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Cucina

La ricetta esclusiva del latte blu di Star Wars!

Mentre nel mondo di Star Wars il Blue Milk è ottenuto mungendo gli esemplari di Bantha, nella nostra galassia, la versione terrestre di questo latte blu è prodotta da bovini comuni. Noi vi diamo la ricetta per prepararlo in casa.

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    Il latte blu di Star Wars sta diventando realtà grazie a una partnership tra TruMoo e Disney-Lucasfilm. Questa iniziativa si ispira al Blue Milk, o latte di Tatooine, apparso per la prima volta nel film “Star Wars: Una nuova speranza” nel 1977.

    La felicità dei fan!
    Questa iniziativa è destinata a essere un’esperienza divertente per i fan della saga di Star Wars, che avranno finalmente la possibilità di gustare il mitico latte blu che ha accompagnato molte avventure dei personaggi di George Lucas. Oltre a essere un omaggio alla cultura popolare, questa collaborazione rappresenta anche un modo creativo per portare un’iconica bevanda cinematografica nella vita reale.

    Ma che sapore ha?
    Il latte blu ricavato dalle femmine dei pelosi Bantha di Star Wars viene descritto come dolce e ideale per produrre anche yogurt, formaggi e gelati presso la fattoria di Zia Beru sul pianeta Tatooine. La riproposizione di TruMoo avrà un sapore di vaniglia e deriverà da latte vaccino, a differenza di quello basato su latte vegetale (cocco e riso) disponibile dal 2019 soltanto presso le aree tematiche Star Wars: Galaxy’s Edge dei parchi divertimento Disneyland Resort di Anaheim in California e il Disney Hollywood Studios a Orlando in Florida.

    Lo beve anche Luke Skywalker
    Mark Hamill, l’iconico interprete di Luke Skywalker, che ha provato il latte blu di TruMoom conferma la bontà del latte, un contrasto rispetto all’esperienza sul set negli anni ’70, quando il liquido preparato per le riprese era descritto come piuttosto disgustoso.

    Presto dispinibile nei supermercati
    Grazie a TruMoo e alla sua riinterpretazione del latte blu di Star Wars, i fan possono finalmente gustare una delle icone culinarie più amate della galassia, portando un tocco di magia di Tatooine nelle loro vite quotidiane. Che la Forza sia con TruMoo e tutti i suoi fan mentre si godono questa deliziosa creazione galattica!

    LA RICETTA DELLA FATTORIA SPAZIALE

    Ingredienti per 3 tazze di latte blu
    500 g di latte intero fresco (o a lunga conservazione)
    2 cucchiai di zucchero semolato
    Qualche goccia di vaniglia
    1 goccia di colorante gel alimentare blu

    Mescola insieme il latte, lo zucchero e la vaniglia. Quando lo zucchero sarà sciolto, aggiungi il colorante gel blu fino ad ottenere un composto omogeneo, infine metti in frigo fino a momento di bere.



    Non vediamo l’ora di vedere come i fan reagiranno a questa novità e di assaggiare il latte blu di Star Wars che presto potrebbe essere disponibile nei negozi!

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      Piadina, regina dell’estate: storia, ricetta e segreti della sfoglia più romagnola che c’è

      Una sfoglia semplice fatta di farina, strutto, acqua e sale. Ma dietro c’è un patrimonio culturale che profuma di Riviera, biciclette arrugginite e mani infarinate. Dalla storia antica alle varianti gourmet, ecco tutto quello che c’è da sapere sulla piadina, la compagna ideale delle serate d’agosto.

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        C’è un suono che racconta l’estate romagnola meglio di mille canzoni da spiaggia: è il fruscio della piadina che si gonfia sulla piastra rovente. Un respiro breve, antico, che profuma di farine grezze, di strutto vero, di mani sapienti e facce sorridenti dietro ai chioschi. In Riviera, la piadina non è solo cibo: è un rito. Si mangia dopo il bagno, tra una partita a racchettoni e un tramonto sulla battigia. Si condivide, si piega, si sbrodola. E non conosce crisi: è democratica, inclusiva, low cost e incredibilmente buona.

        E dire che le sue origini sono tutt’altro che estive. La piadina nasce come pane povero contadino, una sfoglia rustica senza lievito, da cuocere al volo su lastre di pietra o di terracotta. A raccontarla per primo è addirittura Giovanni Pascoli, che le dedica alcuni versi pieni d’amore. “La piada romagnola” la chiama lui, sottolineando come bastino pochi ingredienti e un fuoco acceso per nutrire un popolo intero.

        La versione canonica prevede farina, strutto (o olio, se proprio vogliamo essere gentili con il colesterolo), acqua tiepida e sale. L’impasto si lavora a mano, con pazienza, e poi si stende a disco con il mattarello, fino a raggiungere uno spessore che varia da zona a zona. Nella zona di Forlì e Cesena, ad esempio, è più sottile; a Rimini si avvicina quasi a una tortilla; mentre a Ravenna e dintorni la piada è più alta, morbida e rustica. Ciascuno ha la sua, e guai a dire che “tanto è la stessa cosa”.

        Ma è sul ripieno che si gioca la vera partita. Il classicone, manco a dirlo, è crudo, squacquerone e rucola, un mix perfetto di grasso, cremoso e amaro, dove ogni morso sa di sabbia sotto i piedi e risate notturne. Ma c’è anche chi la farcisce con salsiccia e cipolle caramellate, con verdure grigliate e stracchino, con porchetta e pecorino o con frittata e melanzane. I più temerari azzardano anche versioni dolci: Nutella, fichi caramellati, marmellata di ciliegie. Un sacrilegio? Forse. Ma anche il sacrilegio, d’estate, ha un suo fascino.

        La piadina è anche un pezzo d’identità. Tanto che nel 2014 è arrivata l’IGP – Indicazione Geografica Protetta, che ne tutela forma, spessore, ingredienti e persino temperatura. Ma il cuore della piadina resta nei chioschi: quelle baracche bianche e blu, spesso in bilico tra la statale e il mare, dove le signore arrotolano impasti con una naturalezza da coreografe. E dove la fila non manca mai, nemmeno alle due di notte.

        Un tempo si mangiava in silenzio, con la fame vera. Oggi si scatta la foto, si posta su Instagram, si chiacchiera mentre si morde. Ma lo spirito è lo stesso: conviviale, informale, pieno di sale e libertà. Perché la piadina non ha orari né etichette: si mangia calda in piedi, magari con la birra in mano e i piedi nudi sulla sabbia.

        E se qualcuno osa dire che è solo una “focaccia romagnola”, beh, che si prepari a essere smentito. Con dolcezza, certo. Ma anche con la forza di secoli di sfoglia.

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          Sushi al pesto, tartufo e bufala: le follie gastronomiche dell’estate italiana

          Dai maki al pesto ai nigiri con burrata, passando per uramaki al tartufo nero e tempura di babà: l’estate 2025 è il trionfo della contaminazione gastronomica. L’obiettivo? Far impazzire turisti, influencer e algoritmi. Anche a costo di far venire il mal di pancia al buon gusto.

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            Il sushi non è più quello di una volta. E in fondo, forse è giusto così: chi ha detto che il riso deve stare con il pesce crudo, la soia e il wasabi? L’estate 2025 ha sdoganato la versione italica del sushi con una creatività che definire ardita è un eufemismo.

            Il tour comincia a Portofino, dove lo “chef creativo” del momento serve un roll pesto e pinoli con topping di burrata. “Omaggio alla Liguria”, dicono. “Insulto alla gastronomia”, rispondono i puristi. Il colore verde acceso dell’alga nori che si fonde col verde più spento del pesto ricorda vagamente l’albero di Natale. A Ferragosto.

            Spostiamoci a Positano, dove il sushi roll con alici di Cetara e mozzarella di bufala campana fa impazzire TikTok. I turisti tedeschi ci mettono sopra il ketchup, quelli americani fanno “wow”. Il sommelier abbina un prosecco con nota di ananas e il gioco è fatto. L’Asia può attendere.

            Ma il premio per la più spregiudicata invenzione dell’anno va a un locale di Assisi, dove il “Sushufolo” – roll di riso con carpaccio di fassona, crema di tartufo nero e scaglie di pecorino – è l’ultimo sacrilegio in menù. Servito su pietra calda, accompagnato da una ciotolina di vin santo. Il Giappone ha chiesto l’estradizione.

            A Milano, invece, il “fusion estremo” è una religione. In zona Navigli, un locale propone “sushi carbonara”, con guanciale croccante e uovo a bassa temperatura. Si mangia rigorosamente con le bacchette. E con gli occhi chiusi.

            Ovviamente, i social impazziscono: reels, stories, TikTok pieni di bocche aperte, occhi stupiti e didascalie con hashtag tipo #SushItalia o #NigiriColParmigiano. Il confine tra genialità e delirio gastronomico è sempre più sottile. E spesso condito con l’olio al tartufo.

            La morale? Nessuna. Se non quella, forse, che l’estate è lunga, gli stomaci forti e il like facile. Nel dubbio, tenete a portata di mano un antiacido. E magari un onigiri vero.

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              La febbre del cocomero: da frutto popolare a simbolo hipster dell’estate 2025

              Non è più solo il frutto da tagliare a fette sotto l’ombrellone. Il cocomero si reinventa: ingrediente di cocktail d’autore, protagonista di dessert stellati, musa per packaging di bellezza e persino oggetto di culto su TikTok. E mentre il prezzo per una maxi anguria sfiora i 30 euro, scoppia la “cocomero mania”.

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                Un tempo si mangiava sulla spiaggia, appoggiati al bagnasciuga, con le mani appiccicose e il succo che colava sulle ginocchia. Oggi, invece, l’anguria si serve in calici da vino, viene affettata in cubi minimal per dessert da ristorante stellato, e profuma – letteralmente – le notti estive di chi la sceglie come nota di testa nel nuovo Eau de Parfum da boutique.

                È ufficiale: il cocomero non è più solo un frutto. È un manifesto estetico.

                La “cocomero mania” è esplosa come una granita al sole, complice l’ascesa social dell’anguria: tra TikTok, Instagram e Pinterest, il frutto rosa è diventato sfondo, oggetto, pattern, trend. C’è chi lo scolpisce in forme artistiche, chi lo utilizza per creare stoviglie biodegradabili, chi ne fa la base per un gelato molecolare da servire al tavolo con l’azoto liquido.

                E poi ci sono i cocktail, ovviamente. Dal Watermelon Spritz con gin botanico al Margarita all’anguria affumicata, il frutto più pop dell’estate si è guadagnato un posto d’onore nei menu dei rooftop bar di Milano, Roma e Barcellona.

                Non solo food. Brand cosmetici e case di moda ne esaltano l’effetto pop: la fragranza watermelon è ovunque, dagli shampoo alle creme corpo, passando per le candele da 60 euro l’una. Persino nei beachwear si moltiplicano i pattern ispirati all’anguria, che torna prepotente anche su borse, teli mare e accessori.

                E il prezzo? Come ogni moda, ha il suo costo. In alcune città, una maxi anguria biologica può superare i 25-30 euro. E se la si vuole già tagliata, il ricarico raddoppia.

                L’anguria, insomma, non è più la merenda proletaria che fu. Ma forse, proprio per questo, piace ancora di più. Perché dietro la scorza verde e le righe scure, batte ancora un cuore rosso capace di conquistare ogni estate. Anche questa.

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