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Trump sul Monte Rushmore? Proposta la scultura accanto ai grandi presidenti USA

Trump sul Monte Rushmore? Proposta la scultura del volto dell’ex presidente accanto ai volti storici di Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln. Polemiche tra politica e comunità indigene.

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    La proposta di aggiungere il volto di Donald Trump al Monte Rushmore, avanzata dalla deputata repubblicana della Florida Anna Paulina Luna, ha riacceso un acceso dibattito negli Stati Uniti. La parlamentare ha dichiarato che “I risultati straordinari per il nostro paese e il successo che Trump continuerà a ottenere meritano il massimo riconoscimento e onore su questo iconico monumento nazionale”. La proposta fa eco a precedenti suggerimenti avanzati da commentatori di Fox News e dallo stesso Trump, il quale nel 2019 aveva espresso il suo desiderio di vedere il proprio volto scolpito sulla montagna.

    Il Monte Rushmore: simbolo storico e controverso

    Situato nelle Black Hills del South Dakota, il Monte Rushmore è una delle attrazioni più iconiche degli Stati Uniti. L’idea del monumento nacque nel 1923 da Jonah LeRoyDoane’ Robinson, uno storico, con l’obiettivo di attirare turisti nella regione. Fu l’artista e scultore Gutzon Borglum, noto per le sue idee patriottiche e la visione monumentale dell’arte, a concretizzare il progetto. I lavori iniziarono nel 1927 e si conclusero nel 1941, coinvolgendo oltre 400 operai.

    I volti di quattro dei più influenti presidenti americani

    I quattro volti scolpiti da Gutzon Borglum sono George Washington, primo presidente e padre fondatore, simbolo della nascita della nazione. Quindi Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione d’Indipendenza e promotore dell’espansione territoriale con l’acquisto della Louisiana. Altro presidente scolpito è Theodore Roosevelt, sostenitore della conservazione ambientale e artefice della crescita economica e industriale del paese. Infine Abraham Lincoln, protagonista della Guerra Civile e simbolo dell’abolizione della schiavitù.

    Polemiche e opposizione indigena

    Il Monte Rushmore si trova in una regione sacra per la tribù dei Lakota Sioux, che considera il monumento un simbolo di oppressione coloniale. Durante la visita di Trump nel 2020, in occasione delle celebrazioni del Giorno dell’Indipendenza, Nick Tilsen, attivista e membro della tribù Oglala Lakota, dichiarò: “È un’ingiustizia rubare attivamente la terra del popolo indigeno per poi scolpire le facce bianche di conquistatori che hanno commesso un genocidio“. L’eventuale approvazione del disegno di legge dipenderebbe dal Congresso e richiederebbe l’intervento del Dipartimento degli Interni, responsabile della conservazione di siti storici nazionali. Le polemiche legate al significato storico e culturale del monumento rendono comunque improbabile una realizzazione senza forti opposizioni politiche e sociali. Staremo a vedere…

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      Elon Musk nel mirino dell’Europa: maxi-multa da 1 miliardo per X?

      L’Unione Europea prepara la scure contro Elon Musk e il suo social “X”: secondo fonti interne, Bruxelles potrebbe infliggere una sanzione superiore al miliardo di dollari per violazione del Digital Services Act. Tra i punti contestati: contenuti illeciti, scarsa trasparenza e un approccio troppo “libero” alla disinformazione. Musk grida alla censura, ma intanto si apre un potenziale scontro istituzionale senza precedenti tra Bruxelles e uno degli uomini più ricchi (e influenti) del pianeta.

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        Altro che tweet. Elon Musk si prepara a una battaglia a colpi di avvocati con l’Unione Europea, che ha messo nel mirino X, la piattaforma social ex Twitter, per presunte violazioni al Digital Services Act (DSA). Secondo fonti autorevoli, Bruxelles starebbe valutando una multa da oltre un miliardo di dollari, la più pesante mai inflitta sotto la nuova legge europea per i servizi digitali.

        Il motivo? Disinformazione, contenuti illeciti, scarsa trasparenza sugli inserzionisti e utenti “verificati” senza reali controlli. Insomma, X – secondo le accuse – sarebbe diventata una sorta di centro di smistamento per fake news, odio e propaganda, con buona pace della moderazione promessa.

        Non è solo una questione di soldi: il caso è simbolico, perché rappresenta il primo banco di prova per il DSA, e Bruxelles sembra intenzionata a fare di Musk un esempio. O meglio, un monito. Il fatto che Elon sia anche un notorio supporter di Donald Trump non aiuta: i regolatori europei temono che qualsiasi concessione venga letta come un cedimento politico in un contesto già teso tra USA e UE.

        Dal canto suo, Musk non ci sta. Dopo la pubblicazione dell’indiscrezione, X ha reagito duramente: “È censura politica, un attacco alla libertà di espressione”, ha dichiarato il colosso tech, promettendo di “fare tutto il possibile per difendere la libertà di parola in Europa”.

        Un accordo, tuttavia, resta ancora sul tavolo. Se X decidesse di apportare le modifiche strutturali richieste – migliorando il controllo sui contenuti e aumentando la trasparenza – la sanzione potrebbe essere evitata o ridimensionata. Ma Elon, si sa, non è esattamente tipo da compromessi.

        E mentre l’UE costruisce un secondo dossier ancora più esplosivo, che accusa la piattaforma di essere strutturalmente dannosa per la democrazia, Musk ribadisce la sua posizione: pronto a sfidare l’Europa in tribunale e in pubblico, anche a costo di uno scontro istituzionale senza precedenti.

        Una cosa è certa: con o senza dazi, censure o meme, questa guerra digitale è appena iniziata. E promette fuochi d’artificio.

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          Putin, i sosia e la paranoia del bagno: il presidente russo viaggia con un kit segreto per riportare a Mosca persino la sua… popò

          Guardie del corpo con valigette sigillate, bagni portatili e contenitori speciali: la routine dei viaggi di Putin non prevede solo blindature e cecchini sui tetti, ma anche la gestione maniacale di ogni traccia biologica. Precauzioni che alimentano i sospetti: malattia segreta o semplice ossessione del regime?

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            Per Vladimir Putin nulla è lasciato al caso. Nemmeno ciò che, in teoria, dovrebbe finire nello scarico. Durante il recente vertice in Alaska con Donald Trump, il presidente russo è apparso in buona forma, sorridente e sicuro davanti ai flash. Ma a colpire non sono state le strette di mano o i sorrisi di circostanza: secondo quanto riportato dal quotidiano britannico The Express US, le sue guardie del corpo trasportavano un “contenitore speciale per le feci”. Un dettaglio che, da solo, dice molto sulla paranoia del Cremlino.

            La ragione è semplice, almeno per Mosca: impedire a potenze straniere di mettere le mani su campioni biologici del capo del Cremlino e scoprire eventuali segreti sulla sua salute. Nessun capello, nessuna goccia di sudore, nessun escremento deve restare all’estero. Tutto viene raccolto e riportato in Russia, in contenitori sigillati e affidati al Servizio Federale di Protezione.

            Questa pratica non è nuova. Già nel 2017, durante una visita in Francia, e poi a Vienna nel 2018, Putin avrebbe utilizzato bagni portatili personali, evitando contatti con strutture pubbliche. Una routine che oggi appare ancora più ossessiva, alla luce delle voci mai confermate sulle sue condizioni: c’è chi parla di cancro, chi di Parkinson, chi di problemi cardiaci. Il Cremlino ha sempre negato, ma i video che lo mostrano con gambe tremanti o gonfiori al volto continuano ad alimentare sospetti.

            A rendere il quadro ancora più grottesco ci pensano le teorie complottiste sui sosia. Secondo studi giapponesi, software di riconoscimento avrebbero individuato almeno due “doppi” addestrati per sostituirlo in pubblico. Differenze nei tratti del viso, nella voce, persino nei movimenti. Coincidenze o prove di un grande inganno?

            Fatto sta che ad Anchorage Putin si è mostrato energico e all’altezza della controparte americana, un Trump di 79 anni che ama vantarsi della propria salute di ferro. Ma il messaggio resta chiaro: al Cremlino la biologia del leader è materia di sicurezza nazionale. Al punto che persino la toilette diventa questione di Stato.

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              Il padre di Papa Leone XIV, eroe del D-Day: Louis Marius Prevost tra lo sbarco in Normandia e la fede

              Louis Marius Prevost, padre di Papa Leone XIV, prese parte allo sbarco in Normandia il 6 giugno 1944 come ufficiale della Marina degli Stati Uniti. Stimato per disciplina e dedizione, partecipò anche all’Operazione Dragoon nel sud della Francia, prima di rientrare in patria e dedicarsi alla scuola e alla comunità religiosa. Una vita segnata da senso del dovere e fede, eredità che il figlio ha portato fino al soglio pontificio.

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                Il destino della famiglia Prevost si intreccia con la Storia. Louis Marius Prevost, padre di Papa Leone XIV, classe 1920, fu uno degli ufficiali della Marina statunitense impegnati nello sbarco in Normandia, il 6 giugno 1944. A rivelarlo sono i documenti conservati al National Archives and Records Administration di St. Louis, Missouri, che raccontano la parabola di un giovane americano arruolato con il programma di addestramento accelerato V-7.

                Il 24 novembre 1943 ottenne il grado di guardiamarina della Riserva Navale, e poco dopo partì per l’Europa. Imbarcato sulla USS LST-286, una nave da sbarco in grado di trasportare uomini, mezzi e carri armati, partecipò al D-Day, uno degli eventi che segnarono la fine della morsa nazifascista. Nel 1944 prese parte anche all’Operazione Dragoon, lo sbarco nel sud della Francia.

                I fascicoli ufficiali riportano come i suoi superiori ne apprezzassero le capacità organizzative, lo spirito di abnegazione e il senso del dovere. Qualità che gli valsero la promozione a tenente di vascello. Dopo quindici mesi di missione oltreoceano, Prevost fece ritorno negli Stati Uniti, dove scelse di dedicarsi all’educazione e alla vita comunitaria: divenne preside scolastico e catechista, continuando a trasmettere i valori di disciplina e servizio.

                Il 25 gennaio 1949 sposò Mildred Agnes Martinez, dalla quale ebbe tre figli. Proprio il terzogenito, Robert Francis, sarebbe diventato, esattamente ottant’anni dopo la fine della guerra in Europa, Papa Leone XIV.

                Una coincidenza simbolica, che lega la forza silenziosa di un padre soldato alla missione spirituale di un figlio chiamato a guidare la Chiesa cattolica.

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