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Come stanno i lavoratori italiani? Tristi e preoccupati

Secondo una indagine realizzata da Gallup stress e tristezza sembrano dominare i lavoratori italiani. Un quarto di essi appare disimpegnato e addirittura rema contro l’azienda per cui lavora.

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    Secondo il report “State of the Global Workplace” di Gallup la situazione dei lavoratori italiani, è tutt’altro che rosea. Insomma non stanno bene. Anzi. Stress e tristezza sembrano dominare nelle aziende italiane. Un quarto dei lavoratori non solo appare disimpegnato, ma addirittura rema contro l’azienda per cui lavora. Un fenomeno, denominato “actively disengaged“, che in Italia sarebbe del 25%. Si tratta del livello più alto in Europa, che ha una media del 16%. Gallup, è una delle storiche agenzie statunitense specializzata in sondaggi d’opinione. Fondata a Princeton nel 1935 da George H. Gallup, l’agenzia è nota per i sondaggi elettorali a cui affianca indagini in campo economico, sociologico e psicologico.

    La ricerca di Gallup divide i lavoratori in tre categorie

    Impegnati: entusiasti e coinvolti nel lavoro, promotori dell’innovazione.
    Non impegnati: dedicano tempo ma non energia o passione al lavoro.
    Attivamente disimpegnati: insoddisfatti e risentiti, danneggiano attivamente l’ambiente di lavoro. L’alto livello di disimpegno attivo purtroppo è accompagnato da un basso livello di fiducia nel mercato del lavoro. Infatti solo il 32% degli italiani ritiene che questo sia un buon momento per trovare un lavoro, molto al di sotto della media europea del 57%.

    Una questione di onestà

    Pur tenendo conto dei risultati dell’indagine svolta da Gallup è evidente che remare contro l’azienda per cui si lavora è proprio un gesto di disonestà, intellettuale e morale. Ma non solo perché è rivolto verso il datore di lavoro. La disonestà coinvolge soprattutto i propri colleghi, il quello della scrivania a fianco. Così come non impegnarsi lasciando che altri si occupino delle mansioni che si dovrebbero seguire non è una questione di furbizia ma di sfruttamento e cinismo.

    Felici di lavorare

    Gallup ha valutato il benessere generale dei lavoratori italiani che si manifesta come un ulteriore punto critico. Infatti solo il 41% si dichiara “felice”, contro una media europea del 47%. Inoltre, il 46% dei lavoratori italiani prova stress e il 25% tristezza, percentuali significativamente più alte rispetto alla media europea (rispettivamente 37% e 17%). Molti di loro manifestazioni evidenti sintomi di burnout. La sindrome da burn-out è una risposta individuale a una situazione professionale percepita come logorante, in cui l’individuo non ha risorse o strategie adeguate per affrontare l’esaurimento fisico ed emotivo. Questo porta il lavoratore a sentirsi insoddisfatto e prostrato dalla routine quotidiana, che sviluppa un distacco mentale dal proprio impiego e un atteggiamento di indifferenza. Ma non solo. Anche malevolenza e cinismo verso l’attività lavorativa. Se sottovalutato, il burnout può evolvere in depressione e altri disturbi complessi. Per questo motivo i suoi sintomi non devono essere considerati passeggeri o poco importanti.

    Cosa possono fare le aziende per cambiare questa tendenza?

    Per migliorare questa situazione, è fondamentale che i datori di lavoro diano priorità al benessere dei dipendenti, al fine di migliorare l’esperienza lavorativa e ridurre il turnover. Solo così si potrà invertire una tendenza negativa e creare un ambiente lavorativo più sano e produttivo.

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      Tech

      Google inquina sempre di più: +11% di emissioni nel 2024, colpa dell’intelligenza artificiale

      Dal 2019 a oggi le emissioni di carbonio di Google sono cresciute del 51%. A farle impennare è soprattutto la catena di fornitura dell’intelligenza artificiale: produzione, trasporti e logistica per alimentare i data center divorano energia e aumentano l’impatto ambientale.

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        C’era una volta il sogno green di Google. Ma nel 2024, la realtà è ben diversa. Secondo l’ultimo rapporto sulla sostenibilità pubblicato dal colosso di Mountain View, le emissioni complessive di carbonio sono aumentate dell’11% rispetto all’anno precedente. Un incremento che porta il dato totale a +51% rispetto al 2019, allontanando sensibilmente l’azienda dall’obiettivo dichiarato: dimezzare le emissioni entro il 2030.

        La causa? Una sola parola: intelligenza artificiale.

        Nel documento, Google ammette che a pesare sono soprattutto le emissioni legate alla catena di fornitura, ovvero la cosiddetta “scope 3”, che comprende tutte quelle attività esterne al diretto controllo dell’azienda: acquisto di beni e servizi, trasporti, logistica, produzione e assemblaggio delle componenti necessarie per alimentare l’ecosistema AI. Proprio questa categoria ha visto un aumento del 22% nel 2024, mentre le emissioni interne alle sole operazioni aziendali sono diminuite dell’11%.

        Per realizzare le sue promesse, l’intelligenza artificiale ha bisogno di energia”, ammette senza giri di parole il report. La crescente domanda di calcolo generata dalle nuove tecnologie richiede infatti infrastrutture sempre più complesse e assetate di corrente. Tuttavia, c’è una nota positiva: l’innovazione tecnologica sta rendendo i data center più efficienti, riuscendo a contenere l’aumento dei consumi.

        Google prova a rassicurare: “Entro il 2030, i nostri data center consumeranno meno energia rispetto a quella richiesta da motori industriali, climatizzatori o auto elettriche”. Ma il trend resta preoccupante, soprattutto considerando la velocità con cui l’industria dell’IA sta crescendo.

        E se Big G arranca, anche gli altri big tech non brillano. Meta, ad esempio, ha annunciato un data center alimentato a gas in Louisiana. E negli Stati Uniti, l’ultima mossa politica ha fatto discutere: l’ex presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo per promuovere l’uso del carbone nei data center IA, una scelta che appare in netta controtendenza rispetto alle strategie ambientali globali.

        L’era dell’intelligenza artificiale è solo all’inizio. Ma, a quanto pare, la transizione ecologica dovrà aspettare.

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          Libri

          Anche a Shakespeare piacevano i maschietti: spunta il cuore nascosto dietro al ritratto del conte di Southampton

          Il quadretto, datato intorno al 1590, sarebbe stato un dono al poeta e poi restituito. Sul retro, un cuore spezzato inciso forse dallo stesso aristocratico, a suggellare la fine di un amore negato. L’ipotesi divide gli studiosi ma rilancia un mistero vecchio di quattro secoli

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            Shakespeare “in love”, ma forse non con Giulietta o le muse femminili che hanno popolato le sue opere. L’ipotesi di un legame sentimentale tra il più grande drammaturgo inglese e Henry Wriothesley, terzo conte di Southampton, prende nuova forza dopo la scoperta di un simbolo nascosto dietro un suo ritratto: un cuore rosso, spezzato, trafitto da una freccia nera.

            Il ritrovamento è stato fatto dai discendenti del nobiluomo, che custodivano la miniatura dimenticata in un cassetto. Affidato alle studiose Elizabeth Goldring ed Emma Rutheford, il piccolo quadro è stato attribuito al celebre miniaturista Nicholas Hilliard. Ma la sorpresa vera è arrivata sul retro: sotto un doppio fondo, è emersa la figura di un cuore ferito, segno di un amore tormentato.

            Il conte di Southampton, all’epoca appena diciottenne, è ritratto con lunghi capelli ricci, braccialetti di perle ai polsi e un sorriso enigmatico. Un’immagine che, già allora, rompeva i canoni maschili: i bracciali e le chiome fluenti erano considerati effeminati e alimentavano un fascino androgino. Quel ritratto sarebbe stato donato a Shakespeare, che in quegli anni frequentava il giovane aristocratico e da lui riceveva protezione e sostegno economico.

            Gli indizi non finiscono qui. Shakespeare dedicò a Wriothesley due suoi poemi, Venere e Adone e Lo stupro di Lucrezia, con parole di devozione che oggi suonano come dichiarazioni d’amore: «L’amore che dedico al mio Signore è senza fine». Nei sonetti, poi, compaiono versi che molti critici hanno sempre collegato a un “fair youth”, un bel giovane dai capelli arricciati paragonati a una “maggiorana”. Il collegamento con il ritratto è quasi immediato.

            Secondo l’ipotesi delle studiose, la relazione tra i due uomini sarebbe finita nel 1598, quando Shakespeare si sposò. Il conte, sentendosi respinto, avrebbe inciso di proprio pugno la freccia – che ricorda lo stemma del drammaturgo – su quel cuore spezzato. Una sorta di addio personale, nascosto dietro al dono restituito. «Mi sono venuti i brividi quando ho visto la freccia», ha confessato Goldring. «Era chiaro che qualcuno aveva voluto lasciare un segno indelebile».

            Non è la prima volta che la sessualità di Shakespeare viene messa in discussione. L’assenza di testimonianze certe sulla sua vita privata ha lasciato spazio a ipotesi, interpretazioni e fantasie. Ma questo piccolo cuore nascosto apre una pista concreta, che lega il poeta a uno dei personaggi più influenti della corte elisabettiana. Henry Wriothesley non era solo un mecenate: era giovane, affascinante e appassionato di poesia. Troppo perfetto, forse, per non finire al centro dei sentimenti del Bardo.

            Gli storici sono divisi. Per alcuni si tratta di una suggestione affascinante ma non dimostrabile; per altri, è la chiave di lettura definitiva di quei sonetti che ancora oggi vibrano di un amore non convenzionale. Resta però un dato: dietro le maschere teatrali e le pagine immortali, Shakespeare era un uomo che amava. E forse, per un periodo della sua vita, quell’amore aveva il volto androgino di un conte.

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              Moda

              L’arte dell’upcycling: una rivoluzione sostenibile nella moda

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                Nell’epoca attuale, la moda non è solo questione di stile, ma anche di sostenibilità. Con sempre maggiore consapevolezza ambientale, l’industria della moda sta abbracciando nuove pratiche per ridurre il suo impatto ecologico. Tra queste, spicca l’upcycling, un’arte che trasforma rifiuti in capi di abbigliamento unici e desiderabili. Scopriamo come questa tendenza sta rivoluzionando il mondo della moda con il suo mix di creatività e responsabilità ambientale.

                Il rinascimento dei tessuti

                L’upcycling pone l’attenzione sui materiali dimenticati, trasformando vecchi tessuti e indumenti in opere d’arte indossabili. Da jeans a t-shirt, nulla è troppo comune per essere reinventato. Tessuti pre-loved vengono tagliati, assemblati e lavorati con maestria per creare nuovi capi che trasudano storia e carattere.

                Creatività senza limiti

                L’upcycling libera la creatività dei designer, permettendo loro di esplorare nuove possibilità attraverso la riutilizzazione di materiali esistenti. Patchwork di stampe, mix di texture e combinazioni audaci diventano la firma di quest’arte unica. Ogni pezzo è un’opera d’arte unica, riflettendo il talento e la visione del suo creatore.

                Un atto di ribellione contro il consumismo

                In un’epoca dominata dal consumismo veloce, l’upcycling rappresenta una forma di protesta silenziosa. Oltre a ridurre i rifiuti tessili, promuove un approccio più consapevole alla moda. Indossare un capo upcycled significa abbracciare l’individualità e la sostenibilità, sfidando gli standard imposti dalla moda di massa.

                Un futuro sostenibile

                L’upcycling non è solo una tendenza passeggera, ma una filosofia che promette un futuro più sostenibile per l’industria della moda. Con sempre maggiori marchi e designer che abbracciano questa pratica, il suo impatto positivo si fa sempre più evidente. Guardando avanti, possiamo immaginare un mondo in cui l’upcycling diventa la norma, trasformando il nostro modo di concepire la moda e il consumo.

                Quindi l’upcycling è molto più di una semplice tendenza; è un’evoluzione necessaria nell’industria della moda. Attraverso la sua combinazione di creatività, responsabilità ambientale e ribellione contro il consumismo, l’upcycling sta ridefinendo il concetto stesso di moda. È un invito a guardare oltre il nuovo e lo splendido, per abbracciare la bellezza e la sostenibilità del riuso.

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