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Cucina

Involtini di verza ripieni di riso: il comfort food greco che profuma di Mediterraneo

Gli involtini di verza ripieni di riso, noti in Grecia come Lahanodolmades, sono un piatto tradizionale dal sapore delicato e avvolgente. Perfetti come antipasto o secondo leggero, si possono preparare in versione vegetariana o con carne. La loro origine si perde nei secoli, legata alla cucina mediterranea e alle influenze ottomane.

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    Ingredienti (per 4 persone)

    • 1 cavolo verza medio
    • 200 g di riso (preferibilmente riso a chicco medio)
    • 1 cipolla tritata
    • 1 carota grattugiata
    • 1 ciuffo di prezzemolo tritato
    • 1 cucchiaino di aneto fresco (opzionale)
    • 1 spicchio d’aglio tritato
    • 500 ml di brodo vegetale
    • 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva
    • Sale e pepe q.b.
    • Il succo di 1 limone

    Preparazione

    1. Sbollenta la verza: stacca delicatamente le foglie esterne della verza e falle sbollentare per un paio di minuti in acqua bollente salata, fino a renderle morbide. Scolale e falle raffreddare su un canovaccio.
    2. Prepara il ripieno: in una padella, scalda un cucchiaio d’olio e fai appassire la cipolla con l’aglio. Aggiungi la carota grattugiata e il riso, mescola per un paio di minuti e unisci metà del brodo. Fai cuocere a fuoco basso finché il liquido sarà assorbito, poi aggiungi il prezzemolo, l’aneto, il sale e il pepe.
    3. Forma gli involtini: prendi una foglia di verza, metti un cucchiaio di ripieno al centro e arrotola bene, ripiegando i lati per evitare che il ripieno fuoriesca.
    4. Cuoci gli involtini: disponili in una casseruola uno accanto all’altro, aggiungi il brodo rimanente e cuoci a fuoco basso per circa 30 minuti con il coperchio. A fine cottura, irrora con il succo di limone e un filo d’olio.
    5. Servi e gusta: gli involtini possono essere serviti caldi o a temperatura ambiente, magari con una salsa allo yogurt greco per accompagnarli.

    Variazioni e personalizzazioni

    • Con carne: nella versione più ricca, si può aggiungere carne macinata (di manzo o agnello) al ripieno, facendola rosolare insieme alla cipolla.
    • Al sugo: una variante prevede la cottura degli involtini in un sugo di pomodoro leggero, per un gusto più mediterraneo.
    • Vegani e speziati: si possono arricchire con pinoli e uvetta per un tocco mediorientale, oppure con spezie come cumino e paprika per un sapore più deciso.
    • Sostituire la verza: per una versione più primaverile, si possono usare foglie di vite al posto della verza, come nei celebri Dolmades greci.

    Un piatto dalla storia antica

    Gli involtini di verza ripieni hanno radici che affondano nella cucina dell’Impero Ottomano, da cui si sono diffusi in tutta la regione balcanica e mediterranea. In Grecia, sono conosciuti come Lahanodolmades (lahano significa cavolo, dolmades indica gli involtini) e rappresentano uno dei piatti più amati della tradizione casalinga. La loro origine si lega alla necessità di utilizzare ingredienti semplici, trasformandoli in un piatto gustoso e nutriente. Simili versioni si trovano anche in Turchia, Romania e nei paesi slavi, segno di una cultura culinaria condivisa lungo le rotte dell’antico impero.

    Oggi, gli involtini di verza sono una ricetta perfetta per riscoprire i sapori autentici della cucina mediterranea, tra semplicità e tradizione.

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      Cucina

      L’oro dolce dei Balcani: la tradizione dell’halva di semi di girasole

      Dalle sue origini affascinanti fino alla ricetta autentica: ecco come nasce uno dei dolci più amati e diffusi nei mercati di Turchia, Bulgaria, Grecia, Russia e Medio Oriente. Una delizia che unisce storia, cultura e sorprendenti proprietà nutritive.

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      halva di semi di girasole

        Una storia che profuma di tradizione

        Il termine halva deriva dal termine arabo ḥalwā, che significa “dolce”. Le sue radici sono antichissime: le prime versioni documentate compaiono tra Persia e regioni ottomane già dal XIII secolo. Nel corso dei secoli, la ricetta ha viaggiato lungo rotte commerciali e culturali, arrivando nelle attuali Turchia, nei Balcani, in Grecia e fino alla Russia.
        Esistono molte varianti: a base di semola, tahina (crema di sesamo), noci o semi di girasole. Proprio quest’ultima è tra le più popolari nell’Europa orientale, grazie alla disponibilità locale del girasole e al suo sapore ricco e aromatico.

        Perché i semi di girasole?

        Ricchi di grassi “buoni”, vitamine del gruppo B e minerali come magnesio e fosforo, i semi di girasole sono un ingrediente tradizionale ma anche sorprendentemente attuale. Nella versione dell’halva, vengono tostati e macinati fino a diventare una crema rustica che, unita a un caramello leggero, dà vita a un dolce compatto, friabile e naturalmente profumato.

        La ricetta dell’halva ai semi di girasole

        Ingredienti (per circa 8 porzioni)

        • 200 g di semi di girasole sgusciati
        • 120 g di zucchero
        • 80 g di miele (o sciroppo di glucosio nelle versioni più tradizionali)
        • 50 ml di acqua
        • 1 pizzico di sale
        • 1 cucchiaino di estratto di vaniglia (facoltativo)

        (Nelle preparazioni industriali può essere presente anche pasta di semi di girasole, ma a livello casalingo la versione tostata e macinata resta la più comune e fedele alla tradizione.)

        Procedimento

        Tostare i semi

        Distribuisci i semi di girasole su una padella antiaderente e falli tostare a fiamma media per 4–5 minuti, mescolando spesso. Devono dorarsi leggermente e sprigionare il loro profumo, ma senza bruciare.
        Lasciali raffreddare completamente.

        Ridurli in crema

        Una volta freddi, frulla i semi in un mixer potente fino a ottenere una consistenza sabbiosa e poi via via sempre più cremosa.
        Se necessario, procedi a intervalli per evitare di surriscaldare il motore.
        Aggiungi un pizzico di sale e, se lo gradisci, la vaniglia.

        Preparare lo sciroppo

        In un pentolino unisci acqua, zucchero e miele. Cuoci a fuoco medio finché la miscela raggiunge una consistenza densa, simile a un caramello chiaro (circa 118–120°C, fase “soft ball”).
        Se non hai un termometro, osserva che lo sciroppo cominci a filare e diventi viscoso.

        Unire crema e sciroppo

        Versa lo sciroppo caldo nella crema di semi e mescola energicamente con una spatola. Il composto tenderà a compattarsi man mano che lo zucchero cristallizza: è normale ed è proprio questa reazione a creare la tipica consistenza friabile dell’halva.

        Modellare e raffreddare

        Trasferisci la massa in uno stampo foderato con carta da forno, pressandola bene.
        Lascia riposare a temperatura ambiente per 3–4 ore, finché non diventa solida e facile da tagliare.

        Servire

        Taglia l’halva a fette o cubotti. Si conserva per diversi giorni in un contenitore ermetico, senza necessità di frigorifero.

        Un dolce antico che parla al presente

        L’halva di semi di girasole è un dessert che unisce tradizione e modernità: ricca ma naturale, dolce ma non stucchevole, perfetta da gustare da sola o accompagnata da tè caldo o caffè.
        Una ricetta che racconta secoli di scambi e contaminazioni tra culture diverse, ma che continua — ieri come oggi — a conquistare chiunque ami i sapori autentici.

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          Cucina

          Cene a casa, ma con stile: come trasformare il salotto in un bistrot tra amici e riscoprire la convivialità autentica

          Dimenticate le tavolate caotiche e le serate improvvisate: la tendenza del momento è la cena curata, intima e scenografica. Basta poco per trasformare la casa nel ristorante più accogliente della città.

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          Cene a casa

            Altro che prenotazioni impossibili o conti salati: il nuovo lusso è invitare a casa. Dopo anni di delivery e aperitivi al volo, torna la voglia di cucinare e apparecchiare con gusto. La pandemia ha acceso la miccia, ma oggi è diventata una scelta di stile: trasformare il salotto in un bistrot privato dove la convivialità è il vero piatto forte. Le cene domestiche si fanno più curate, più pensate e anche più scenografiche. Non serve un servizio da hotel, bastano cura e atmosfera.

            Piatti semplici ma con carattere

            Il segreto è scegliere un piatto unico che sorprenda senza costringere il padrone di casa ai fornelli per ore. Risotti cremosi, paste al forno gourmet, zuppe speziate o tagli di carne cotti lentamente. L’idea è far sentire gli ospiti coccolati, non assistere a uno show di cucina. Si può puntare su ingredienti locali, vino giusto e impiattamento curato: una foglia di erba aromatica, un filo d’olio buono, un piatto caldo. La tavola si veste di semplicità e colore: lino naturale, posate spaiate, bicchieri trasparenti. L’effetto? Un’eleganza spontanea, mai costruita.

            La luce giusta fa metà del lavoro

            La differenza tra una cena qualunque e una memorabile la fanno l’atmosfera e la luce. Lampade basse, candele, riflessi dorati sulle pareti: tutto concorre a creare quel senso di accoglienza che nessun ristorante può imitare. Anche la playlist ha il suo ruolo: jazz morbido, soul o un po’ di cantautorato italiano.
            La nuova socialità domestica è fatta di chiacchiere, calici e pause, di momenti lenti ma autentici. A fine serata, nessuno controlla l’ora: si resta seduti, tra bicchieri vuoti e risate. Perché a volte, il ristorante migliore è quello che profuma di casa.

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              Cucina

              La cucina italiana entra nel Patrimonio Unesco e Meloni esulta, ma il primato è solo a metà: ecco cosa c’è davvero dietro il riconoscimento

              L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana come patrimonio culturale immateriale dell’umanità, prima al mondo nella sua interezza. Giorgia Meloni festeggia parlando di primato assoluto, ma l’Italia entra in un club che conta già Francia, Messico, Giappone e Corea.

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                Applausi, orgoglio tricolore e qualche glitter politico sparso qua e là. Da New Delhi arriva la notizia che fa brillare la tavola degli italiani: la cucina italiana è ufficialmente entrata nella lista dei patrimoni culturali immateriali dell’umanità dell’Unesco. Una decisione presa all’unanimità dal Comitato intergovernativo, davanti a 60 dossier presentati da 56 Paesi. Il riconoscimento parla di “miscela culturale e sociale di tradizioni culinarie”, capace di esprimere amore, cura, identità e memoria collettiva.

                Il sì dell’Unesco e la standing ovation
                Il verdetto è stato accolto da un lungo applauso in sala. Secondo l’Unesco, cucinare all’italiana favorisce inclusione sociale, benessere, relazioni, apprendimento tra generazioni e senso di appartenenza. La cucina viene descritta come pratica comunitaria, fondata sul rispetto degli ingredienti, sulla condivisione e sulle ricette anti-spreco, con ruoli intercambiabili tra giovani e anziani. Un racconto che somiglia molto a quello che ogni giorno si accende attorno alle tavole di milioni di famiglie.

                Meloni esulta, ma il primato va spiegato bene
                Giorgia Meloni ha subito rivendicato il risultato parlando di un primato mondiale. Ed è vero solo in parte. L’Italia è la prima nazione a ottenere il riconoscimento per la cucina nella sua interezza, ma entra comunque in un club già prestigioso. Prima di noi, infatti, erano già stati riconosciuti il pasto gastronomico dei francesi e la cucina tradizionale messicana nel 2010, la pratica coreana del kimchi e la cucina tradizionale giapponese nel 2013. Un primato, sì, ma con i dovuti asterischi.

                Un lavoro lungo sessant’anni
                Nel dossier di candidatura, curato dal giurista Pier Luigi Petrillo, l’Unesco sottolinea l’impegno delle comunità negli ultimi sessant’anni, con il contributo di realtà come La Cucina Italiana, l’Accademia Italiana della Cucina e la Fondazione Casa Artusi. Con questo ingresso, l’Italia rafforza anche un altro record: su 21 tradizioni immateriali riconosciute, ben 9 sono legate all’agroalimentare. Oltre alla cucina italiana, figurano l’arte dei pizzaiuoli napoletani, la dieta mediterranea, la transumanza, il tartufo, la vite ad alberello di Pantelleria, i muretti a secco, l’irrigazione tradizionale e i cavalli lipizzani.

                La cucina come identità collettiva
                Non si celebra solo un insieme di ricette, ma una pratica quotidiana che unisce generazioni, territori e culture. L’Unesco parla di una cucina che supera le barriere interculturali, che racconta storie e che continua a evolversi restando fedele alle sue radici. Un riconoscimento che vale come fotografia di ciò che l’Italia è da sempre, ben prima degli slogan.

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