Cronaca
Musk prima sfancula Trump, poi piagnucola: “Ho esagerato, scusa Don”
Dopo aver minacciato i repubblicani e tirato fuori Epstein per colpire Trump, Elon Musk chiede perdono e si cosparge il capo di cenere. Una farsa social che lascia tutti a bocca aperta

Elon Musk, re degli scivoloni e delle sparate a ruota libera, è tornato a fare dietrofront. Dopo aver definito la legge di bilancio repubblicana “un disgustoso abominio” e aver invocato l’impeachment per i parlamentari che l’avevano sostenuta, l’uomo più ricco del mondo si è svegliato dal trip di ego e ha chiesto scusa. Sì, avete letto bene: l’uomo che sogna di colonizzare Marte e si atteggia a supereroe della libertà ha fatto marcia indietro, pentendosi come un ragazzino beccato a copiare il compito in classe.
“Ho esagerato con i post. Sono andato troppo oltre”, ha scritto Musk sui suoi social, provando a salvare la faccia davanti a un Trump che nel frattempo se la ride sotto i baffi. Eh già, perché il piano di spesa pubblica voluto dal Tycoon è un pilastro della sua seconda amministrazione e, inutile dirlo, le parole di Musk sono state lette come un tradimento.
Non contento, durante lo scazzo Musk aveva pure sfoderato la carta Epstein, minacciando di tirare fuori i presunti altarini del Tycoon. Un colpo basso che ha fatto gridare allo scandalo anche i più navigati follower di X (la piattaforma di Musk). Ma a quanto pare la notte porta consiglio, e dopo essersi accorto che stava scavandosi la fossa da solo, Elon ha optato per il classico piagnisteo in pubblico: “Mi dispiace, sono rammaricato, sono andato oltre”. Roba da farsa social.
Nel frattempo, i repubblicani fanno spallucce e si godono lo spettacolo: Musk che prima spara a zero e poi piange come un bambino. Una scena già vista e rivista, perché quando The Donald è in campo, la paura di finire tagliati fuori dalle stanze del potere fa miracoli.
Che le scuse di Musk bastino a fargli riavere il lasciapassare tra i repubblicani è tutto da vedere. Quel che è certo è che la toppa rischia di essere peggio del buco. E mentre Musk piagnucola e Trump lo osserva dall’alto della sua arroganza, una sola domanda aleggia nell’aria: chi sarà il prossimo a pentirsi pubblicamente per aver osato sfidare l’uomo più imprevedibile della politica americana?
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Mondo
Trump umiliato da un giudice: la Guardia Nazionale deve tornare alla California
Gavin Newsom vince in tribunale: Trump ha superato i limiti costituzionali nel dispiegare la Guardia Nazionale. Il presidente dovrà restituire il controllo delle truppe allo Stato. La Casa Bianca grida all’abuso giudiziario, ma il danno politico è fatto.

Un altro schiaffone per Donald Trump. Non dalle urne, non dai democratici, ma direttamente da una corte federale. Il giudice Charles Breyer, togato di lungo corso a San Francisco, ha deciso che l’ex presidente ha agito in violazione della Costituzione quando ha ordinato il dispiegamento della Guardia Nazionale in California.
In particolare a Los Angeles, dove ha inviato le truppe per presidiare edifici federali e reprimere le proteste, scavalcando il governo statale.
La sentenza – 36 pagine fitte e giuridicamente inappellabili – è una vittoria fragorosa per Gavin Newsom, governatore democratico della California, che aveva citato in giudizio l’ex presidente all’inizio della settimana.
Un atto che sembrava solo politico, e invece ha trovato pieno accoglimento in tribunale. Breyer ha scritto nero su bianco che Trump ha oltrepassato i limiti del suo potere e violato il decimo emendamento, quello che garantisce agli Stati l’autonomia su tutto ciò che non è espressamente demandato al governo federale.
La sentenza è destinata a far rumore. Anche perché Trump, da comandante in capo, ha sempre rivendicato il diritto assoluto di impiegare la Guardia Nazionale come strumento d’ordine pubblico, anche contro il parere degli Stati. L’amministrazione ha già annunciato ricorso, parlando di “straordinaria intrusione nei poteri presidenziali”.
Il Dipartimento di Giustizia ha chiesto la sospensione della sentenza, sostenendo che il presidente ha il diritto, quando lo ritiene necessario, di mobilitare le truppe statali per proteggere i funzionari e gli edifici federali.
Ma il danno d’immagine è fatto. L’ex presidente si ritrova ancora una volta nell’angolo, accusato di autoritarismo, di scavalcare la democrazia locale per piegarla a fini di propaganda. Gavin Newsom lo ha scritto chiaramente su X: “Un tribunale ha confermato ciò che tutti sappiamo: l’esercito non appartiene alle strade delle nostre città. Trump deve porre fine all’inutile militarizzazione di Los Angeles. Se non lo farà, confermerà le sue tendenze autoritarie”.
Il caso politico è tutt’altro che chiuso. Trump continua a riproporsi come uomo forte, deciso, pronto a usare ogni leva del potere per mostrare muscoli e disciplina, anche se in violazione delle regole. Ma il giudice Breyer gli ha ricordato che negli Stati Uniti il potere ha un limite, e quel limite si chiama Costituzione.
Newsom, da parte sua, cavalca l’onda della vittoria: non è più solo il governatore glamour della California progressista, ma il volto di una resistenza istituzionale all’ex presidente. La sua stoccata finale: “Se Trump vuole usare i soldati, lo faccia nelle fiction di Hollywood, non nella realtà democratica americana”.
E stavolta, il giudice lo ha detto chiaro: quel potere non gli appartiene.
Mondo
Ecco chi sono i leader iraniani uccisi nell’attacco: dal capo dei pasdaran agli scienziati della bomba
Colpiti Salami, Bagheri, Shamkhani, Jafari e due scienziati nucleari. Ma i raid hanno devastato anche quartieri residenziali. E tra le vittime ci sono civili, donne, bambini. E forse pure mia nonna.

È partito come un attacco chirurgico ai siti nucleari, è finito come una decapitazione politica. Nell’operazione “Rising Lion”, Israele ha colpito dritto al cuore del potere iraniano. Non solo centrifughe e missili, ma nomi e volti che rappresentavano il pugno di ferro del regime.
Il più noto: Hossein Salami, comandante dei pasdaran, l’uomo che ad aprile aveva lanciato 300 droni su Israele e minacciato “l’inferno”. Ce l’ha trovato, dentro una palazzina ridotta in macerie. A capo della Guardia rivoluzionaria dal 2019, Salami era il simbolo del potere militare duro e puro, quello che non arretra, non media, non si scusa.
Ucciso anche Mohammad Hossein Bagheri, capo di Stato maggiore dell’esercito, teorico della riorganizzazione bellica del regime. Dal 2016 controllava le forze armate, dal 2022 era sotto sanzioni USA e Canada per la repressione interna. Al suo posto ora c’è Mousavi, ma il colpo è pesantissimo.
Ma la lista è lunga: Ali Shamkhani, consigliere personale della Guida suprema Khamenei. Mohammad Ali Jafari, ex capo dei pasdaran durante le operazioni in Siria e in Iraq. E poi due scienziati: Tehranchi, fisico teorico e stratega nucleare, e Abbasi, ex direttore dell’agenzia atomica.
I luoghi colpiti? Tutti: il sito di Natanz, scavato 50 metri sotto terra; l’Organizzazione per le industrie aerospaziali in piazza Nobonyad; il quartiere di Lazivan (presunto sito nucleare mai verificato); il distretto di Amir Abad e la società Pars Garna, legata alla costruzione di bunker per arricchire uranio.
Ma c’è anche l’altra faccia della guerra: i civili morti. Perché i missili hanno colpito anche quartieri abitati, distruggendo case, scuole, vite. Le stime parlano di decine di vittime non militari.
Il regime iraniano è in silenzio apparente. Ma la risposta potrebbe arrivare. E non sarà gentile.
Politica
Meloni show a Libero: baci a Trump, schiaffi alla sinistra

Giorgia Meloni si collega da remoto, ma conquista il palco come se fosse in prima fila. Venti minuti in videocollegamento per celebrare i 25 anni di Libero, ma sembrava un comizio con microfono aperto. Il pubblico in sala applaude, Mario Sechi sorride, Vittorio Feltri si dichiara “innamorato” della premier. Lei ringrazia e parte col repertorio.
Il pezzo forte? Il solito vecchio Donald. “Trump è un leader coraggioso, schietto, determinato. Ci capiamo bene anche quando non siamo d’accordo”, dichiara fiera. Dazi, guerre commerciali e instabilità globale passano in secondo piano: quello che conta è l’intesa tra sovranisti. “Difende i suoi interessi nazionali, io faccio lo stesso”, rivendica, come se il mondo fosse diviso tra chi “tiene famiglia” e chi no.
Poi il colpo basso sul referendum. Altro che test per il governo: “Era un referendum sulle opposizioni, e il risultato è chiaro”, dice. Traduzione: ha perso la sinistra, non io. “Se vincono, è un trionfo della democrazia. Se perdono, c’è un problema di democrazia. È sempre la stessa storia”, attacca, liquidando critiche e dubbi come capricci da salotto.
E infatti a quelli che nei salotti ci vivono, riserva la stoccata finale. Il quesito per la cittadinanza dopo cinque anni? “Una sciocchezza”, sentenzia. “Solo chi frequenta club esclusivi può pensarlo. La legge attuale va benissimo. Ed è quella che vuole la stragrande maggioranza degli italiani”. Argomento chiuso.
In mezzo, il solito omaggio a Berlusconi, “fiero di noi per il milione di posti di lavoro”, e l’ennesima autoassoluzione: “Noi andiamo avanti con il nostro lavoro”. Il copione non cambia. Ma ogni volta è più rodato.
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