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Cronaca

Piero Fassino torna sul caso del profumo rubato: “Solo una distrazione, mi dispiace”

L’ex sindaco di Torino respinge le accuse legate al presunto furto al duty free dell’aeroporto di Fiumicino: “Chi mi conosce sa che sono sempre stato corretto e onesto”. Ma sui social non mancano le battute.

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    Piero Fassino è tornato a parlare della vicenda che lo ha visto coinvolto lo scorso aprile all’aeroporto di Fiumicino, dove è stato accusato di aver tentato di sottrarre un profumo. “Si è trattato solo di una distrazione”, ha ribadito l’esponente del Partito Democratico in un’intervista rilasciata a La Stampa. Dopo l’assoluzione per il caso delle presunte irregolarità legate al Salone del Libro di Torino, Fassino ha colto l’occasione per chiarire ancora una volta la sua posizione sul presunto furto al duty free.

    “Sessant’anni di vita politica all’insegna della correttezza”

    “Sto per compiere sessant’anni di vita politica e chiunque mi abbia conosciuto può testimoniare della correttezza e dell’onestà che hanno sempre ispirato i miei comportamenti,” ha dichiarato Fassino, ribadendo che l’episodio del profumo è stato un malinteso di cui è il primo a rammaricarsi. L’ex sindaco di Torino ha spiegato che, mentre era nell’area shopping dell’aeroporto, ha preso il profumo Chanel per la moglie e lo ha appoggiato nella tasca della giacca, distratto dal trolley in una mano e dal cellulare nell’altra.

    Una distrazione costosa

    Il 15 aprile, durante l’attesa del volo per la Francia, Fassino si era recato al duty free per acquistare un regalo per la moglie, ma l’allarme antitaccheggio è scattato quando è uscito dal negozio con il profumo in tasca. “Avevo intenzione di pagare, ma è stato un errore dettato dalla confusione del momento,” ha aggiunto. I responsabili del negozio, dopo aver visionato i filmati delle telecamere di sorveglianza, hanno però deciso di sporgere denuncia.

    Lo scorso luglio, il legale di Fassino ha proposto un risarcimento di 500 euro per chiudere la vicenda. Tuttavia, il giudice non ha ancora emesso una sentenza definitiva. Il profumo, il celebre Chanel Chance, costa circa 100 euro, ma l’esponente PD ha voluto comunque offrire un risarcimento cinque volte superiore per mettere fine al caso.

    Ironia social: “Il profumo della vittoria”

    Sui social, intanto, non mancano le battute. L’intervista postata da Fassino su X (ex Twitter) è stata inondata di commenti, alcuni di sostegno per l’assoluzione legata al Salone del Libro, ma molti non hanno resistito a tirare nuovamente in ballo la vicenda del profumo. “Il profumo della vittoria”, ha ironizzato un utente, mentre un altro ha postato una foto del flacone di Chanel accompagnata dalla scritta: “Ora capisco perché fa impazzire tutti”.

    Un periodo difficile per Fassino

    Questo periodo sembra essere particolarmente complesso per Fassino, che nonostante l’assoluzione per le vicende torinesi deve ancora affrontare le conseguenze della questione di Fiumicino. “Provo dolore e amarezza per le tante denigrazioni subite in questi anni,” ha scritto l’ex sindaco, sottolineando come la vicenda del profumo stia pesando non solo sulla sua immagine, ma anche sulla sua vita personale e familiare.

    In attesa che il giudice si pronunci, Fassino resta fermo sulla sua versione: una distrazione, nient’altro che un errore umano in una giornata complicata. Ma nell’era dei social, ogni passo falso, reale o percepito, viene amplificato e trasformato in meme, lasciando al politico torinese il compito di difendersi anche dalle frecciate del web.

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      Cronaca

      Attentato a Ranucci, la pista albanese prende corpo: il nome di Artur Shehu entra nell’inchiesta e apre scenari internazionali

      Secondo gli inquirenti il movente potrebbe essere collegato al servizio dedicato agli hotspot per migranti: una pista complessa che coinvolge rapporti economici, territori sensibili e figure vicine alla criminalità internazionale.

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      Sigfrido Ranucci

        Nell’indagine sull’attentato contro Sigfrido Ranucci emerge un nome che porta lontano da Roma e conduce in Albania: Artur Shehu, 58 anni, imprenditore da tempo negli Stati Uniti e considerato dagli investigatori figura di peso della criminalità del suo Paese. Una presenza che torna ogni volta che si citano traffici internazionali e ambienti mafiosi. Secondo fonti giudiziarie, la sua posizione sarebbe stata segnalata anche alla Direzione investigativa antimafia, sulla base di rapporti arrivati da Valona.

        L’inchiesta in TV

        A indirizzare gli investigatori verso il fronte albanese è stata la puntata di Report del 21 aprile scorso, dedicata al progetto degli hotspot per migranti previsto dall’accordo Italia–Albania. Nel servizio, intitolato “(Hot) Spot Albanese”, il nome di Shehu compare più volte, associato a inchieste internazionali e presunti legami con Cosa Nostra e Sacra Corona Unita. Un elemento che, oggi, viene valutato come possibile nodo d’interesse per individuare un movente. Il programma raccontava inoltre la donazione di 30 mila metri quadrati di terreno vicino Valona a una fondazione italiana, mediata da figure vicine al governo albanese.

        Una scia di ombre

        La Direzione distrettuale antimafia di Roma lavora insieme ai carabinieri per chiarire se l’attentato sia la risposta a quel servizio o se si tratti di una ritorsione legata a fronti documentati in altre inchieste. Parallelamente si verifica la dinamica materiale dell’esplosione: chi ha collocato l’ordigno, se siano stati effettuati sopralluoghi, se esista un coordinamento all’estero. A inquietare ulteriormente è un precedente: la scorsa estate sarebbe stato tentato l’ingresso nella seconda casa del conduttore, episodio oggi valutato come possibile segnale d’allarme.

        Dicono gli investigatori

        Il quadro investigativo si muove su un terreno complesso, dove piste giudiziarie, politica internazionale e criminalità organizzata rischiano di sovrapporsi. L’ombra che attraversa l’Adriatico è ancora densa di punti oscuri, ma per gli inquirenti non è affatto marginale. La trasmissione di Ranucci, negli ultimi anni, ha più volte raccontato vicende capaci di toccare interessi economici enormi, società di mezzi e figure pubbliche di primo piano.

        Per questo motivo, spiegano fonti interne, ogni collegamento viene vagliato con estrema cautela. Intorno al giornalista cresce intanto un clima di solidarietà istituzionale, con un livello di attenzione che gli investigatori definiscono «molto alto». Saranno i prossimi accertamenti a stabilire se la pista albanese supera lo stadio preliminare e diventa una direttrice concreta dell’inchiesta.

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          Mistero

          Marilyn Monroe, mistero infinito: James Patterson rilancia l’ombra dei Kennedy, di Sinatra e della Mafia

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            Marilyn Monroe non smette di far parlare di sé, nemmeno 63 anni dopo la morte. Nel suo nuovo libro The Last Days of Marilyn Monroe: A True Crime Thriller, James Patterson — uno degli autori più letti al mondo — rimette in scena la teoria più inquietante: la diva sarebbe morta non per un gesto volontario, ma per le informazioni che custodiva. «Navigava in acque molto pericolose», ha detto al Hollywood Reporter. Le sue frequentazioni? John e Robert Kennedy, Frank Sinatra, figure legate alla Mafia. «Gente che le confidava cose. E lei ne teneva traccia».

            Un’indagine mai chiusa, tra autopsie incomplete e detective dubbiosi

            Il corpo di Marilyn fu trovato nella sua casa di Brentwood: barbiturici sul comodino, una bottiglia di Nembutal, la tesi del suicidio archivata in poche ore. Ma, ricorda Patterson, l’autopsia «non fu completa come avrebbe dovuto». Non tutti i dettagli tornarono. E uno dei detective arrivati sul posto si convinse “di trovarsi davanti a una messa in scena”. Elementi che alimentano un alone di sospetto mai dissolto, alimentato dalle tantissime versioni circolate negli anni.

            Una vita romanzo, tra dodici famiglie affidatarie e un talento che travolge

            Il libro scritto con Imogen Edwards-Jones si muove tra fatti, ricostruzioni e dialoghi immaginati — dichiarati come tali — ripercorrendo anche l’infanzia drammatica della diva, cresciuta in undici famiglie affidatarie e segnata da una balbuzie che solo anni dopo riuscì a controllare. Patterson sostiene che il pubblico non conosca davvero la sua storia e che, dietro ogni fotografia patinata, ci fosse un percorso pieno di crepe e fragilità.

            Oggi Marilyn è ancora al centro della cultura pop come simbolo, ossessione e mito irrisolto. Patterson spera ora che il libro diventi una serie tv. Per Hollywood, un altro tassello nell’eterno ritorno della sua stella più luminosa — e più controversa.

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              Mondo

              I diari di Comey riaprono il caso Trump–Russia: tra “pioggia dorata”, richieste di lealtà e vanti di Putin sulle “migliori prostitute del mondo”

              Dai colloqui descritti nei diari di James Comey emergono dettagli esplosivi: Trump che nega prostitute e molestie, Putin che gli vanta “le migliori prostitute del mondo”, le richieste di “lealtà” alla Casa Bianca, la “roba della pioggia dorata” e le pressioni per indagare sul dossier Steele. Appunti che riaprono il nodo: il presidente ostacolò la giustizia?

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                Il materiale pubblicato nei diari di James Comey è di quelli destinati a riscrivere la narrativa del Russiagate. Non solo retroscena, ma frammenti di conversazioni tra l’allora direttore dell’Fbi e Donald Trump che riportano alla luce uno dei periodi più tesi e surreali della Casa Bianca. E tra i passaggi più incredibili, c’è perfino Vladimir Putin che si vantava col presidente americano di avere “le migliori prostitute del mondo”. Una frase che da sola basterebbe a spiegare perché, ancora oggi, quei dossier fanno tremare Washington.

                Il primo incontro: il dossier Steele e la smentita di Trump
                Il primo colloquio avviene a New York, poco dopo le elezioni. Comey informa Trump delle accuse contenute nel rapporto Steele: presunti incontri con prostitute al Ritz Carlton di Mosca nel 2013. Trump lo interrompe: «Non c’erano prostitute, non ci sono mai state». Ride, lasciando intendere di non aver bisogno di pagare per il sesso. Poi smentisce anche le accuse di molestie da parte di una stripper. Nessuna incertezza, nessun tentennamento: solo negazioni.

                La cena nella Green Room e la richiesta che spiazza Comey
                Il 28 gennaio 2017, nella Green Room della Casa Bianca, tutto si fa ancora più incandescente. «Mi serve lealtà, mi aspetto lealtà», dice Trump. Comey tace, lui se ne accorge. La conversazione è caotica: mail di Hillary Clinton, soffiate, sospetti sul vice McCabe. Finché non riaffiora la questione più delicata: la “pioggia dorata”. Trump ribadisce che era una fake news e confida di essere infastidito dal fatto che la moglie possa crederci. Poi insiste: vuole che l’Fbi indaghi per dimostrare che la storia è falsa. Comey gli spiega che così sembrerebbe sotto inchiesta. Trump torna alla carica: «Ho bisogno di lealtà». Lui concede solo “onestà”. Trump replica: «Lealtà onesta». Un compromesso che sembra uscito da un dialogo teatrale.

                Priebus, Flynn e il mosaico dell’inchiesta
                L’8 febbraio Comey incontra il capo di gabinetto Reince Priebus. Gli spiega che alcune parti del dossier Steele sono state corroborate da altra intelligence. Priebus vuole sapere se esiste un ordine per spiare Michael Flynn. Poi cerca di capire perché Hillary Clinton non sia stata incriminata. Poco dopo, Trump appare e ripete la sua posizione: la storia è falsa. Ma aggiunge un dettaglio che gela la stanza: «Putin mi ha detto che in Russia hanno alcune delle migliori prostitute del mondo». Un’affermazione che pare più una vanteria che una difesa.

                Il nodo politico e giudiziario: ostacolo alla giustizia?
                I memo riportano non solo scene imbarazzanti, ma anche pressioni che potrebbero essere interpretate come tentativi di influenzare l’operato dell’Fbi. Richieste di lealtà personale, pressioni sulle indagini, sospetti interni, tentativi di indirizzare la narrativa pubblica. Tutto questo mentre l’ombra del Russiagate si allungava sulla presidenza.

                Un caso che continua a parlare
                A distanza di anni, le parole annotate da Comey restano uno degli strumenti più preziosi per capire la tensione di quei mesi. Un racconto fatto di frasi scomposte, richieste sibilline e dettagli imbarazzanti, in cui la politica si mescola allo show. E ogni memo diventa un tassello che riporta al centro una domanda sospesa: quanto lontano si spinse davvero la Casa Bianca?

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