Cucina
Il gelato nero ispirato all’Etna in eruzione
Lanciato dal bar Ernesto di Catania in occasione dei festeggiamenti per i cinquant’anni di attività., questo gelato si chiama “Terra dell’Etna”: è il gelato del vulcano con pistacchio e frutta esotica.
La ricetta, fra territorialità e innovazione tecnologica
Fatto con pistacchio salato, un cuore di mango e maracuja e salsa ai frutti rossi. Il tutto ricoperto da una glassa al carbone vegetale. La scelta degli ingredienti è legata a quelle che sono oggi le colture tipiche all’ombra del Vulcano: pistacchio appunto, frutta esotica e frutti rossi.
Due generazioni a confronto
Una ricetta che celebra due generazioni. Da un lato c’è Francesco Urzì, che quel locale – nato su intuizione del maestro gelatiere Ernesto Risita, di cui era collaboratore – ha rilevato negli anni ’80a per farlo crescere nel segno della qualità, lanciando una sfida al territorio: perfezionare e inventare nuovi gusti per destagionalizzare il “cono da passeggio”. Dall’altro c’è Serena Urzì, giovane chef glacier che sta rivoluzionando l’arte della gelateria. Collezionando prestigiosi riconoscimenti e accreditandosi a livello nazionale grazie alle sue ideeall’insegna della grande innovazione. Senza dimenticare Anna Urzì, che in regia pianifica la crescita, diversifica il business, perfeziona il modello, allinea numeri, occupazione, posizionamento dell’azienda. Contribuendo a rendere l’esercizio una realtà sana e in crescita.
La celebrazione di 5 decadi all’insegna del gusto
Un’impresa di famiglia che fa festeggiato l’anno scorso 50 anni di attività proprio con la loro Terra dell’Etna, un gusto di gelato creato dal padre di Serena dopo l’eruzione e la conseguente pioggia di cenere e lapilli del 2002. Sperimentazione e creatività sono le chiavi, insieme ad altre due parole chiave: metodo e organizzazione. Nulla è lasciato al caso. Dalla selezione delle materie prime, diretta espressione del territorio e delle sue stagioni, agli equilibri dettati dalla tecnica, frutto di un mix sapiente fra l’unione degli ingredienti e l’equilibrio dei loro sapori. Eh già, si fa presto a dire gelato…
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Cucina
Strudel di mele: storia, tradizione e la ricetta autentica del grande classico dell’Alto Adige
Dalle antiche influenze dell’Impero Ottomano fino alle tavole dell’Europa alpina: lo strudel è un viaggio nel tempo che profuma di mele, cannella e cultura gastronomica.
Lo strudel di mele è uno dei dolci più rappresentativi dell’Alto Adige e, più in generale, dell’area mitteleuropea. La sua fama va ben oltre le montagne italiane: Austria, Germania, Ungheria e molti Paesi dell’Est lo considerano parte integrante del loro patrimonio culinario. Ma lo strudel non è nato tra i meleti dell’Adige: la sua origine affonda in un passato sorprendente, fatto di contaminazioni e scambi culturali.
Dalle corti ottomane alle Alpi: un dolce in viaggio
Lo strudel, nella sua forma attuale, deriva da un dolce molto più antico: il baklava, specialità unica della tradizione mediorientale e balcanica. Fu durante l’espansione dell’Impero Ottomano — tra il XVI e XVII secolo — che ricette simili al baklava raggiunsero l’Europa centrale. Gli austriaci le reinterpretarono sostituendo gli ingredienti più ricchi (come miele e frutta secca) con materie prime locali, in particolare le mele, abbondanti nella regione alpina.
Il primo documento scritto che cita lo “strudel” risale al 1696 e si trova negli archivi della Biblioteca di Vienna. Da lì, il dolce si diffuse rapidamente nelle cucine borghesi e poi in quelle popolari, diventando un simbolo della tradizione contadina dell’Alto Adige, dove l’incontro tra culture germaniche e italiane ha plasmato un’identità unica anche nel cibo.
La ricetta tradizionale dello Strudel di mele
Di strudel esistono oggi tantissime varianti: con pasta tirata, pasta sfoglia, uvetta ammollata nel rum, pangrattato tostato nel burro o frutta secca. La ricetta che segue si ispira alla versione classica altoatesina, quella che meglio conserva l’autenticità storica pur essendo alla portata di ogni cucina domestica.
Ingredienti (per 6–8 porzioni)
Per la pasta tirata:
- 250 g di farina 00
- 1 uovo
- 30 g di olio di semi
- 1 pizzico di sale
- 100 ml circa di acqua tiepida
Per il ripieno:
- 1 kg di mele (preferibilmente Renetta o Golden)
- 80 g di zucchero
- 60 g di uvetta
- 40 g di pinoli (opzionali ma tradizionali)
- 1 cucchiaino di cannella
- Succo di mezzo limone
- 40 g di pangrattato
- 40 g di burro
Per la finitura:
- Burro fuso q.b.
- Zucchero a velo q.b.
Procedimento
1. Preparate la pasta tirata
Impastate farina, uovo, olio e sale, aggiungendo l’acqua poco alla volta fino a ottenere un composto elastico. Lavoratelo almeno 10 minuti: la caratteristica dello strudel è proprio la sua pasta sottilissima. Formate una palla, copritela e lasciate riposare 30 minuti.
2. Preparate il ripieno
Sbucciate le mele, tagliatele a fettine sottili e mescolatele con zucchero, cannella, uvetta ammollata e strizzata, pinoli e succo di limone. Fate fondere il burro in padella e tostate il pangrattato fino a doratura: servirà ad assorbire l’umidità del ripieno, come vuole la tradizione.
3. Stendete la pasta
Stendete la pasta prima con il mattarello, poi con le mani, su un canovaccio infarinato. Deve diventare quasi trasparente, tanto da poter leggere un giornale attraverso: è il segno della corretta elasticità.
4. Assemblate e arrotolate
Distribuite il pangrattato tostato sulla pasta, lasciando un bordo libero, poi aggiungete il ripieno di mele. Aiutandovi con il canovaccio, arrotolate delicatamente lo strudel. Sigillate bene le estremità.
5. Cottura
Adagiate il rotolo su una teglia con carta da forno, spennellate con burro fuso e cuocete in forno a 180°C per 40–45 minuti, finché sarà dorato.
6. Servizio
Lasciate intiepidire e spolverate con zucchero a velo. È perfetto servito con crema alla vaniglia o gelato fiordilatte.
Un dolce che racconta una storia
Lo strudel di mele è molto più di una ricetta: è il simbolo dell’incontro tra culture, della capacità del cibo di migrare, trasformarsi e radicarsi altrove. Oggi rappresenta una delle specialità più amate dell’Alto Adige, dove ogni famiglia conserva la propria versione tramandata da generazioni.
Prepararlo in casa significa riportare nella propria cucina un pezzo di storia europea, fatta di profumi antichi e gesti pazienti — gli stessi che, secoli fa, hanno dato vita a uno dei dolci più iconici e rassicuranti della tradizione alpina. Buon viaggio… e buon strudel.
Cucina
Natale vegetariano: il menu delle feste che conquista tutti, anche i non vegetariani
Sempre più famiglie scelgono un Natale a base vegetale: non una rinuncia, ma un modo diverso di celebrare la tavola delle feste con piatti curati, stagionali e sorprendenti.
Il Natale è da sempre sinonimo di abbondanza e convivialità. Negli ultimi anni, però, cresce il numero di italiani che decide di portare in tavola un menu vegetariano, per scelta etica, ambientale o semplicemente per variare. L’idea che un pranzo di festa senza carne sia triste o “di ripiego” è ormai superata: la cucina vegetariana, soprattutto a Natale, offre piatti ricchi, eleganti e perfettamente in linea con la tradizione.
Antipasti: il benvenuto delle feste
L’antipasto è il biglietto da visita del pranzo natalizio. Via libera a preparazioni scenografiche ma semplici, dove protagoniste sono le verdure di stagione.
Tra le proposte più apprezzate ci sono le tartine con crema di ricotta ed erbe aromatiche, magari arricchite con noci o scorza di agrumi, e lo sformato di verdure invernali – cavolfiore, broccoli o zucca – servito a quadrotti. Immancabili anche i crostini con funghi trifolati o una insalata tiepida di finocchi e arance, che richiama profumi tipicamente natalizi.
Primi piatti: tradizione che si rinnova
Il primo è il cuore del pranzo. La cucina vegetariana permette di reinterpretare grandi classici senza perdere intensità.
Un’idea elegante è la lasagna vegetariana, preparata con besciamella, spinaci, funghi e formaggi delicati. In alternativa, i ravioli ripieni di ricotta e noci, conditi con burro e salvia, rappresentano un omaggio alla tradizione delle paste ripiene delle feste. Per chi ama i sapori più decisi, il risotto al radicchio e taleggio o alla zucca e rosmarino è una scelta raffinata e stagionale.
Secondi: sostanza e creatività
Anche senza carne, il secondo può essere ricco e appagante. Uno dei piatti simbolo del Natale vegetariano è il polpettone di legumi, a base di lenticchie o ceci, arricchito con spezie, verdure e servito con una salsa delicata.
Molto apprezzato anche il timballo di verdure e formaggio, cotto al forno e servito a fette, oppure il seitan o tofu glassato con agrumi e miele (o sciroppo d’acero per una versione vegana). Le uova in cocotte con porri e parmigiano, infine, sono una soluzione semplice ma elegante.
Contorni: colori e stagionalità
I contorni completano il piatto e portano colore in tavola. Le patate al forno con erbe aromatiche restano un classico intramontabile, così come le verdure gratinate. Per qualcosa di più originale, si possono servire cavoletti di Bruxelles saltati con mandorle o una zucca arrosto speziata con paprika dolce e timo.
Il dolce: Natale è dolcezza
Il pranzo non può che chiudersi con un dessert all’altezza. Qui la tradizione viene in aiuto: panettone e pandoro sono naturalmente vegetariani e possono essere accompagnati da creme fatte in casa, come una salsa al mascarpone o una crema al cioccolato fondente.
Per chi ama preparare tutto da sé, ottime alternative sono la torta di mele speziata, i biscotti natalizi alla cannella o una crostata di frutta secca e miele. Dolci semplici, ma profondamente legati al periodo festivo.
Un Natale diverso, ma autentico
Scegliere un menu vegetariano per Natale non significa rinunciare alla convivialità o alla tradizione, ma reinterpretarla in chiave moderna. Con ingredienti stagionali, attenzione alle preparazioni e un pizzico di creatività, il pranzo delle feste può diventare un’esperienza condivisa e inclusiva.
Alla fine, ciò che rende speciale il Natale non è ciò che manca nel piatto, ma ciò che unisce intorno alla tavola: il tempo, la cura e il piacere di stare insieme.
Cucina
Pandolce genovese: il dolce delle feste che racconta la Liguria
Dalle origini nella Repubblica di Genova ai due impasti — alto e basso — oggi simboli del Natale ligure. La ricetta tradizionale e le curiosità storiche di uno dei dolci più antichi d’Italia.
Profuma di anice, agrumi e frutta candita, ed è uno dei dolci più rappresentativi del Natale italiano. Il pandolce genovese (o “pan döçe”) affonda le sue radici nella storia della Repubblica marinara, quando Genova era un porto ricco di spezie e commerci. Ancora oggi è immancabile sulle tavole liguri e al centro di una tradizione che si rinnova ogni dicembre.
Le origini: un dono alla Repubblica
Il pandolce nasce tra il XVI e il XVII secolo, periodo in cui la città era un crocevia di scambi tra Mediterraneo, Oriente e Nord Europa. L’impasto ricco, con uvetta, pinoli e spezie, ricalcava i dolci “da viaggio” diffusi nelle repubbliche marinare.
Secondo alcune ricostruzioni storiche, fu il doge Andrea Doria a incoraggiare la creazione di un dolce simbolico che rappresentasse prosperità e buon auspicio. Per questo il pandolce veniva preparato soprattutto per Natale e consumato fino all’Epifania: doveva essere nutriente e ben conservabile, qualità indispensabili in un’epoca in cui gli ingredienti erano preziosi.
Le due versioni: alto e basso
Oggi il pandolce esiste in due varianti:
• Pandolce alto
È il più antico. Si prepara con lievito madre o lievitazione lunga; risulta più soffice, simile a un pane brioche. Richiede tecniche più impegnative e diverse ore di riposo.
• Pandolce basso
È l’evoluzione ottocentesca — più moderna — nata con l’introduzione del lievito chimico. È friabile, compatto e ricorda quasi una frolla morbida. È quello più diffuso nelle case, perché semplice da realizzare.
Entrambe le versioni prevedono ingredienti ricorrenti: uvetta, pinoli, cedro candito, zibibbo o acqua di fiori d’arancio.
La tradizione del “taglio del pandolce”
In molte famiglie liguri è ancora viva la consuetudine che il membro più giovane della casa porti il pandolce in tavola, mentre il capofamiglia ne taglia la prima fetta, riservandola a un ospite inatteso o ai più poveri. Una ritualità che celebra ospitalità e condivisione.
La ricetta del pandolce genovese (versione bassa tradizionale)
Ingredienti (per un pandolce da 1 kg circa)
- 500 g di farina 00
- 150 g di zucchero
- 150 g di burro morbido
- 2 uova
- 150 g di uvetta ammollata
- 80 g di pinoli
- 120 g di cedro candito o misto canditi
- 1 bustina di lievito per dolci
- 1 cucchiaio di acqua di fiori d’arancio o scorza grattugiata di arancia
- 1 cucchiaio di semi di finocchio o anice (facoltativo, tipico di alcune zone)
- 1 pizzico di sale
Procedimento
- Ammollare l’uvetta
Mettete l’uvetta in acqua tiepida per circa 15 minuti, poi strizzatela bene. - Preparare l’impasto
In una ciotola lavorate il burro con lo zucchero fino a ottenere una crema chiara. Unite le uova una alla volta, mescolando. - Aggiungere gli aromi
Incorporate l’acqua di fiori d’arancio (o la scorza), i semi di anice e un pizzico di sale. - Unire la farina
Aggiungete la farina setacciata insieme al lievito. Amalgamate fino a ottenere un impasto morbido ma modellabile. - Inserire frutta e pinoli
Incorporate uvetta, canditi e pinoli distribuendoli uniformemente. - Dare la forma
Create una pagnotta rotonda e incidete una croce superficiale sulla sommità: è il segno distintivo del pandolce tradizionale. - Cottura
Cuocete in forno statico a 170 °C per circa 45–50 minuti. Se la superficie scurisce troppo, coprite con carta forno. - Raffreddamento
Lasciate raffreddare completamente: il pandolce migliora dopo qualche ora, quando gli aromi si assestano.
Un patrimonio gastronomico che resiste al tempo
Il pandolce genovese continua a essere un ambasciatore della tradizione ligure, apprezzato anche fuori regione e spesso inserito nei prodotti tipici tutelati dalle associazioni locali. Tra i dolci natalizi italiani, è uno dei pochi ad avere una storia documentata che attraversa secoli, commerci e culture.
Prepararlo in casa significa portare in tavola un pezzo di storia, oltre che un profumo inconfondibile di festa. È il sapore del Natale ligure, immutabile e rassicurante, che ogni anno conquista nuove generazioni.
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