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Trump, un peracottaro alla Casa Bianca: cosa vuol dire il termine “Taco” che lo fa rosicare

Il presidente americano, punto sul vivo dall’ironia pungente di Wall Street, tenta di giustificare la sua politica altalenante sui dazi. Ma la retromarcia ormai è chiara a tutti: Trump spara alto e poi scappa

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    Donald Trump, l’uomo che riesce a trasformare ogni conferenza stampa in un circo a tre piste, questa volta ha dovuto ingoiare un boccone amaro, anzi, un vero e proprio “taco”. Non quello messicano che tanto ama sbandierare nei suoi tweet folkloristici, ma l’acronimo che gli analisti di Wall Street stanno usando come un’arma letale: “Trump Always Chickens Out” – ovvero “Trump si tira sempre indietro per la paura”.

    È stato il Financial Times a lanciare la frecciata, e una giornalista (che evidentemente aveva deciso di rovinargli la giornata) gli ha chiesto cosa ne pensasse. Risultato? Il presidente è letteralmente sbroccato. «Questa è una domanda malevola!», ha sbottato, come un bambino a cui hanno soffiato il palloncino.

    Ma il bello arriva dopo. Il Nostro, col suo solito repertorio di numeri inventati e toni da venditore di pentole porta a porta, ha tentato di giustificare la sua politica dei dazi: prima li alza a livelli folli, poi li abbassa un po’ e si autoproclama genio delle trattative. «È negoziare! Prima spari alto, poi un pochino scendi… un pochino», ha spiegato con la solita aria da esperto di nulla.

    Peccato che questo “giochetto” non faccia proprio ridere i mercati, che si impennano e crollano come un castello di carte a ogni suo tweet. Ed è proprio questo il cuore della definizione “TACO”: Trump minaccia, i mercati vanno nel panico, poi lui fa retromarcia e tutti tirano un sospiro di sollievo. Una farsa da due soldi, che però costa miliardi.

    A chi gli faceva notare la figura da peracottaro mondiale, Trump ha replicato citando investimenti stratosferici che, manco a dirlo, nessuno ha mai visto: «Abbiamo 14 trilioni di dollari di impegni!». Peccato che il numero sia gonfiato come un soufflé a fine cottura e che nessuno abbia trovato le prove di questa pioggia di denaro. Ma quando si parla di Trump, la matematica è un’opinione.

    E mentre lui si atteggia a salvatore della patria, ripete ossessivamente la sua barzelletta preferita: «Con Biden, questo Paese stava morendo… adesso invece siamo i più forti del mondo. Lo ha detto anche il re dell’Arabia Saudita». Manca solo la firma del Papa e la benedizione della Regina Elisabetta – ah no, lei è morta, ma chissà, forse l’ha detto anche lei, in un sogno premonitore del tycoon.

    Intanto, sui social, il termine “TACO” è già diventato virale e rimbalza tra analisti, banchieri e gente comune come un insulto elegante ma velenoso. E Trump? Rosica e si arrampica sugli specchi: «Non dica mai più quella parola! Una domanda così malevola…». Insomma, la strategia di negoziazione di Trump è la stessa di chi minaccia di smettere di respirare finché non ottiene il biscotto.

    Alla Casa Bianca, però, la morale sembra chiara: meglio un “TACO” in pancia che un dazio in tasca. Ma per Trump, che di indigestioni ne ha collezionate tante, questa volta potrebbe essere difficile digerire. E il pubblico, stavolta, non è più disposto a credergli sulla parola.

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      La Casa Bianca? Un bancomat personale: ecco la “grande rapina” di Trump tra jet, golf club e bitcoin

      Tre miliardi di dollari di affari, criptovalute e resort di lusso: il ritorno del Tycoon alla Casa Bianca è una saga di soldi, famiglia e selfie in jet privati.

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        Altro che Commander-in-Chief. Donald Trump, secondo The Atlantic, avrebbe trasformato il ritorno alla Casa Bianca in un vero e proprio bancomat personale. Un colpo da manuale che ha portato nelle sue tasche, e in quelle della famiglia, la bellezza di tre miliardi di dollari in pochi mesi.

        Come? Con un mix da manuale di businessman: resort di lusso spuntati come funghi in Vietnam e Qatar, investimenti in criptovalute con soci Emirati e un jet privato offerto da un generoso fondo qatariota. Un Air Force One alternativo, con tanto di moquette dorata e hostess in stile reality show.

        E mentre Washington discuteva di dazi e di “fare l’America di nuovo grande”, la famiglia Trump chiudeva affari con i partner più ansiosi di ottenere un selfie con l’uomo più potente del pianeta. Perché si sa: la politica è noiosa, gli affari sono sexy.

        Eric Trump, l’erede scatenato, ha già annunciato la nuova Trump Tower di Dubai: 80 piani di hotel e appartamenti di lusso, acquistabili anche in bitcoin. E se la politica non dovesse bastare, ci pensa Melania: la first lady ha firmato un contratto da 40 milioni di dollari con Amazon per raccontare la sua vita in un docu-soap che promette lacrime e lustrini.

        Nel frattempo, la base Maga sogna il “primo anno di stipendio donato”, ma i conti parlano chiaro: la fortuna di famiglia è cresciuta di tre miliardi di dollari in quattro mesi. Un record che neanche un influencer con 100 milioni di follower potrebbe replicare.

        E non finisce qui. La scorsa settimana, un gala esclusivo nel golf club di famiglia ha accolto 200 investitori della “Trump Crypto Holdings”. Un nome che sembra un gioco, ma che suona come un monito: in questa Casa Bianca, anche il bitcoin ha trovato il suo posto.

        Per The Atlantic, è uno scenario degno delle vecchie repubbliche sovietiche. Un livello di conflitto d’interessi che ridefinisce la parola “corruzione”. E Trump? Niente scuse: la strategia è semplice. Presentarsi come l’eroe che combatte il sistema corrotto, mentre intasca tutto.

        Alla fine, la domanda è una sola: Donald Trump è davvero il paladino dell’America profonda, o solo un genio del marketing che ha trovato nella Casa Bianca il business più redditizio di sempre? Se la risposta vi sembra ovvia, ricordate: è la politica, baby. E a Washington, la commedia è sempre aperta.

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          Ma perchè questo volo è in ritardo? Per ora te lo spiega solo United Airlines…

          Mentre molte compagnie si limitano a segnalare un volo come “in ritardo” o “cancellato”, United Airlines spiega ai passeggeri le reali cause. Ecco perché questa scelta sta facendo scuola.

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            C’è un dettaglio che spesso viene trascurato quando un volo viene ritardato o cancellato: il motivo. Molte compagnie aeree si limitano a un laconico “ritardato” o “cancellato” nelle loro applicazioni e siti web, lasciando i passeggeri nell’incertezza totale. United Airlines, invece, ha deciso di cambiare le regole del gioco, rendendo la trasparenza un valore aggiunto del proprio servizio. Se un aereo parte dopo l’orario previsto, la compagnia non si limita a segnalare il disguido: spiega il perché. Così, prima di imbarcarsi per il volo Milano-New York, i passeggeri hanno scoperto che il ritardo era dovuto al riposo insufficiente dell’equipaggio. Una regola federale che impone pause minime tra un turno e l’altro. Un quarto d’ora di attesa che, alla fine, non ha inciso realmente sul viaggio, ma che ha dato ai clienti una spiegazione chiara e diretta.

            La trasparenza in volo ripaga United

            Questa filosofia della trasparenza non è un episodio isolato, ma una pratica costante che il vettore nordamericano ha adottato. Uno studio su centinaia di voli ha dimostrato che, rispetto ad altre compagnie, United Airlines è unica nel comunicare con precisione le motivazioni di ogni disagio. Esempi concreti non mancano. Un volo da Newark a Fort Myers, in ritardo di due ore, è stato spiegato con un semplice messaggio. “Un precedente ritardo ha influito sull’arrivo del vostro aereo“. Un collegamento Newark-Denver è stato cancellato per condizioni meteorologiche avverse. Mentre su Newark diversi voli sono stati bloccati a causa di un problema nel controllo del traffico aereo.

            Ma perché questa trasparenza non è la norma?

            L’informazione fornita è sempre specifica e dettagliata, mai generica. Quando il caricamento dei bagagli sta richiedendo più tempo del previsto, il passeggero lo scopre subito. Se un problema tecnico ha imposto la sostituzione dell’aereo, viene notificato con un messaggio chiaro. Se il personale di bordo deve essere riprogrammato, viene spiegato perché. Secondo il ceo di un grande vettore europeo, la scelta di United Airlines richiede risorse che non tutti possono permettersi. Monitorare e comunicare dettagli sui ritardi in tempo reale significa avere una struttura dedicata, capace di gestire ogni imprevisto in modo chiaro e veloce. Al contrario, molte compagnie si limitano a dare poche informazioni. Delta Air Lines in caso di cancellazione di un volo, mostra solo statistiche e una generica nota operativa, senza spiegare la causa specifica.

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              Papa Prevost noioso? Quando fare il pontefice non basta più

              La liturgia non fa tendenza su TikTok. E neanche Sant’Agostino. Ma a quanto pare, il nuovo pontefice Robert Francis Prevost, designato da Papa Francesco e diventato il nuovo Vicario di Cristo, non è interessato a diventare virale. Nessuna diretta Instagram, nessun selfie con i fedeli. Solo teologia, dottrina e… messe.

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                Il giornalista e scrittore Francesco Merlo, dalle pagine di Repubblica, lo dice in maniera estreamente chiara: “Prevost sarà il Papa dei preti”, mentre Papa Francesco era diventato il Papa del mondo proprio perché, paradossalmente, non faceva il Papa. O almeno, non nel senso più tradizionale.

                Francesco: il Papa che parlava al cuore

                Papa Bergoglio aveva (e ha ancora) il carisma di chi rompe gli schemi. Parlava di migranti, tutela dell’ambiente e periferie esistenziali. Parlava semplice, senza encicliche da tradurre. Un Papa che dava del tu all’umanità e che riusciva a far parlare di sé anche fuori dalle sagrestie. Il risultato? Meno faceva il Papa e più lo sembrava. In un mondo dove la comunicazione è tutto, essere “pop” non è peccato, semmai una missione. E Papa Francesco questo lo sapeva bene.

                Con Prevost si ritorna alla liturgia… ma il Vangelo è anche comunicazione

                E Prevost? Tutto l’opposto. Rigoroso, studioso, silenzioso. Quasi invisibile, almeno per ora. Il problema non è essere meno pop, ma se questo nuovo stile saprà parlare a una Chiesa che non è più solo pulpito e navata ma anche algoritmo e hasthag. La domanda, pungente ma lecita, è: serve davvero un Papa che torna a “fare il Papa”? O rischiamo di tornare a una Chiesa che parla solo a se stessa?

                Una guida per pochi o per tutti?

                Nell’era della comunicazione, parlare solo di Sant’Agostino – figura peraltro straordinaria – sembra poca cosa. La questione è che Chiesa non può permettersi il lusso di perdere il contatto con il mondo, neanche in nome dell’ortodossia. Prevost saprà stupirci o resterà il Papa della liturgia per la liturgia? È ancora presto per giudicare. Ma una cosa è certa: fare il Papa oggi significa anche saper comunicare. E non si tratta di show o spettacolo, di situazioni informali e/o divertenti. Ma di empatia, linguaggio, presenza. La sfida del nuovo Papa è enorme: essere autentico, sì, ma anche comprensibile. E magari, ogni tanto, anche un po’… pop.

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