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Addio a Riù, il gorilla triste che ha commosso l’Italia. La fine in cattività nello zoo di Fasano

Riù, il gorilla dello Zoosafari di Fasano, è morto a 54 anni. Un lungo percorso dalla cattura in Kenya all’isolamento in Italia. La sua morte, nascosta per mesi, solleva polemiche. Mentre gli utenti criticano la gestione della sua vita e della sua scomparsa, lo zoo difende il suo operato, ricordando l’amore e le cure dedicate al loro “Very Important Primate”.

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    Riù è morto. Il «gorilla triste» dello Zoosafari di Fasano, l’unico esemplare della sua specie in Italia, si è spento a 54 anni. Solo, in un recinto che lo ha visto prigioniero per gran parte della sua vita. Una fine silenziosa, quasi nascosta. Riù è scomparso il 21 gennaio 2024, ma la notizia è stata diffusa solo sei mesi dopo. Scatenando dolore e rabbia tra chi seguiva la sua storia.

    La vita di Riù, iniziata tra le foreste del Kenya e trascorsa in cattività, è stata segnata da un’esistenza solitaria. E da un tam tam di accuse contro lo zoo che lo ospitava.

    Giuseppe Di Stasi, un utente di LinkedIn, ha espresso tutto il suo sdegno in un post diventato virale. “Riù, prigioniero allo zoo di Fasano, è morto. Unico gorilla prigioniero in Italia, catturato in natura quando era un cucciolo, ha vissuto in isolamento dal 2008, quando suo fratello Pedro è morto. Solo, ma esposto ai visitatori, chiuso in un recinto con alberi e pareti elettrificate affinché non rovinasse la scenografia. E una televisione che lui guardava, rapito, quando scorrevano le immagini della natura selvaggia”. Parole dure che accusano la famiglia De Rocchi, proprietaria dello zoo, di aver tentato di nascondere la morte di Riù per evitare il clamore mediatico.

    Il tam tam mediatico non si è fermato qui. Di Stasi ha continuato: “Riù ha aiutato la famiglia De Rocchi ad arricchirsi, prima esibito al circo Medrano, poi allo zoo di Fasano. Ma quando Riù è morto ha tentato di nasconderlo a tutti, come se non fosse mai esistito”. Parole che riflettono un sentimento di profonda ingiustizia. Di una vita vissuta in cattività e di un addio che, per molti, è stato gestito in modo discutibile.

    Lo Zoosafari di Fasano, però, ha difeso la propria posizione, ricordando l’amore e la cura con cui Riù è stato seguito fino alla fine. “Il gorilla Riù ha lasciato un ricordo indelebile nel cuore di chi lo ha accudito e amato lungo tutta la sua vita”. Ha dichiarato lo zoo.

    “Arrivò a Fasano nel 1994 e non nel 2008 come a volte erroneamente riportato, quindi nel pieno del suo vigore e non ‘perché ormai vecchio ed inutile per i circhi’”. Lo zoo ha raccontato come Riù sia stato accolto in un’area appositamente costruita per lui e per il fratello Pedro, un habitat che negli anni è stato ampliato e migliorato per garantire il massimo benessere possibile.

    La solitudine di Riù, secondo lo zoo, non era voluta, ma dettata da decisioni burocratiche e linee guida internazionali che rendevano difficile l’introduzione di altri esemplari. “L’eventuale possibilità di dare a Riù una compagna anziana per reciproca compagnia finalmente cominciava a delinearsi dopo anni, ma è sempre dipesa esclusivamente dalle decisioni del Comitato E.E.P. e non certo dai desideri del nostro Parco,” ha precisato lo zoo, sottolineando come tutte le decisioni siano state prese con il benessere di Riù al centro.

    La morte di Riù, dunque, è diventata un simbolo di una battaglia più ampia, quella tra chi sostiene che gli zoo siano necessari per la conservazione delle specie e chi, invece, li vede come prigioni per animali innocenti. Il ricordo di Riù, il «gorilla triste», continuerà a vivere nei cuori di chi ha seguito la sua storia, come un monito sulla complessità e la controversia del rapporto tra uomo e natura.

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      Pulci nei cani in autunno: come prevenirle e proteggere il tuo amico a quattro zampe

      Anche se l’estate è finita, le pulci non vanno in vacanza. In autunno, è fondamentale continuare a proteggere il tuo cane, poiché le condizioni più fresche possono essere perfette per la proliferazione di questi piccoli parassiti.

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        Quando l’autunno arriva e le temperature si abbassano, è facile pensare che le pulci siano ormai un problema estivo. Tuttavia, questi fastidiosi parassiti possono essere altrettanto attivi durante i mesi autunnali. Come prevenire le pulci nei cani in autunno diventa quindi una domanda cruciale per ogni proprietario attento. Ecco alcuni consigli utili per proteggere al meglio il tuo amico a quattro zampe durante questa stagione.

        1. Continuare i trattamenti antipulci anche in autunno
        Uno degli errori più comuni è sospendere i trattamenti antiparassitari una volta finita l’estate. In realtà, l’autunno rappresenta un momento ideale per le pulci, perché l’umidità e le temperature fresche, ma non fredde, creano le condizioni perfette per la loro proliferazione. «Gli ambienti riscaldati all’interno delle case possono diventare rifugi ideali per le pulci», spiega il veterinario Paolo Rossi. È quindi fondamentale continuare ad applicare i trattamenti antipulci come spot-on, collari antiparassitari o compresse per tutto l’autunno.

        2. Controlla il pelo del tuo cane regolarmente
        La caduta del pelo estivo può sembrare naturale in autunno, ma non va trascurata. «Durante questo periodo, il pelo del cane si infoltisce in preparazione dell’inverno, e questo può diventare un nascondiglio perfetto per le pulci», continua Rossi. Ispeziona regolarmente il pelo del tuo cane, specialmente nelle zone più calde e nascoste come dietro le orecchie, il collo e le ascelle. Usa un pettine antipulci per rilevare eventuali presenze indesiderate. Se noti piccoli punti neri (escrementi di pulci), è ora di agire.

        3. Lava e pulisci regolarmente l’ambiente del cane
        Le pulci non vivono solo sul tuo cane: gran parte del loro ciclo vitale si svolge nell’ambiente circostante. Per questo motivo, è fondamentale lavare regolarmente la cuccia, le coperte e tutti i tessuti con cui il cane entra in contatto. Utilizza acqua calda per eliminare le uova e le larve. Inoltre, aspira frequentemente i tappeti e i divani, luoghi dove le pulci potrebbero deporre le uova. «Un buon aspirapolvere e una pulizia approfondita possono ridurre notevolmente la proliferazione di pulci in casa», consiglia Rossi.

        4. Presta attenzione ai luoghi frequentati all’aperto
        L’autunno è una stagione ideale per passeggiare all’aperto con il tuo cane, ma fai attenzione ai luoghi che frequenti. Zone boschive, parchi e prati umidi possono essere pieni di pulci in attesa di un ospite. Se il tuo cane ama rotolarsi tra le foglie cadute, assicurati di controllarlo bene al rientro a casa. Lavare le zampe e spazzolare il pelo dopo le passeggiate può prevenire il trasporto di pulci all’interno della tua abitazione.

        5. Rimedi naturali come supporto
        Oltre ai trattamenti veterinari, alcuni rimedi naturali possono aiutare a prevenire le pulci. L’olio di neem, ad esempio, è un antiparassitario naturale che può essere spruzzato sul pelo del cane, mentre l’aceto di mele, diluito in acqua e spruzzato leggermente sul mantello, può rendere meno appetibile il cane per le pulci. «Attenzione però: i rimedi naturali non sostituiscono i trattamenti antipulci convenzionali», sottolinea Rossi. «Sono solo un’aggiunta utile, ma non affidabile al 100%».

        6. Consulta regolarmente il veterinario
        Un’adeguata prevenzione contro le pulci passa anche dal controllo veterinario. In autunno, è utile fare un check-up del tuo cane per verificare che non vi siano già pulci in azione. Il veterinario può anche consigliarti il trattamento più adatto in base alle caratteristiche specifiche del tuo cane e all’ambiente in cui vive. «Non tutti i cani hanno bisogno dello stesso trattamento antipulci. Il veterinario può aiutare a scegliere quello giusto per ogni situazione», conclude Rossi.

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          I gatti dimenticati dell’aeroporto di Madrid: sotto il terminal 4, una colonia invisibile di centinaia di felini mai partiti

          La denuncia arriva da Helena Andrés Rubio, dipendente Aena e fondatrice di Gfam. Da vent’anni racconta un fenomeno rimosso dalle autorità: centinaia di animali abbandonati che vivono tra tubi, ventilatori e carcasse dimenticate. Oggi ne restano circa 80, curati da volontari, ma per l’aeroporto ufficialmente non esistono.

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            Dietro la modernità patinata dell’aeroporto Adolfo Suárez Madrid-Barajas si nasconde un paradosso. Nel cuore del terminal 4, sotto i piedi di milioni di passeggeri che corrono da un gate all’altro, c’è un mondo che non compare in nessun report ufficiale: una colonia di gatti randagi che per anni ha sfiorato le quattrocento unità. Una popolazione felina parallela, sopravvissuta tra i sotterranei dell’hub, invisibile per le istituzioni e fastidiosa per la gestione aeroportuale.

            A portare alla luce questa storia è stata Helena Andrés Rubio, dipendente di Aena e anima dell’associazione animalista Gfam. La sua prima scoperta risale a più di vent’anni fa, quando durante un giro di servizio notò piccole sagome muoversi tra i tubi e le auto abbandonate sotto il T4. «Ne ho tirati fuori più di 40, ma quando abbiamo finito, ne erano rimasti soltanto quattro», ricorda. Quei gatti vivevano al piano -1, in un ambiente senza luce né aria, un limbo industriale che poco aveva a che fare con i lustrini delle partenze internazionali.

            Il problema è che, secondo la versione ufficiale, quei gatti non sono mai esistiti. L’aeroporto non li riconosce, non li censisce, non se ne assume la responsabilità. «Per loro non ci sono», spiega Helena. Denunciare apertamente la situazione le è costato caro: sanzioni disciplinari, sospensioni, accuse di allarmismo. Ma lei ha continuato, riducendo la colonia da oltre 400 a circa 80 esemplari con il metodo cattura-sterilizzazione-rilascio. «Eppure continuano a trattarci come se fossimo noi il problema, mentre cerchiamo solo di risolverlo».

            La vicenda si inserisce in un quadro più ampio di fragilità del sistema. A Barajas non ci sono solo gatti dimenticati: oltre 500 persone senza dimora vivono stabilmente all’interno dello scalo. Alcuni dividono i rifugi improvvisati proprio con gli animali, raccolti da passeggeri che non potevano portarli con sé o semplicemente lasciati lì. Mancano protocolli chiari, ogni compagnia applica regole proprie e la sicurezza privata agisce con criteri arbitrari.

            Dal 2007 Helena ha scelto di trasformare questa battaglia in una missione personale. Ha organizzato punti di alimentazione, catturato e sterilizzato centinaia di gatti, salvato cucciolate. Ha visto anche l’altra faccia: avvelenamenti, carcasse dimenticate, indifferenza. Nel 2016 la normativa europea Easa ha vietato la presenza di animali nelle aree di piattaforma, giustificando la stretta con motivi di sicurezza. «Ma in vent’anni non abbiamo mai trovato un gatto morto in pista», ribatte. «Volpi, uccelli e conigli sì. Gatti mai».

            Per non arrendersi all’inerzia istituzionale, Helena ha acquistato un terreno di 3700 metri quadrati fuori dall’aeroporto e lo ha trasformato nel rifugio La Vega. Oggi ospita 122 gatti, mantenuti quasi interamente con il suo stipendio e con qualche donazione privata. «Riceviamo 7 mila euro di aiuti all’anno, ma nel 2024 ne abbiamo spesi 30 mila. Tutto esce dalle nostre tasche», racconta. E intanto continua a catturare e sterilizzare gli animali che restano a Barajas, a chipparli e a rimetterli in libertà.

            Il contrasto è stridente: da un lato la modernità scintillante del quarto terminal, hub internazionale da cui partono voli intercontinentali, dall’altro i sotterranei popolati da creature invisibili. Una realtà che nessuno vuole vedere, tanto meno assumersi la responsabilità di gestire. Eppure, dietro ogni gatto che sopravvive in quelle condizioni c’è il segno tangibile di un fallimento collettivo.

            La battaglia di Helena non è solo per i gatti, ma contro un sistema che preferisce ignorare le crepe piuttosto che affrontarle. Un sistema che celebra i record di traffico passeggeri e di voli intercontinentali ma chiude gli occhi davanti a una colonia di animali dimenticati. «Quei gatti vengono da laggiù, dal sotterraneo della T4», dice. «Sono invisibili per tutti, tranne che per me».

            Ed è così che, in uno degli spazi più controllati della Spagna, la dignità di centinaia di animali continua a dipendere dalla caparbietà di una sola donna.

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              Ma è vero che i gatti rossi sono così esuberanti per colpa dei Vichinghi?

              Da miti antichi a teorie moderne, esplora l’affascinante legame tra la genetica, il comportamento e le antiche tradizioni dei Vichinghi che potrebbero aver plasmato i nostri amici felini dal mantello rosso. Sebbene la scienza non confermi del tutto le credenze popolari, questo articolo ti guiderà attraverso un viaggio intrigante nella storia e nella psicologia dei gatti rossi.

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                I gatti rossi da sempre hanno affascinato l’immaginario collettivo, suscitando teorie e superstizioni lungo il corso della storia. Da antiche credenze greche che li associavano ai demoni, fino al folklore celtico che li considerava simbolo di forza e potere, i felini dal manto rosso hanno sempre attirato l’attenzione.

                La genetica e il carattere dei gatti rossi

                Sebbene la genetica non determini direttamente il carattere dei gatti, alcuni tratti somatici possono influenzare il loro comportamento. Secondo il biologo esperto di comportamento felino Roger Tabor, i gatti rossi potrebbero aver ereditato la loro vivacità dai loro antenati norreni, i Vichinghi. Il gene responsabile del colore rosso del mantello è più diffuso in aree dove i Vichinghi hanno avuto insediamenti, suggerendo un legame tra la loro presenza e le caratteristiche dei gatti rossi.

                L’influenza dei Vichinghi

                Si ipotizza che i Vichinghi abbiano trasportato gatti rossi dalla Turchia e dalle regioni circostanti fino alla Scandinavia e al Regno Unito, diffondendo così il gene responsabile del colore rosso del mantello. Questo legame storico potrebbe aver contribuito a plasmare il comportamento dei gatti rossi, accentuando l’immagine di felini “duri” e intraprendenti.

                Il ruolo dell’ambiente e delle esperienze di vita

                Anche se non esistono prove scientifiche definitive, è interessante considerare come le migrazioni umane e gli incontri tra culture abbiano potuto influenzare il comportamento dei gatti rossi. Tuttavia, è importante ricordare che l’ambiente domestico e le interazioni con gli esseri umani giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo comportamentale di ogni gatto, indipendentemente dal loro colore del mantello.

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