d’amore?). C’è anche chi ha lasciato dietro di sé un kit per il test del DNA, documenti di divorzio e persino una borraccia ricavata da un corno vichingo, chissà se reduci da una festa in costume o da un vero spirito guerriero. Anche i musicisti si dimostrano assai sbadati: una tromba, un trombone, una fisarmonica e un violino sono tra gli oggetti segnalati dai passeggeri. E tra i ritrovamenti più preziosi, spiccano un Rolex d’oro e un paio di Nile Air Jordan da collezione dal valore di 1.800 dollari. L’app di Uber permette di segnalare il proprio smarrimento e, se l’autista restituisce l’oggetto, riceve una mancia di 20 dollari. Un motivo in più per dare un’ultima occhiata al sedile prima di scendere. Non si sa mai cosa potremmo aver lasciato indietro!

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