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Politica

Guerra è il più amato. Fedriga al top fra i governatori. Lo dice un sondaggio nazionale

Un sondaggio ha evidenziato che le strade di sindaci e presidenti di Regione seguono tendenze divergenti. Mentre il calo di gradimento è fisiologico per un governatore su due, tre sindaci su quattro perdono consenso. Il ruolo dei presidenti di Regione è percepito come più incisivo, influenzato anche dal dibattito sull’autonomia differenziata che ha aumentato il loro protagonismo a livello nazionale.

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    Il Governance Poll 2024, condotto dall’Istituto demoscopico Noto Sondaggi per il Sole 24 Ore, ha svelato le classifiche di gradimento per sindaci e presidenti di Regione. In vetta alla classifica dei sindaci troviamo Michele Guerra di Parma con il 63%, seguito da Gaetano Manfredi di Napoli con il 62% e Michele De Pascale di Ravenna con il 61%, completando così un podio tutto di centrosinistra. Al quarto posto si piazzano Luigi Brugnaro (Venezia), Giuseppe Cassì (Ragusa), Claudio Scajola (Imperia) e Matilde Celentano (Latina).

    Per quanto riguarda i presidenti di Regione, Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia) conquista la prima posizione con il 68%, superando Stefano Bonaccini (Emilia Romagna, 67%) e Luca Zaia (Veneto, 66%). Fedriga scalza così Bonaccini e Zaia, mantenendo invariato il trio di testa rispetto agli anni precedenti, ma con piazzamenti invertiti.

    Sindaci: cala la popolarità

    Un dato significativo del Governance Poll 2024 è il calo di popolarità della maggior parte dei sindaci. Solo uno su quattro ha visto un incremento di consenso rispetto al giorno delle elezioni. Clemente Mastella (Benevento) guida questo gruppo con un +6,3%, seguito da Jamil Sadegholva (Rimini, +6,2%) e Luigi Brugnaro (Venezia, +5,9%).

    Al contrario, tre sindaci su quattro hanno registrato una flessione nei consensi. Roberto Gualtieri (Roma) ha subito un calo del 15,2%, posizionandosi penultimo con il 45%, insieme a Roberto Lagalla (Palermo). Anche Giuseppe Falcomatà (Reggio Calabria) ha perso il 12,9%, piazzandosi al 77° posto con il 45,5%. Stefano Lo Russo (Torino) è sceso al 57° posto con il 51,5% (-7,7%), mentre Matteo Lepore (Bologna) ha registrato un calo del 7,4%, piazzandosi al 37° posto con il 54,5%. Marco Bucci (Genova) ha perso il 6,5%, scendendo al 67° posto con il 49%. Beppe Sala (Milano) è rimasto stabile al 57%, conquistando il 19° posto.

    Presidenti di Regione: Fedriga in vetta

    Tra i presidenti di Regione, Massimiliano Fedriga ha scalato la classifica con il 68%, seguito da Stefano Bonaccini (67%) e Luca Zaia (66%). Al quarto posto, con il 60%, si trovano Vincenzo De Luca (Campania) e Roberto Occhiuto (Calabria). Francesco Roberti (Molise) e Donatella Tesei (Umbria) condividono il sesto posto con il 57,5%, mentre Renato Schifani (Sicilia) è ottavo con il 57%. Attilio Fontana (Lombardia) è nono con il 55% (+0,3%). Francesco Rocca (Lazio) è in calo del 6,4%, posizionandosi undicesimo con il 47,5%.

    Stefano Bonaccini (+15,6%) e Renato Schifani (+14,9%) hanno registrato i maggiori incrementi di consenso rispetto al giorno delle elezioni.

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      Politica

      La “santa” si veste da trumpiana: Santanchè difende il tycoon e punge Marina Berlusconi

      Marina Berlusconi aveva parlato di “preoccupazione” per l’impatto del tycoon sull’ordine mondiale. Santanchè risponde piccata: “Non si giudica un alleato. Trump? Esagera, ma è una strategia”. Un messaggio indiretto anche a Giorgia Meloni, che sul rapporto con il repubblicano punta tutto.

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        Una frizione tutta interna al centrodestra, giocata sul terreno più internazionale che ci sia: Donald Trump. Da una parte Marina Berlusconi, preoccupata e scettica sul ritorno del tycoon; dall’altra Daniela Santanchè, che invece corre a difenderlo a spada tratta, vestendo i panni – neanche troppo metaforici – della trumpiana di ferro.

        “Non mi sembra giusto intervenire a gamba tesa con giudizi sul presidente degli Stati Uniti”, ha dichiarato la ministra del Turismo. “Sono un nostro alleato con il quale, a prescindere da chi è al potere, dovremo avere rapporti assolutamente buoni”. Parole che suonano come una risposta diretta alla presidente di Mondadori e Fininvest, che appena ieri aveva criticato duramente il ritorno di Trump alla Casa Bianca, parlando di “certezze del dopoguerra messe in crisi” e di un colpo “durissimo alla credibilità dell’America e dell’Occidente”.

        La replica della Santanchè, per molti, non è solo una difesa d’ufficio degli equilibri atlantici, ma anche un messaggio politico: al centrodestra, certo, ma anche a Giorgia Meloni, che coltiva da mesi la sua “special relationship” con il leader repubblicano, convinta che possa rappresentare un’opportunità di rilancio per i rapporti Italia-USA.

        “La comunicazione di Trump? A volte spara grosso – ha aggiunto la ministra – ma forse è una sua tecnica. Vedremo con il tempo i risultati”. Un modo per legittimare l’ex presidente e, al tempo stesso, mandare un segnale chiaro: in casa FdI c’è spazio per una linea filoamericana, purché sia realista e pragmatica.

        Marina Berlusconi, che ha appena ricevuto l’onorificenza di Cavaliere del lavoro, sembra invece parlare più con l’anima moderata dell’elettorato che con il cuore del partito. Il suo allarme sulla tenuta dell’ordine mondiale trova eco in ambienti economici e diplomatici, ma meno tra chi – come Santanchè – considera strategico mantenere rapporti solidi con Washington, indipendentemente da chi ci abita.

        La battaglia sul tycoon è solo all’inizio. E nel centrodestra, a ogni “America first”, corrisponde ormai una risposta molto italiana.

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          Politica

          Liliana Segre: «Provo repulsione per il governo Netanyahu. Ma l’attacco di Hamas resta la causa scatenante»

          «Israele ha superato i limiti del diritto di difesa, ma non è genocidio. E Trump? Ha bullizzato Zelensky: una scena che mi ha fatto provare disgusto».

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            Liliana Segre non si nasconde. Non lo ha mai fatto, neppure nei momenti in cui il silenzio sarebbe stato più comodo. E oggi, alla soglia dei novantaquattro anni, la senatrice a vita torna a parlare. Lo fa con parole dure, scomode, che rifiutano semplificazioni e schieramenti ciechi. Lo fa nell’intervista inedita che apre il libro Non posso e non voglio tacere. Riflessioni di una donna di pace, in uscita per Solferino. E in queste pagine, come sempre, Segre non arretra.

            «Provo uno sconforto che rasenta la disperazione», dice, osservando il conflitto che da Gaza al Libano infiamma il Medio Oriente. Vede due popoli in trappola, israeliani e palestinesi, «condannati a odiarsi, guidati dalle peggiori componenti delle rispettive leadership». Non ha dubbi sulla natura criminale dell’attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas, che definisce «fanatismo sanguinario». Ma non per questo risparmia critiche a Israele: «Sento una profonda repulsione verso il governo Netanyahu, una destra estrema, ipernazionalista, con componenti fascistoidi e razziste». Aggiunge che ogni governo israeliano avrebbe reagito con forza dopo un simile trauma, ma la guerra a Gaza «ha avuto connotati di ferocia inaccettabili» e non ha rispettato il diritto internazionale.

            Il nodo del genocidio, termine sempre più usato nei dibattiti e nelle piazze, viene affrontato con lucidità. Segre lo respinge: «La guerra di Gaza è stata atroce, ma non è corretto parlare di genocidio. La responsabilità primaria è di Hamas, ma Israele ha compiuto stragi e distruzioni immani andando oltre il diritto di difesa».

            Eppure, ricorda, Hamas non è il popolo palestinese. «Non rappresenta i palestinesi, non lotta per uno Stato, vuole solo la distruzione di Israele. Lo stesso vale per l’Iran, che li strumentalizza per combattere l’“entità sionista”». Non nega gli errori di Israele, anzi: li elenca, e ammette che lo Stato ebraico ha delle responsabilità gravi per la condizione dei palestinesi. Ma torna al 2005, al ritiro da Gaza, a quella possibilità «sprecata» con l’ascesa violenta di Hamas. E continua ad augurarsi la soluzione dei due Stati: «È difficile, ma non impossibile. La storia ha visto svolte impensabili anche nel Medio Oriente».

            Segre, come sempre, alza lo sguardo. E vede il panorama cupo dell’Occidente: la rielezione possibile di Trump, l’estrema destra che cresce in Germania e Austria, il pantano francese, le interferenze russe e l’influenza di miliardari americani sulle elezioni europee. «L’Unione Europea è sotto attacco», avverte, e la crisi ucraina le brucia nel cuore. «Se Kiev venisse abbandonata, sarebbe un tradimento come quello di Monaco nel 1938, quando si diedero i Sudeti a Hitler illudendosi di fermarlo». Il paragone non è retorico, è amaro e consapevole.

            Ma la ferita più fresca è quella dell’incontro tra Trump e Zelensky alla Casa Bianca, il 28 febbraio scorso: «Vedere Trump bullizzare Zelensky, accusarlo, minacciarlo, è stato disgustoso. Io ricordo gli Stati Uniti dei soldati che ci liberarono dal nazifascismo. Questa America non la riconosco più. Non avrei mai immaginato una presidenza Usa che abbandona le democrazie europee per mettersi in combutta con le dittature».

            Liliana Segre non tace. Non vuole e non può farlo. Anche quando le sue parole dividono, anche quando il dolore è troppo grande per essere racchiuso in formule. La sua voce resta un monito, una coscienza viva che rifiuta il cinismo dell’indifferenza.

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              Politica

              L’ossessione albanese di Giorgia Meloni: quattro viaggi, 6.000 euro e un fallimento annunciato

              Doveva essere la grande trovata contro l’immigrazione, è diventata una farsa costosissima: in una settimana, quattro viaggi per rimpatriare un bengalese che voleva tornare a casa.

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                Aveva promesso fermezza, efficienza e costi ridotti. Giorgia Meloni, paladina della “linea dura” contro l’immigrazione irregolare, aveva presentato l’accordo con l’Albania come il fiore all’occhiello della sua politica. Peccato che la realtà, come spesso accade con le crociate propagandistiche, si stia rivelando una tragicommedia fatta di sprechi, caos e figuracce.

                Fahim, 49 anni, venditore di rose bengalese

                Il caso di Fahim, 49 anni, venditore di rose bengalese con qualche piccolo precedente penale, è il simbolo perfetto del fallimento annunciato. Irregolare in Italia, avrebbe potuto essere rimpatriato nel giro di pochi giorni direttamente da Roma. E invece no: nella foga di inaugurare a tutti i costi il costosissimo Cpr albanese di Gjader, Fahim è stato usato come cavia di un’operazione surreale che ha coinvolto lui e una scorta di poliziotti, costretti a fare avanti e indietro tra Italia e Albania per quattro volte in una settimana.

                Una trottola umana che ci è costata, calcoli alla mano, almeno 6.000 euro — e probabilmente anche molto di più — per ottenere il rimpatrio di un uomo che non solo non si opponeva, ma che aveva espresso esplicitamente il desiderio di tornare a casa.

                Una buffonata internazionale

                Sarebbe bastato organizzare un volo da Fiumicino a Dacca, spendendo i circa 2.800 euro che il Viminale stima come costo medio per un rimpatrio. Invece, per alimentare una narrazione, il governo ha preferito inscenare una buffonata internazionale, imbarcando Fahim prima su un volo per Brindisi, poi su una nave per l’Albania, poi di nuovo su un aereo per tornare in Italia, infine rispedirlo finalmente in Bangladesh. In mezzo, tre poliziotti per ogni tratto di viaggio, perché la sicurezza viene prima di tutto — soprattutto quando serve a giustificare un simile scempio di risorse.

                Come se non bastasse, la farsa non si è limitata a Fahim. Nei giorni successivi, altri tre migranti sono stati riportati precipitosamente in Italia da Gjader: due perché ritenuti incompatibili con la detenzione a causa delle loro condizioni psichiche, uno perché nel frattempo aveva chiesto asilo. E i giudici della Corte d’appello di Roma — diversamente dalle promesse muscolari del ministro Piantedosi — hanno stabilito che chi chiede protezione internazionale deve rientrare subito in Italia.

                Così, mentre Giorgia Meloni e il suo governo cercano di vendere agli italiani l’illusione di “controllare le frontiere” a suon di viaggi a vuoto e milioni di euro bruciati, la realtà dei fatti è un via vai tragicomico che ha poco di serio e molto di costosamente inutile.

                Altro che piano Marshall contro i trafficanti di esseri umani: l’accordo con l’Albania sta diventando l’ennesima recita di propaganda, fatta pagare profumatamente ai contribuenti italiani.

                E mentre Fahim è finalmente tornato nella sua Dacca, ringraziando probabilmente la nostra burocrazia delirante, a Roma resta la scena di un governo che, pur di non ammettere il flop, continua a rincorrere una chimera. Al prezzo, come sempre, che paghiamo noi.

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