Cronaca
Quel gran… magnate di Elon Musk mette mano al portafoglio per Trump

Strano paese gli USA: c’è chi spara all’ex presidente con velleità di ritorno al potere e chi, per aiutarlo, è pronto a sborsare una fortuna. Verrebbe da dire… alla faccia del sostegno elettorale! D’altronde è risaputo che gli Stati Uniti d’America sono una nazione dove si fa tutto in grande. Quel gran magnate di Elon Musk si dichara infatti disponibile a donare 45 milioni di dollari al mese (avete letto bene, tanto per lui sono più che bruscolini…) per sostenere la causa Trump per la presidenza. A riferire la notizia è l’autorevole Wall Street Journal, citando persone a conoscenza della questione come prova.
Un’obolo pesantissimo
In effetti il proprietario di X e Ceo di Tesla non bada proprio a spese. Sabato scorso ha espressamente ufficializzato il proprio sostegno all’ex presidente degli Stati Uniti. Con un impegno sbalorditivo: sarebbe pronto a versare la bellezza di 45 milioni di dollari al mese nelle casse di un nuovo super comitato di azione politica che aiuterebbe Trump a sostegno della corsa presidenziale dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Lo riferisce il ‘Wall Street Journal’, citando persone a conoscenza della questione.
In buona compagnia
Il gruppo si chiama America Pac. Al suo interno troviamo il co-fondatore di Palantir Technologies Pltr, Joe Londsale, i gemelli Winklevoss, l’ex ambasciatrice degli Stati Uniti in Canada Kelly Craft e il consorte Joe Craft (Ceo del produttore di carbone Alliance Resource Partners). Insomma… un bel gruppetto di ricconi!
Un contrasto convinto a Biden
Dopo la sua recente costituzione, American Pac si è data il compito di raccogliere sostegni ulteriori. Spingendo gli elettori a votare in anticipo e richiedere le schede per posta negli stati indecisi. Il gruppo di sostegno ha valutato che i democratici hanno storicamente avuto campagne molto solide per spingere gli elettori ad esprimersi, intendendo contrastare con forza la promozione di Biden negli stati indecisi.
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Cronaca
Quando il conclave si affida ai segni: così Robert Prevost è diventato Papa
Il New York Times racconta la notte della Sistina: Parolin bruciato dalle divisioni, Erdo fuori gioco. E Prevost, seduto al posto di Bergoglio, diventa Papa

Alla fine non sono bastate strategie, coalizioni e giochi di corridoio. A decidere è stato anche un dettaglio apparentemente insignificante: Robert Prevost era seduto esattamente nello stesso posto che occupava Jorge Mario Bergoglio nel 2013, quando divenne Papa Francesco. Coincidenze? In conclave, si chiamano segni.
Il New York Times ha ricostruito le ore decisive che hanno portato all’elezione del nuovo pontefice, Leone XIV. Un dietro le quinte fatto di voti ballerini, cardinali indecisi, battute in latino stanco, respiri profondi e mani tra i capelli. Ma anche di lotte intestine: Pietro Parolin, l’uomo forte della diplomazia vaticana, è stato affondato dalla storica incapacità degli italiani di presentarsi uniti. “Erano divisi”, raccontano i cardinali. E questo, in Sistina, è letale.
Il primo scrutinio, quello “tecnico”, viene descritto come un test. Nessuna pausa cena, niente bagno: “Una prova generale”, la definisce il cardinale Juan José Omella. Ne escono fuori tre nomi: Parolin, Peter Erdo (l’ungherese sostenuto da conservatori e africani), e Robert Prevost. Ma mentre i primi due si incagliano nelle sabbie mobili delle spaccature interne e dell’impossibilità di allargare il consenso, Prevost — ex missionario in Perù, già prefetto dei vescovi, americano ma discretissimo — comincia la scalata.
Il colpo di scena arriva il 3 maggio, cinque giorni prima dell’apertura ufficiale del Conclave. I cardinali estraggono a sorte i ruoli organizzativi e a Prevost tocca un compito centrale: coordinare le riunioni preparatorie. È in quei giorni che il suo profilo cresce. È discreto, ascolta molto, media. Il cardinale Tobin, suo connazionale, gli sussurra una profezia: “Bob, potrebbero proporlo a te”.
E lo propongono davvero. Alla quarta votazione, le schede virano di colpo. “Schieramento schiacciante”, dice il cardinale You Heung-sik. Il clima si fa teso, e si moltiplicano i segnali. Il cardinale Tagle lo osserva seduto, teso, quasi incredulo. Il cardinale Tobin lo vede a capo chino, con la testa tra le mani. La Sistina trattiene il fiato.
Nel pomeriggio scatta l’ultima chiamata. I voti si accumulano, uno dopo l’altro. Fino a quota 89: la soglia dei due terzi. L’assemblea esplode. Ma Prevost rimane seduto. “Qualcuno dovette tirarlo su”, ricorda commosso il cardinale David. Tutti in piedi, lui no. Lacrime. E, subito dopo, una pioggia di abbracci. “Ha preso una maggioranza larghissima”, racconta Désiré Tsarahazana del Madagascar. Il nome scelto è Leone XIV.
E poi c’è la lingua. Prevost, nato a Chicago, cittadino americano, quando si affaccia per la prima volta come Papa non dice una parola in inglese. Parla in italiano, poi in spagnolo. È una scelta voluta, raccontano. Per non apparire troppo “americano” davanti a un’assemblea in cui la superpotenza non è più quella che detta la linea. È una strategia. Funziona.
Il Papa delle coincidenze diventa Papa dei gesti misurati. Quello che rifiuta il trionfalismo. Che sceglie il silenzio al clamore. Che arriva al soglio di Pietro con passo lento e mani giunte. Leone XIV non era il favorito. Ma oggi, per molti, è la risposta.
Cronaca
Papa Leone XIV, tutti lo vogliono: da Kiev al Perù, ma lui prende tempo
Zelensky lo chiama e chiede una visita a Kiev, Bartolomeo potrebbe portarlo a Nicea. Ma Leone XIV sembra cauto: “Dal Perù, presto notizie”

È bastata una settimana da Papa perché Robert Francis Prevost diventasse il personaggio più richiesto del pianeta. Leone XIV, appena insediato, è già stato invitato da presidenti, patriarchi, giornalisti e governi. Ma lui, con lo stile di chi sa che la fretta è cattiva consigliera, ascolta, riflette e per ora non scioglie nessun nodo.
Il primo a muoversi è stato Volodymyr Zelensky. Nella loro prima telefonata — “molto calorosa”, secondo il presidente ucraino — il capo dello Stato ha invitato il Papa a recarsi a Kiev per una visita apostolica. «Porterebbe speranza vera a tutti i credenti e a tutto il nostro popolo», ha scritto su X. I due si sono detti pronti a rimanere in contatto e si sono ripromessi un incontro “nel prossimo futuro”. Ma se e quando, al momento, resta un punto interrogativo.
Il tema è delicato. Francesco aveva già espresso il desiderio di andare a Kiev, ma solo se avesse potuto passare anche da Mosca. Una condizione difficile da soddisfare. Ora toccherà a Leone XIV decidere: accettare l’invito ucraino da solo o rimettere sul tavolo la vecchia idea del doppio viaggio. Una scelta anche geopolitica, che non sarà presa a cuor leggero.
Chi spera di averlo presto in patria è anche la Turchia. Da tempo si prepara una visita a Nicea, in occasione dell’anniversario del Concilio del 325, il primo grande concilio ecumenico della cristianità. Francesco ci aveva pensato a lungo, poi aveva rinunciato. Ma il progetto è stato riaperto. E Leone XIV, a chi gli ha chiesto conferma, ha risposto: “Sì, siamo al lavoro sull’organizzazione”.
Il contesto è favorevole: quest’anno la Pasqua è caduta nello stesso giorno per cattolici e ortodossi. E proprio domenica prossima arriverà in Vaticano il patriarca Bartolomeo di Costantinopoli per la messa di inizio pontificato. Potrebbe essere l’occasione giusta per formalizzare l’invito e dare un’accelerata alla macchina diplomatica.
Ma qui si apre un altro fronte: se Francesco aveva già visitato la Turchia, per Leone sarebbe la prima volta. E allora la visita non potrà limitarsi solo a Nicea, ma dovrà probabilmente includere anche una tappa ufficiale ad Ankara. Il dossier è aperto.
Nel frattempo, da altri Paesi arrivano proposte. La più delicata riguarda Fatima: uno dei luoghi più simbolici della fede cattolica. Ma Leone XIV ha risposto in modo evasivo, dicendo che “il cardinale Prevost aveva previsto di andarci, ma i piani sono cambiati”. Una frase diplomatica, che sembra escludere viaggi a breve.
Sorpresa invece sul fronte sudamericano. Alla domanda se tornerà “presto a casa”, Leone ha risposto “Non presto”, riferendosi agli Stati Uniti. Ma al Perù, dove ha vissuto vent’anni come missionario e poi vescovo, ha dedicato una frase molto più promettente: “Aspettatevi presto notizie su di me in Perù”. Parole che suonano come una mezza conferma.
Il primo vero segnale sulla sua agenda internazionale potrebbe arrivare venerdì, quando riceverà in udienza gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede. Lì, forse, si capirà meglio se davvero intende orientare la sua politica estera più a favore dell’Ucraina o mantenere una neutralità prudente. Per ora, Leone XIV sembra preferire la linea della continuità con Francesco. Ma i tempi cambiano, e con essi i gesti.
Per adesso, i viaggi restano ipotesi. Nicea è quasi certa, Kiev è una possibilità, il Perù un’opzione dal forte valore personale. Tutti lo vogliono, ma lui non ha fretta. E questo, in fondo, è già un segnale.
Mondo
Quel Boeing da 400 milioni potrebbe diventare il nuovo “Trump Force One”
Il lussuoso 747-8i, inizialmente progettato per la famiglia reale del Qatar, potrebbe trasformarsi nel jet presidenziale di Donald Trump. Dotato di camere da letto, lounge, uffici e persino una suite di sicurezza, il “palazzo volante” è già in un hangar in Texas per i primi adeguamenti.

Un Boeing 747-8i da 400 milioni di dollari, progettato per essere la dimora volante della famiglia reale del Qatar, potrebbe presto cambiare destinazione e diventare il nuovo Trump Force One. Due piani, stanze da bagno, lounge private, una camera principale per il presidente e persino una più piccola per gli ospiti. Questo jumbo jet si distingue per arredi di lusso, seggiolini in pelle, cuscini ricamati e una dotazione tecnologica di altissimo livello.
Il palazzo reale volante commissionato dagli Al-Thani
L’aereo, soprannominato “palazzo reale volante”, è stato originariamente commissionato dagli Al-Thani, ma ora sembra destinato a una nuova funzione. Donald Trump, accogliendo la proposta del Qatar, potrebbe utilizzarlo per sostituire l’Air Force One tradizionale. Il suo arrivo negli Stati Uniti è stato tracciato su FlightRadar24, con un viaggio che ha toccato Parigi, il Maine. E infine San Antonio, Texas, dove l’aereo è attualmente in un hangar per adeguamenti di sicurezza.
Un Boeing davvero special
L’azienda svizzera Amac Aerospace ha curato gli interni tra il 2012 e il 2015, scegliendo materiali pregiati e dotazioni tecnologiche avanzate. Il jet possiede telecamere esterne, un sistema di comunicazione satellitare, serbatoi d’acqua e televisioni, rendendolo uno degli aerei privati più sofisticati mai costruiti. Il passaggio ufficiale al presidente non è ancora confermato, ma gli interventi di sicurezza e difesa sono già in corso, segno che il progetto potrebbe concretizzarsi presto. Se Trump accetterà il jet, sarà uno dei regali più costosi mai ricevuti da un presidente americano, sollevando inevitabili polemiche sulla sua indipendenza nei confronti del Qatar. Ora resta da vedere se il Boeing extralusso solcherà i cieli americani con il sigillo presidenziale, trasformandosi nel nuovo Trump Force One. Di certo, se l’accordo andrà in porto, sarà la cabina più sontuosa che abbia mai ospitato un presidente.
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