Lifestyle
Comunicare con un figlio adolescente: ascoltare prima di parlare
Tra silenzi, ribellioni e incomprensioni, comunicare con un figlio adolescente può sembrare un’impresa impossibile.

C’è un momento nella vita di ogni genitore in cui il dialogo con il proprio figlio sembra interrompersi. Le parole diventano brevi, gli sguardi sfuggenti, le porte si chiudono. È il segnale che l’infanzia è finita e l’adolescenza — con tutta la sua forza e fragilità — è arrivata.
Ma come si parla a un figlio che non vuole più ascoltare?
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’adolescenza è un periodo che va dai 10 ai 19 anni, segnato da profonde trasformazioni fisiche, emotive e sociali. In questa fase, il cervello è ancora in pieno sviluppo, in particolare l’area prefrontale, responsabile del controllo delle emozioni e delle decisioni. È per questo che gli adolescenti possono apparire impulsivi, sfidanti o contraddittori: non è mancanza di rispetto, ma parte del processo di crescita.
L’arte di ascoltare senza giudicare
«Il primo passo per parlare con un figlio adolescente è imparare ad ascoltare davvero», spiega Anna Oliverio Ferraris, psicologa e autrice di numerosi saggi sull’educazione. «I genitori spesso credono di comunicare quando in realtà danno istruzioni. Ma l’ascolto autentico implica sospendere il giudizio, accettare l’emozione del figlio anche quando è scomoda».
Questo significa lasciargli spazio per esprimersi, anche se lo fa con rabbia o chiusura. Il genitore deve essere una “base sicura”, non un tribunale.
La psicologa americana Lisa Damour, specialista in adolescenza e autrice di The Emotional Lives of Teenagers, aggiunge: «Quando un adolescente parla di un problema, non cerca una soluzione immediata, ma comprensione. Spesso basta dire: “Capisco che ti senti così” per aprire una breccia nel muro del silenzio».
Né amici né carcerieri: trovare l’equilibrio
Uno degli errori più comuni è oscillare tra due estremi: diventare troppo permissivi o eccessivamente autoritari. «Un genitore non deve essere né un amico né un carceriere», spiega Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva. «Serve autorevolezza, non autoritarismo. I limiti restano fondamentali, ma devono essere spiegati, non imposti».
Quando un figlio contesta una regola, il genitore può usare il dialogo come strumento educativo: chiedergli perché la considera ingiusta, condividere le proprie ragioni e cercare un compromesso. È un modo per insegnargli a gestire il conflitto in modo costruttivo, una competenza chiave anche per la vita adulta.
Il potere del linguaggio emotivo
Anche le parole contano. Dire “non mi rispondi mai” è diverso da “mi piacerebbe capire cosa pensi”. Le frasi accusatorie alzano barriere, quelle empatiche le abbassano. Secondo uno studio pubblicato sull’American Journal of Family Therapy, i genitori che usano un linguaggio centrato sulle emozioni (“vedo che sei arrabbiato”, “mi sembri triste”) favoriscono nei figli un miglior sviluppo della regolazione emotiva e una maggiore autostima.
Spesso gli adolescenti comunicano più con i gesti che con le parole: un silenzio, una porta sbattuta, uno sguardo basso. Saper leggere questi segnali è parte del dialogo. «Dietro ogni chiusura c’è un messaggio: non riesco a dirti come sto», osserva la psicoterapeuta Maria Rita Parsi.
Quando serve chiedere aiuto
A volte, però, il silenzio nasconde un disagio più profondo. L’UNICEF segnala che un adolescente su cinque soffre di disturbi d’ansia o depressione. In questi casi, il dialogo familiare può non bastare. Rivolgersi a un professionista — uno psicologo scolastico o un terapeuta — non significa “fallire” come genitori, ma proteggere il benessere del figlio.
Gli esperti concordano su un punto: la fiducia non si impone, si costruisce giorno dopo giorno. E anche quando un ragazzo sembra respingere tutto, conserva dentro di sé l’immagine del genitore che lo ascolta e resta.
Una relazione che cresce insieme
Parlare con un figlio adolescente significa accettare che non sarà mai un dialogo lineare. Ci saranno incomprensioni, momenti di distanza e silenzi che fanno male. Ma in quei silenzi si nasconde una verità: l’adolescente non ha bisogno di un genitore perfetto, ma presente.
Come scrive Pellai, «l’educazione non è un monologo, ma una danza: a volte guidi, a volte ti lasci guidare. L’importante è restare sulla stessa pista».
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Cucina
Vin brulé, il profumo dell’inverno: la ricetta tradizionale che scalda corpo e spirito
Cannella, chiodi di garofano e agrumi: pochi ingredienti bastano per creare la magia del vin brulé, la bevanda che unisce tradizione, convivialità e aromi irresistibili.

Un rituale d’inverno che sa di casa e mercatini
Quando le giornate si accorciano e l’aria si fa pungente, basta un bicchiere di vin brulé per ritrovare calore e buonumore. Simbolo per eccellenza dei mercatini di Natale e delle serate in montagna, questo vino rosso speziato è molto più di una bevanda: è un piccolo rito che profuma di agrumi e cannella, capace di evocare ricordi e tradizioni secolari.
Il nome “vin brulé” deriva dal francese vin brûlé, cioè “vino bruciato”, un riferimento alla bollitura del vino con spezie e zucchero. In realtà, le sue origini affondano molto più indietro nel tempo: già gli antichi Romani aromatizzavano il vino con miele e spezie per conservarlo e renderlo più gradevole. Nel Medioevo la ricetta si diffuse in tutta Europa, assumendo varianti locali: dal Glühwein tedesco e austriaco al Mulled Wine inglese, fino al vin chaud francese.
La ricetta tradizionale del vin brulé
Realizzare un buon vin brulé in casa è semplice, ma richiede attenzione nella scelta degli ingredienti e nella cottura, per non perdere gli aromi del vino e delle spezie.
Ingredienti per 4 persone:
- 1 litro di vino rosso corposo (ideale un Merlot, un Nebbiolo o un Barbera)
- 100 g di zucchero di canna
- 1 arancia non trattata
- 1 limone non trattato
- 2 stecche di cannella
- 5 chiodi di garofano
- 1 baccello di vaniglia (facoltativo)
- una grattugiata di noce moscata
- 1 stella di anice (per decorare e profumare)
Come prepararlo passo dopo passo
- Preparare gli aromi: lavate accuratamente gli agrumi e tagliate la buccia a spirale, evitando la parte bianca che darebbe amarezza.
- Scaldare il vino: in una casseruola capiente versate il vino rosso, aggiungete zucchero, spezie e scorze di agrumi.
- Cottura lenta: accendete il fuoco e lasciate scaldare a fiamma bassa, senza far bollire troppo, per circa 10-15 minuti. Il segreto è non superare gli 80°C, per evitare che l’alcol evapori del tutto e che il vino diventi acido.
- Filtrare e servire: togliete le spezie con un colino, versate il vin brulé bollente in tazze o bicchieri resistenti al calore e servite subito, decorando con una fetta d’arancia o una stecca di cannella.
Le varianti regionali e moderne
Ogni regione alpina custodisce una sua versione del vin brulé. In Trentino-Alto Adige si usa spesso aggiungere una punta di grappa o di miele di montagna, mentre in Piemonte qualcuno profuma il vino con bacche di ginepro o pepe nero. Nelle versioni francesi e inglesi, invece, si trovano ingredienti come zenzero fresco, cardamomo o alloro, che aggiungono complessità aromatica.
Per chi non consuma alcol, esiste anche la variante analcolica: basta sostituire il vino con del succo d’uva o di mela, seguendo la stessa ricetta e lasciando che le spezie sprigionino tutto il loro profumo.
Un bicchiere di tradizione che unisce
Il vin brulé è una bevanda conviviale, da condividere all’aperto tra luci natalizie, oppure a casa davanti al camino. Oltre al piacere sensoriale, ha anche un effetto benefico: le spezie riscaldano l’organismo e favoriscono la digestione, mentre il vino, consumato con moderazione, rilassa e distende.
Nel suo profumo si ritrovano i sapori dell’inverno, la lentezza delle feste e il piacere di stare insieme. Prepararlo è un gesto semplice, ma dal potere evocativo: un brindisi alla tradizione, alla convivialità e al calore che non passa mai di moda.
Cucina
Monte Bianco, il dolce che profuma d’autunno: storia e ricetta del dessert più elegante delle Alpi
Un classico intramontabile della pasticceria francese e italiana, nato dall’incontro tra castagne, panna e zucchero a velo. Il Mont Blanc conquista per la sua semplicità raffinata e per il sapore avvolgente che sa di bosco e di ricordi d’infanzia.

È il simbolo della stagione fredda, quando i castagni regalano i loro frutti migliori e le prime nevi imbiancano le cime alpine. Il Monte Bianco, o Mont Blanc, è un dessert che racchiude nella sua semplicità tutto il fascino dell’autunno. Una montagna di dolcezza fatta di purea di castagne, panna montata e zucchero a velo che ricorda, nella forma, il celebre massiccio al confine tra Italia e Francia. Ma dietro la sua apparente semplicità si nasconde una storia lunga e affascinante, fatta di contaminazioni culinarie, eleganza e profumi di casa.
Origini tra Francia e Italia: un dessert “di confine”
Come per molti piatti storici, anche il Monte Bianco vanta origini contese. In Francia, dove è conosciuto come Mont Blanc aux marrons, viene attribuito alla tradizione piemontese e savoiarda, ma si è presto trasformato in un dolce simbolo della pasticceria parigina del XIX secolo.
In Italia, invece, il Monte Bianco è considerato un orgoglio piemontese e valdostano, preparato fin dal Settecento nelle case borghesi e nei caffè storici di Torino. La leggenda vuole che la ricetta nasca come omaggio alla montagna più alta d’Europa, trasformata in un dessert scenografico in grado di celebrare la natura e la maestosità delle Alpi.
Un dolce di castagne, ma anche di pazienza
Alla base del Monte Bianco ci sono castagne di ottima qualità, preferibilmente quelle dei boschi piemontesi o toscani. Dopo essere state lessate con latte, vaniglia e un pizzico di sale, vengono passate finemente per ottenere una purea morbida, che poi viene dolcificata con zucchero e, secondo alcune versioni, aromatizzata con rum o cacao.
La purea viene quindi modellata in sottili fili che, sovrapposti a spirale, formano la tipica “montagnetta”. Sopra, un generoso strato di panna montata fresca e una spolverata di zucchero a velo ricreano l’effetto della neve.
«Il segreto di un buon Monte Bianco è la texture», spiega lo chef pasticcere torinese Luca Montersino. «La purea non deve essere né troppo asciutta né troppo liquida, e la panna va montata con delicatezza, per mantenerla leggera. È un equilibrio di consistenze: la morbidezza delle castagne incontra la leggerezza della panna, creando un contrasto armonioso».
La ricetta tradizionale del Monte Bianco
Ingredienti per 6 persone:
- 600 g di castagne fresche o 400 g di castagne lessate
- 250 ml di latte intero
- 100 g di zucchero semolato
- 1 baccello di vaniglia
- 1 cucchiaio di rum o di brandy (facoltativo)
- 300 ml di panna fresca da montare
- 2 cucchiai di zucchero a velo
- un pizzico di sale
Preparazione:
- Incidere le castagne e lessarle per circa 30 minuti in acqua bollente. Una volta cotte, pelarle con cura e metterle in un tegame con il latte, la vaniglia e lo zucchero. Cuocere a fuoco basso fino a ottenere una consistenza cremosa.
- Eliminare la vaniglia e passare le castagne al setaccio o al passaverdura. Aggiungere il rum, se gradito.
- Disporre la purea su un piatto da portata e, con l’aiuto di uno schiacciapatate o di una sacca da pasticceria con beccuccio sottile, formare i classici fili di castagne che ricordano una montagna.
- Montare la panna con lo zucchero a velo e distribuirla a ciuffi sopra la purea. Spolverare infine con altro zucchero a velo per l’effetto “innevato”.
Il dolce si serve freddo, ma non ghiacciato, per apprezzarne la morbidezza.
Le varianti moderne del Monte Bianco
Oggi, accanto alla versione classica, ne esistono diverse reinterpretazioni. Alcuni chef propongono una versione scomposta in bicchiere, con strati alternati di castagne e panna, altri aggiungono cioccolato fondente o marrons glacés per una nota più golosa. In Giappone, il Mont Blanc è diventato un fenomeno di culto: la base di castagne viene sostituita da purea di patate dolci o da tè matcha, dando vita a dolci colorati e raffinati.
Un dessert che unisce tradizione e poesia
Il Monte Bianco è più di un dolce: è una piccola opera d’arte che racchiude l’essenza dell’autunno, tra profumi di bosco e ricordi di infanzia. È il comfort food che scalda il cuore nelle giornate fredde e che, nonostante il suo aspetto scenografico, racconta una semplicità antica, fatta di ingredienti poveri e gesti lenti.
Forse è per questo che, dopo secoli, continua a essere amato in tutta Europa: perché ogni cucchiaiata sa di casa, di neve e di tempo ritrovato.
Libri
Ornella Muti si confessa: “Celentano? È stato amore, ma una violenza raccontarlo senza chiedermi il permesso”
Dal primo amore con Montezemolo al rapporto tormentato con Celentano, fino alle ombre dell’infanzia e alla forza della maternità: “Scrivere è stata una psicanalisi. Ti guardi indietro e dici: ma dov’ero?”. Un ritratto fragile e lucido di una diva che non smette di sorprendere.

“Il mio primo fidanzato è stato Luca Cordero di Montezemolo. Era pazzo. Correva in mezzo alla strada e urlava ‘Ti amo!’”. È una Ornella Muti inedita quella che si racconta, a settant’anni, nella sua autobiografia Questa non è Ornella Muti, in uscita per La Nave di Teseo. Un libro che è insieme confessione, resa dei conti e liberazione.
“Se questa non è Ornella Muti, chi è?”, le chiede l’intervistatore. “All’anagrafe sono Francesca Rivelli, ma Francesca chi la conosce veramente? Ho sempre avuto pudore a raccontarmi. Ora scrivere è stata una psicanalisi, mi ha fatto anche male. Ti guardi indietro e dici: ma dov’ero?”.
Dentro ci sono tutti i suoi fantasmi, ma anche gli amori che hanno fatto scalpore. “Celentano? Che fossimo stati insieme l’ha detto lui, senza chiedermi il permesso. È stata una violenza. Io aggiungo che è stata una storia breve, ma d’amore. Non concepisco il sesso per il sesso. Per lui ho tradito mio marito.” E poi, con ironia: “Alain Delon? Non è successo niente. Ma avrebbe potuto, forse.”
C’è spazio anche per i ricordi teneri e quelli più dolorosi: “A quattro anni mia madre mi portò in Svizzera dalla zia e mi lasciò lì un anno e mezzo. Non capivo una parola di tedesco, e quando tornai non conoscevo più l’italiano. Non fu un abbandono, ma lo vissi come tale.”
Tra i grandi della commedia italiana, Ornella ricorda con affetto Ugo Tognazzi, Dino Risi, Marcello Mastroianni e Alberto Sordi: “Diceva sempre: ‘Sordi, Muti, e ’ndo stanno i ciechi?’”. Ma nel libro non mancano le zone d’ombra: “Ho provato l’Lsd. Un’amica lo prese e si buttò dalla finestra. Io mi sono salvata grazie a mia figlia. Lei mi ha rimesso coi piedi per terra.”
Un racconto sincero, pieno di contraddizioni e dolce malinconia. Non è solo il ritratto di un’attrice: è la confessione di una donna che ha vissuto tutto — amori, errori, libertà — con lo stesso, irriducibile sgomento.
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