Cucina
Giorgio Locatelli: “Mattarella mi ha detto che guarda MasterChef. Io? Felice di tornare alla cucina vera”
Dopo 23 anni lascia il suo storico ristorante stellato e riparte alla National Gallery con un bar e un club: “Finalmente cucino senza stress”. Gli incontri con Re Carlo, Mattarella e Schwarzenegger, il dolore per i soprusi in brigata e l’orgoglio di essere “figlio dell’Europa”.

Giorgio Locatelli, chef stellato originario di Romano d’Ezzelino, racconta senza filtri un momento di svolta della sua vita. Dopo 23 anni, la chiusura della sua storica Locanda a Londra, il 31 dicembre 2024, è stata per lui una liberazione. «È come se mi avessero tolto un peso dalla schiena», confida. A 62 anni, la pressione di gestire ogni giorno un ristorante con oltre settanta dipendenti si era fatta insostenibile: «Il sabato successivo all’addio, io e mia moglie Plaxy ci siamo accorti che era il nostro primo weekend libero dal 2002».
Ma per Locatelli, che si definisce “terribile con i soldi”, la passione per la cucina non si spegne. Il 10 maggio inaugurerà alla National Gallery di Londra il ristorante Locatelli’s, il Bar Giorgio e un club. «Tagliatelle al ragù e maritozzi: abbiamo già 400 prenotazioni in attesa», racconta soddisfatto. Stavolta, però, precisa, sarà diverso: lui motiverà il personale, mentre ai partner spetterà l’onere della gestione finanziaria.
Lo chef non nasconde di aver vissuto anche momenti duri. Ai tempi del ristorante Zafferano venne truffato: «Le mie quote vennero vendute e rimasi con niente in mano, dopo sette anni di sacrifici. È stata un’esperienza che avrebbe potuto spezzarmi, ma ho trovato la forza di rialzarmi anche grazie alla terapia».
Nel suo racconto emerge anche l’emozione per i grandi incontri istituzionali. Di recente, Locatelli ha partecipato alla cena al Quirinale organizzata per Re Carlo III. «Il presidente Mattarella mi ha chiamato per nome e mi ha detto che gli piace MasterChef. Che onore!». Una serata perfetta, se non fosse per un piccolo neo: «Ho fatto fatica a stringere la mano a qualche ministro italiano. Mi ha dato fastidio. Vengo da una grande tradizione antifascista: mio zio Nino era partigiano ed è stato fucilato a vent’anni dai nazisti. Mio padre e mia zia Luisa ce ne hanno sempre parlato».
Locatelli, che si definisce «figlio dell’Europa», ha doppia cittadinanza italiana e britannica. «Mi sento italiano e inglese insieme. Ero talmente europeo che sono andato a dare due mazzate al muro di Berlino e mi sono portato a casa un pezzo», ricorda ridendo.
Parlando di politica, Locatelli mantiene un tono equilibrato. Sul governo Meloni dice: «Ha vinto le elezioni e ha un buon sostegno. La democrazia va accettata, quando si vince e quando si perde. La premier è rispettata a livello internazionale. Vediamo». Più critico verso la Brexit: «I laburisti cercano di mettere una pezza ai disastri di Boris Johnson, ma quell’indipendenza promessa non c’è. Anzi, abbiamo un sacco di problemi: sarebbe stato meglio restare con l’Unione Europea».
Tornando alla sua carriera, Locatelli si dice fiero del proprio percorso, ma ammette che alcune esperienze lo hanno segnato. «A Londra e a Parigi sono stato umiliato in tutti i modi. Oggi non accetterei più certi abusi: un leader deve dare l’esempio, mai umiliare». Anche nella sua brigata ammette di essere inflessibile: «Quando scopro casi di bullismo tra ragazzi under 25, intervengo subito. Non si può far finta di niente».
La famiglia è il suo rifugio. Parla con orgoglio di sua moglie Plaxy, con cui condivide la vita da trent’anni: «Non faccio alcuno sforzo per stare con lei. Quando non c’è, mi manca». E rivela un retroscena: «Sono monogamo convinto. L’unica volta che ho avuto due ragazze contemporaneamente mi sono sentito malissimo».
Anche la paternità ha segnato profondamente la sua vita. La figlia Margherita, oggi 27enne, ha sofferto fin da piccola di gravi allergie alimentari. «A tre anni stava per morire per uno shock anafilattico. Scoprimmo che era allergica anche al sugo al pomodoro Pachino, il mio orgoglio. Pensavo di nutrirla, la stavo avvelenando. Da lì è nata una linea di cucina anallergica che ora porteremo anche alla National Gallery».
Oggi, l’unico vero timore di Locatelli sono i social network: «Mi spaventano. Non si capisce più da dove arrivino le notizie, tutto è manipolabile. Mia figlia mi ha chiesto se mi piacerebbe diventare nonno, e certo che mi piacerebbe, ma mi domando: che mondo lasciamo ai nostri figli?».
Tra aneddoti divertenti e stoccate affettuose, Locatelli descrive anche il suo rapporto con gli altri giudici di MasterChef: «Antonino (Cannavacciuolo) è come lo vedete: genuino. Bruno (Barbieri), invece, la mattina è come Liz Taylor: di pessimo umore. Antonino poi ha la fissa per le macchine».
Se gli si chiede di cosa è più orgoglioso, la risposta è secca: «Di aver avuto ristoranti di successo, di avere una voce importante sulla cucina italiana nel mondo, e di essere pagato, a volte, in modo folle: una coppia mi ha dato 25 mila sterline per cucinare due piatti di tagliolini al tartufo bianco a Doha».
Locatelli non ha mai amato la cerimonia della Michelin: «Sono andato alla prima. Perché mischiare il mio nome a quello di certi invasati? Ho avuto la stella per 23 anni, non mi mancherà: non cucinavo per quello, ma per il ristorante pieno».
E quando racconta dei suoi clienti vip, sorride pensando ad Arnold Schwarzenegger: «Gli servii delle friselle con scamorza e pesto di pomodori: ne unì due e le mangiò come un burger».
Dopo tanti successi e tante cadute, Giorgio Locatelli si presenta come un uomo libero: disincantato ma ancora profondamente innamorato della sua cucina.
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Cucina
La frittata di ortiche: il piatto rustico e antico che sa di primavera
Dalla raccolta nei campi alla tavola, la frittata di ortiche è un piatto povero della tradizione contadina che conquista per il suo sapore fresco, deciso e avvolgente. Bastano pochi ingredienti per portare in cucina un tocco di natura.

Non serve cercare ingredienti esotici per stupire a tavola: a volte basta tendere la mano verso ciò che la terra offre spontaneamente. È il caso della frittata di ortiche, un piatto antico, nato nei campi e nelle cucine più umili, che oggi torna a essere protagonista grazie alla sua bontà naturale e ai profumi intensi della primavera.
Le ortiche, spesso considerate solo erbacce da evitare, sono in realtà una miniera di proprietà benefiche: ricche di ferro, vitamine e sali minerali, da sempre fanno parte della cucina popolare, quando il sapere contadino sapeva trasformare ogni dono della natura in un alimento prezioso.
Preparare una frittata di ortiche è un gesto semplice, quasi poetico, che riconnette ai ritmi lenti della campagna. Ma attenzione: occorre raccogliere le ortiche giovani, con i guanti ben calzati, scegliendo solo le cimette più tenere, quelle che tra aprile e maggio raggiungono la loro perfezione.
Ingredienti per 4 persone:
- 6 uova fresche
- 200 g di ortiche fresche (già pulite)
- 1 cipollotto fresco (facoltativo)
- 2 cucchiai di parmigiano grattugiato
- Olio extravergine d’oliva q.b.
- Sale e pepe nero q.b.
Procedimento:
Per prima cosa, lavate accuratamente le ortiche sotto acqua corrente, indossando i guanti per evitare spiacevoli incontri con i loro peli urticanti. Sbollentatele poi in acqua salata per un paio di minuti: il calore annullerà il loro potere irritante. Scolatele e strizzatele bene, quindi tritatele grossolanamente a coltello.
In una ciotola capiente rompete le uova e sbattetele con una forchetta. Aggiungete il parmigiano, un pizzico di sale, una spolverata di pepe e unite infine le ortiche. Per dare un tocco ancora più aromatico, potete far rosolare velocemente in padella un cipollotto fresco tritato finemente, da aggiungere poi al composto.
Scaldate un filo d’olio extravergine d’oliva in una padella antiaderente. Versatevi il composto e lasciate cuocere a fiamma moderata, coprendo con un coperchio per mantenere la frittata morbida all’interno. Dopo circa 7-8 minuti, quando la base sarà ben dorata e compatta, aiutatevi con un piatto per girarla e cuocerla anche dall’altro lato per altri 3-4 minuti.
La frittata di ortiche è pronta: fragrante, profumata, con quel sapore leggermente erbaceo che richiama il verde dei prati e il vento di aprile.
Consiglio dello chef:
Se volete esaltarne ancora di più il carattere rustico, servitela tiepida con una fetta di pane casereccio tostato e un filo d’olio buono. Oppure, per un antipasto raffinato, tagliatela a piccoli quadretti e infilzatela con stecchini di legno: un’idea semplice e sorprendente per i vostri aperitivi primaverili.
In un mondo che corre, la frittata di ortiche invita a rallentare, ad assaporare la semplicità e a ricordare che, spesso, il lusso più grande è nascosto nella natura che ci circonda.
Cucina
Il cuoco dei tre Papi: «Ratzinger amava la Sacher, Wojtyła le zuppe. E Francesco? I suoi sorrisi e la millefoglie»
Il veneto Sergio Dussin ha cucinato per Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco. Ora sogna di servire anche il prossimo Pontefice.

Nel cuore del Veneto, a Romano d’Ezzelino, tra i profumi degli asparagi bianchi e delle trote del Brenta, vive Sergio Dussin, un uomo che può vantare un primato raro: essere stato lo chef personale di ben tre Pontefici. Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco hanno tutti assaggiato i suoi piatti, gustato le sue ricette, condiviso con lui momenti privati e solenni della loro vita in Vaticano.
«Se avessi il grande onore di essere riconfermato — racconta con un sorriso —, sarei il primo nella storia moderna a servire quattro Papi. Bisogna tornare al Medioevo per trovare due cuochi che abbiano seguito tre Pontefici diversi». Dussin, 67 anni, anima dei ristoranti “Al Pioppeto” di Romano d’Ezzelino e “Villa Razzolini Loredan” di Asolo, è un testimone privilegiato della vita a tavola dei Papi.
Tutto iniziò il 6 maggio 2002, quando venne convocato in Vaticano per cucinare in occasione del giuramento annuale delle Guardie Svizzere Pontificie. «Avevo stabilito alcuni contatti durante il Giubileo del 2000», ricorda, «e mi chiamarono per preparare il pranzo del giuramento, una cerimonia solenne che commemora il sacrificio delle Guardie Svizzere durante il Sacco di Roma. Fu un grande onore, e a conquistare tutti fu l’asparago bianco di Bassano, un prodotto della mia terra. Da lì, tutto ha avuto inizio».
Il primo Pontefice che ebbe l’onore di servire fu Giovanni Paolo II, in un periodo molto delicato per la salute del Santo Padre. «Negli ultimi tre anni del suo pontificato — racconta Dussin — preparavo per lui piatti semplici, adatti alla sua condizione: zuppe leggere, brodi nutrienti e frullati. Aveva bisogno di pietanze che fossero al tempo stesso confortanti e facilmente digeribili. Ricordo il suo sguardo grato, anche quando le forze sembravano venir meno».
Con Benedetto XVI, invece, il rapporto si fece diverso, più articolato, più legato ai sapori della tradizione. «Ratzinger amava la buona cucina», confida Dussin. «Apprezzava particolarmente i piatti veneti: riso con asparagi bianchi, broccoli di Bassano, carni bianche come la basaninaa e, durante la Quaresima, preferiva pesce, soprattutto trote del Brenta o seppie in umido». Niente funghi, però, e pochissimo vino. «A tavola beveva solo acqua naturale e, ogni tanto, una spremuta d’arancia. Durante i pranzi ufficiali, come dolce, gli servivo un bicchiere di moscato fiori d’arancio dei Colli Euganei, un vino leggero da sei gradi appena».
Ma il vero amore gastronomico di Benedetto XVI era per i dolci. «Amava la Sacher, quella vera, con la glassa spessa e il cuore morbido di albicocca. Gli preparavo anche millefoglie in monoporzione, gelati con fragole fresche d’estate e crostate di frutta nei pranzi ufficiali. Ho continuato a cucinare per lui anche dopo la sua rinuncia, quando si è ritirato nella quiete dei Giardini Vaticani».
Poi è arrivato Francesco, il Papa venuto dalla fine del mondo, e con lui una nuova sfida. «Con Francesco — racconta lo chef — l’approccio è stato ancora più semplice e familiare. Amava la cucina italiana, si affidava ai miei piatti con fiducia e curiosità. Gli servivo ravioli ripieni di asparagi bianchi, carni rosse come la basaninaa — tagliata, costata, brasato — che gradiva molto, nonostante la sua patria, l’Argentina, sia la terra della carne per eccellenza».
Francesco apprezzava le verdure: broccoli, carciofi, radicchio di Treviso, patate, asparagi. A tavola beveva poca acqua, gasata naturale, e poco vino. «Aveva un rapporto molto sobrio con il cibo», spiega Dussin, «semplice e genuino. Come dessert gli servivo spesso la millefoglie con crema Chantilly e scaglie di cioccolato, la meringata, le crostate. Ma più di tutto amava avere al centro del tavolo un vassoio con frutta fresca da assaporare durante il pasto, senza formalità».
Oltre ai pranzi privati, Dussin ha avuto il compito di organizzare anche i banchetti ufficiali per capi di Stato, ambasciatori e reali. «Quando si servono ospiti internazionali bisogna tener conto di tutto — spiega —: per esempio piatti kosher per gli ebrei, cucina senza maiale e senza alcol per gli ospiti musulmani. Io proponevo una bozza di menu, poi veniva adattata secondo le esigenze di ciascun commensale».
Ma i ricordi più intensi Dussin li conserva dei pranzi con i poveri, voluti da Papa Francesco. «Nel 2022, durante uno di questi incontri con millecinquecento persone, gli portai una grande torta millefoglie con scaglie di cioccolato. Lui la tagliò con un sorriso, tra gli applausi e la commozione generale. Era un pranzo vero, di famiglia, dove il Papa voleva sedersi accanto ai più semplici, scambiare parole, donare un sorriso».
Un sorriso che Dussin custodisce ancora oggi come il più prezioso degli ingredienti della sua lunga, straordinaria avventura ai fornelli della storia.
Cucina
La pasta e patate come la faceva la nonna (con la crosticina)
Dalla Campania a tutta Italia, la pasta e patate è uno dei comfort food più amati: cremosa, saporita e – se fatta come si deve – con una crosticina irresistibile sul fondo. Servono pochi ingredienti, ma tanta pazienza: e magari l’aggiunta “eretica” di un pezzetto di provola o parmigiano grattugiato.

C’è chi la fa brodosa, chi la vuole compatta, chi non rinuncia al tocco di formaggio filante. Ma una cosa è certa: la pasta e patate, se fatta come si deve, è una delle ricette più coccolose dell’universo gastronomico italiano. Piatto povero per eccellenza, nato per saziare lo stomaco e scaldare il cuore, oggi è tornato di moda anche nei menu stellati. Merito della sua semplicità e di quella capacità tutta mediterranea di trasformare il poco in qualcosa di speciale.
In Campania, dove questa ricetta ha le sue radici più celebri, si chiama “pasta e patane azzeccata”, dove “azzeccata” sta per “attaccata”: sul fondo della pentola, infatti, deve formarsi una leggera crosticina dorata che regala sapore e consistenza al piatto. Un dettaglio che fa tutta la differenza.
Gli ingredienti base:
- 400 g di patate (a pasta gialla, sode)
- 200 g di pasta mista (o ditalini, tubetti)
- 1 cipolla dorata
- 1 carota e un gambo di sedano (facoltativi)
- 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro
- olio extravergine d’oliva
- sale e pepe
- scorza di parmigiano (opzionale)
- provola affumicata o parmigiano grattugiato (a piacere)
La versione tradizionale prevede la cottura in un’unica pentola, senza bollire la pasta a parte. “È proprio l’amido che rilascia la pasta a rendere cremoso il tutto, senza bisogno di panna o burro”, spiegano molti cuochi napoletani.
Procedimento:
In un tegame capiente, fate rosolare la cipolla tritata con un giro d’olio. Se volete arricchire il sapore, potete aggiungere sedano e carota a pezzetti. Unite le patate tagliate a tocchetti piccoli, fate insaporire qualche minuto, poi aggiungete il concentrato di pomodoro e circa un litro d’acqua calda. Salate, pepate, e lasciate sobbollire per una ventina di minuti.
Quando le patate iniziano a sfaldarsi, unite la pasta direttamente nella pentola e mescolate spesso. Se avete una scorza di parmigiano, è il momento di buttarla dentro. Cuocete a fiamma bassa finché la pasta è cotta e il fondo è diventato bello cremoso (senza mai lasciare che si asciughi troppo). Alla fine, per i più golosi, si può aggiungere un po’ di provola a cubetti e lasciarla sciogliere.
A questo punto, chi vuole può lasciare la pentola qualche minuto sul fuoco senza mescolare, per creare quella deliziosa crosticina. Attenzione solo a non bruciare!
Si serve calda, magari con una macinata di pepe e un filo d’olio a crudo. E se ve ne avanza un po’? Nessun problema: riscaldata il giorno dopo, è ancora più buona.
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