Storie vere
PizzAut colpita da un furto: danni per 7 mila euro, ma il sogno continua
Porta a vetri in frantumi, sangue ovunque, il ristorante messo sottosopra. Dopo aver subito un furto il ristorante gestito dai ragazzi autistici non si ferma.

E’ stato un duro colpo per PizzAut. E soprattutto per quelli che sostengono questa speciale pizzeria e il loro lavoro di recupero e integrazione di ragazzi autistici. Il primo ristorante in Italia interamente gestito da ragazzi con disturbi neurocomportamentali si trova a Cassina de’ Pecchi, in provincia di Milano. E stata fondata da Nico Acampora, è stata presa di mira da un ladro che, nella notte, ha svaligiato la cassa e portato via due computer, causando danni complessivi per oltre 7 mila euro. La scoperta del furto è avvenuta la mattina successiva, quando Acampora è arrivato per organizzare il turno di mezzogiorno e ha trovato la porta in frantumi e sangue ovunque, segno che il malvivente si è ferito durante il colpo.
I ragazzi di PizzaAut: preoccupati per il ladro ferito
Le immagini delle telecamere di sicurezza hanno ripreso una sola persona all’interno del locale, ma si sospetta che possa aver avuto dei complici all’esterno. Il ladro ha rubato non solo il fondo cassa di circa 200 euro, ma anche il barattolo delle mance destinate ai ragazzi di PizzAut e due computer fondamentali per la gestione del ristorante, uno dei quali usato dai dipendenti per selezionare e redigere il menù. Di fronte a questa situazione, la preoccupazione più grande di Acampora s è rivolta soprattutto ai suoi ragazzi. Li ha riuniti in cucina mentre i carabinieri effettuavano i rilievi, cercando di tranquillizzarli. Erano scossi e disorientati, ma hanno subito reagito con una lezione di umanità. Invece di provare rabbia, hanno espresso preoccupazione per il ladro ferito. “Ma Nico, chi fa una cosa del genere non è normale!” hanno commentato alcuni di loro. “Speriamo che non si sia fatto troppo male. Guarda quanto sangue c’è in giro“.
Forza e coraggio venite a mangiare da noi…
Nonostante lo shock e i danni, il ristorante ha deciso di riaprire immediatamente, seppur con qualche difficoltà. “Un segnale per dire che il male non può vincere sul bene“, ha dichiarato Acampora. La reazione dei clienti non si è fatta attendere. Tantissime persone hanno espresso solidarietà e chiesto di poter contribuire economicamente ai danni subiti. Ma Acampora ha fatto una richiesta diversa. “Non vogliamo donazioni, vogliamo persone. Venite a Cassina a mangiare da noi, fate sentire la vostra vicinanza ai ragazzi. Non lasciateci soli“.
Il progetto PizzaAut diventa itinerante
Anche in questo caso PizzAut ha saputo trasformare un ostacolo in un’occasione di crescita. Il ristorante di Cassina de’ Pecchi ha aperto il 1 maggio 2022, dopo mesi di attesa dovuti alla pandemia. Il secondo locale è stato inaugurato a Monza nel 2023, con la presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a tagliare il nastro. Il progetto, raccontato nel libro “Vietato calpestare i sogni” scritto dallo stesso Acampora con Elisabetta Soglio, continua a espandersi con nuove iniziative. Tra queste i Food Truck itineranti per portare l’esperienza di PizzAut in tutta Italia.
Presi di mira perchè sempre in prima fila
Non è la prima volta che PizzAut subisce un atto simile. Giù nel 2019, prima ancora di aprire il primo ristorante, vennero rubati tutti i panettoni destinati a finanziare il progetto. Ma come allora, anche oggi la determinazione di Acampora e dei suoi ragazzi non si spegne. “Non ci hanno rubato il sorriso, né la voglia di un mondo migliore“, ha ribadito il fondatore. L’appello ora è chiaro: sostenere PizzAut non con donazioni, ma partecipando alla loro missione, andando a mangiare nei ristoranti e contribuendo così a mantenere vivo il loro sogno di inclusione e dignità per i ragazzi autistici. “Vi vogliamo bene a tutti, un po’ meno a chi è venuto a farci del male. Vi aspettiamo!“.
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Storie vere
Tavola calda, anzi bollente! Da cena tra amici a orgia su WhatsApp: sesso, foto hot e un notaio nei guai a Bogliasco
A Bogliasco, provincia di Genova, una cena tra un medico, un notaio e una donna si trasforma in un after-dinner a luci rosse con titolare del ristorante e cameriera. Qualche giorno dopo, le foto della serata finiscono su WhatsApp: la donna denuncia e la procura apre un fascicolo bollente.

A Bogliasco l’estate si è scaldata prima del previsto. Altro che spaghetti allo scoglio e bianco fresco: la cena tra amici si è trasformata in un post-serata da film vietato ai minori e, come se non bastasse, pure in un caso di revenge porn finito in Procura.
Tutto comincia ai primi di giugno, quando una donna accetta l’invito di un amico medico per una cena tranquilla. Tranquilla, si fa per dire. Alla tavolata si aggiunge un notaio che lei non conosce. Location: un ristorantino della riviera, vista mare, di proprietà di un imprenditore amico del gruppetto. Si mangia, si beve, si chiacchiera. Bottiglie di vino scorrono allegre, il clima è quello del “qui e ora” tipico delle serate che promettono di finire male.
Il titolare, tra un piatto di trofie al pesto e un sorso di Vermentino, ogni tanto si siede al tavolo. La complicità cresce, l’alcol aiuta, e quando scende la sera la cena diventa un after-dinner decisamente privato. Saracinesca abbassata, porta chiusa, e alla comitiva si unisce anche la cameriera, che è pure la compagna del ristoratore. Da quel momento, la cronaca si tinge di rosa, ma più fucsia acceso: effusioni, carezze, baci rubati, e in men che non si dica la tavola calda diventa un set a luci rosse improvvisato.
La donna, tra stupore e incoscienza da calici di troppo, si ritrova tra le braccia della cameriera. Poi entrano in gioco i tre uomini: medico, notaio e titolare. La scena, degna di una commedia all’italiana versione hard, si consuma fino a notte fonda. Alle due del mattino, la compagnia si scioglie: il dottore e la donna danno un passaggio al notaio, poi la serata si chiude a casa di lei.
Due giorni dopo, la doccia fredda. La donna si presenta nello studio del medico per un’ecografia programmata e lì riceve la notizia che cambia tutto: sul cellulare dell’amico ci sono foto della serata hot. Lui non sa spiegarsi come siano arrivate. Peccato che, nel frattempo, le stesse immagini abbiano già iniziato a girare su WhatsApp, in particolare dalle mani del notaio. E qui si passa dal peccato alla pena: la donna scopre che scatti molto espliciti della nottata sono finiti in chat tra colleghi e amici del professionista.
Lei lo chiama, furiosa, chiedendogli di cancellare tutto. Il notaio, con la leggerezza di chi non ha capito la gravità della situazione, ammette di averle già inoltrate e propone un incontro “per sistemare la cosa”. La donna, a quel punto, decide di non andare e sceglie la via legale. Contatta l’avvocato Salvatore Calandra, prepara una querela dettagliata e si rivolge alla Procura di Genova.
Sulla scrivania della sostituta procuratrice Daniela Pischetola arriva così un fascicolo da manuale del gossip giudiziario: sesso di gruppo, foto piccanti non autorizzate e un potenziale caso di revenge porn. Gli investigatori della polizia di Stato vengono incaricati di sentire tutti i protagonisti e, tra le prime informazioni raccolte, spunta anche l’ombra della droga per uso personale.
Ora tocca alla Procura ricomporre i pezzi di questa tavola calda, anzi caldissima, che dalla Riviera ligure è finita dritta nel registro delle indagini. Intanto, in paese, la storia corre più veloce delle chat: c’è chi giura di aver visto le foto, chi di aver sentito gli audio. E al ristorante, tra una focaccia e una bottiglia di bianco, le prenotazioni calano. Perché un conto è mangiare in un locale “accogliente”, un altro è rischiare che la cena finisca in prima serata… su WhatsApp.
Storie vere
Clausura a luci rosse: suora beccata online, la badessa la richiama e finisce rimossa
Una suora sorpresa su siti erotici, una badessa che invita alla castità, una lettera anonima al Vaticano e dodici religiose in fuga. A Vittorio Veneto le suore di clausura si sono divise tra obbedienza e ribellione, tra convento e villa segreta. Ma il convento, ora, non è più lo stesso.

C’era una volta un convento silenzioso, raccolto tra le colline venete, dove dodici monache di clausura vivevano nella quiete, tra litanie e rosari. Fino a quando il diavolo — o forse solo la connessione internet — non ci mise la coda. E a Vittorio Veneto scoppiò il finimondo tra le suore.
A raccontare l’ultima novena della discordia è una delle religiose fuggite: «Una delle consorelle era stata scoperta dalla badessa Aline su siti erotici. L’aveva invitata con delicatezza a rispettare il voto di castità. Ma da lì — guarda un po’ — è partita la lettera anonima al Papa», spiega oggi, con voce non proprio da confessionale.
La famosa missiva, indirizzata a Papa Francesco e firmata da quattro sorelle, accusava suor Aline di autoritarismo e gestione dispotica. Peccato che, secondo la versione delle “fuggiasche”, la questione sarebbe iniziata per tutt’altri motivi. Ovvero, per la voglia repressa di una sorella un po’ troppo curiosa.
Suor Aline, per molti un punto di riferimento spirituale e disciplinare, è stata rimossa dal Vaticano dopo l’esplosione del caso. Al suo posto è arrivata suor Martha Driscoll. Ma a quel punto, il clima dentro il convento era già da apocalisse: tensioni, ispezioni, sguardi storti nei corridoi e, dicono, pure qualche porta sbattuta più forte del dovuto.
Così, dodici suore hanno preso il velo (metaforicamente) e se ne sono andate. Ora vivono in una villa segreta, donata da un benefattore devoto e, immaginiamo, discretamente incuriosito. Temono “ritorsioni”, dicono. Non si sa da chi, ma si sa che preferiscono mantenere l’anonimato, anche se ormai — nel paese — il convento è diventato la nuova telenovela del dopomessa.
«Invece di affrontare le criticità, è stata rimossa la badessa. E tutti i soldi sono rimasti nel monastero», raccontano. Le suore in fuga vivono oggi con uno stipendio, una pensione e qualche offerta della comunità. Ma la vera eredità, quella che arde tra incensi e pettegolezzi, è un convento spaccato in due.
Una sola certezza rimane: anche tra le mura della clausura, le passioni umane battono più forte del silenzio. E dove non arrivano gli spiriti santi, arriva la fibra ottica.
Storie vere
Padova, rifiuta l’orale alla maturità: “È solo una sciocchezza”
Aveva già i crediti per il diploma e ha scelto di non presentarsi all’orale come forma di protesta: “Il sistema scolastico genera solo stress e competizione”. Dopo un confronto coi docenti, ha accettato di rispondere ad alcune domande.

Gianmaria Favaretto, 19 anni, studente del liceo scientifico Fermi di Padova, ha deciso di voltare le spalle all’esame orale della maturità. Non per un ripensamento dell’ultimo minuto o per paura del confronto, ma per protesta. La mattina del colloquio, con un tono fermo e garbato, ha firmato il registro, ha ringraziato la commissione ed è uscito dall’aula. «Grazie di tutto, ma io questo colloquio non lo voglio sostenere», ha detto. E se n’è andato.
La sua non è stata una fuga, ma una decisione meditata: “Avevo maturato questa scelta nel corso dell’anno. Con i 31 crediti accumulati nel triennio e i 31 ottenuti con le prove scritte, ero già a quota 62. Quindi avevo la sufficienza per il diploma”. Ma soprattutto, per lui, l’orale non aveva alcun valore. “È solo una formalità inutile – ha spiegato – un numero che pretende di misurare la persona, ma che non dice nulla sul suo valore reale”.
Favaretto ha criticato duramente l’intero impianto della scuola italiana, e in particolare la pressione legata al voto: “C’è troppa competizione in classe. Ho visto compagni diventare cattivi per mezzo punto. Questa ossessione per il giudizio numerico soffoca la crescita e mina il benessere degli studenti”. Secondo lui, l’attuale sistema scolastico genera solo ansia e frustrazione, trasformando la maturità in una gara più che in un momento di riflessione o di passaggio.
Di fronte alla sua scelta, la presidente di commissione ha reagito con fermezza: “Mi ha detto che stavo mancando di rispetto al lavoro dei docenti che avevano corretto i miei scritti”. Ma, dopo un confronto più sereno con gli insegnanti interni, è stato trovato un compromesso: Gianmaria ha risposto ad alcune domande di programma, guadagnando 3 punti che hanno portato il suo voto finale a 65 su 100.
Un gesto forte, il suo, che non si limita a una protesta personale ma solleva interrogativi più ampi sul senso e sull’efficacia dell’esame di Stato. “Sono probabilmente il primo a fare una cosa del genere al Fermi”, ha detto. E forse anche uno dei pochi ad aver trasformato l’esame in un’occasione di denuncia.
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