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Lifestyle

Gwyneth Paltrow vende la villa di Los Angeles a 30 milioni di dollari!

Gwyneth Paltrow dice addio alla sua dimora da sogno di Los Angeles. L’attrice ha messo in vendita la sua straordinaria villa di 8.000 metri quadrati, per una cifra da far girare la testa: si parla di 30 milioni di dollari.

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    La decisione di vendere la proprietà arriva dopo il diploma del figlio Moses, 18 anni, che a breve inizierà la sua carriera universitaria. La villa, acquistata anni fa con l’ex marito Chris Martin, nel cuore di Brentwood, quartiere residenziale di Los Angeles, nel 2012 per 9,95 milioni di dollari, è un vero e proprio gioiello immobiliare, nido della famiglia durante il loro matrimonio.

    Ma che cos’ha di speciale questa villa?
    Immaginate un paradiso privato immerso nel verde, con ogni comfort immaginabile: 8 camere da letto, 11 bagni, una sala cinema, una sala giochi, una palestra e persino un campo da tennis. Il tutto circondato da un giardino lussureggiante e da una piscina mozzafiato.
    Un vero gioiello immobiliare che non mancherà di attirare l’attenzione di acquirenti facoltosi. Chi sarà il fortunato che potrà vantare di possedere questa reggia da star?

    Alcuni interni della villa

    Un nuovo capitolo per Gwyneth
    Dopo il divorzio da Chris Martin nel 2014, Gwyneth ha sposato Brad Falchuk nel 2018. Insieme ai suoi due figli, si sono trasferiti nella villa di Los Angeles, creando una nuova famiglia allargata. Ora, con il figlio Moses che lascia il nido, è tempo per Gwyneth di voltare pagina e intraprendere un nuovo capitolo della sua vita. La vendita della villa rappresenta un simbolo di questo cambiamento, un modo per dire addio al passato e accogliere nuove avventure.

    Una vedutra esterna e una delle cucine da sogno

    L’agente immobiliare, Lea Porter, che sta curando la vendita della villa, fornisce info utili sulla casa. Costruita nel 1950 e ristrutturata nel 2009, è situata su due terzi di un acro nel Mandeville Canyon. La proprietà ha un totale di otto camere da letto e 11 bagni ed è un classico dell’architettura californiana. Gli esterni curati fin nel minimo dettaglio rifiniscono l’esterno in mattoni grigi e un lussureggiante cortile verde. Il soggiorno, ideale per ospitare, con camino a legna, un bar, posti a sedere infiniti. La cucina con soffitti alti, finestre dal pavimento al soffitto, pavimenti in piastrelle nere e un’enorme isola. Il cortile, invece, vanta una profonda piscina e una guest house con cantina a temperatura controllata. Lea Porter afferma che la proprietà è ad alta tecnologia e dispone di un sistema di filtraggio di sedimenti e blocchi di carbonio e alcalino per i suoi sistemi di acqua potabile.

    Questa la nuova dimora dell’attrice

    Nel frattempo che vende questa casa, Gwyneth ne sta costruendo un’altra a Montecito, sempre in California, che ospita anche altri residenti famosi come il principe Harry e Meghan Markle, nonché Oprah Winfrey.

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      Lifestyle

      Ridere del proibito: perché l’umorismo nero è più complesso di quanto sembri

      Non solo provocazione: comprendere le battute “estreme” richiede capacità cognitive e stabilità emotiva. Una ricerca della MedUni di Vienna mostra che chi apprezza il dark humor non è più cinico, ma spesso più equilibrato.

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      Ridere del proibito

        L’umorismo che tocca temi difficili — malattia, morte, disastri o fragilità umane — continua a dividere. C’è chi lo considera offensivo e chi, invece, lo vive come una valvola di sfogo. Ma al di là della reazione immediata, le battute “scure” raccontano qualcosa di più profondo sul nostro modo di interpretare la realtà. Lungi dall’essere solo un gioco al limite del buon gusto, il dark humor mette in moto processi cognitivi e emotivi sorprendentemente sofisticati.

        Spesso chi ama questo tipo di comicità viene percepito come provocatore o insensibile. In realtà, comprenderla non è affatto semplice. Occorre riconoscere lo scarto tra un argomento serio e la leggerezza con cui viene trattato, cogliere ironia e sottotesti e riuscire a restare emotivamente distaccati senza ignorare la gravità del tema. È un equilibrio sottile che richiede velocità mentale, capacità di astrazione e controllo emotivo.

        A confermarlo è uno studio pubblicato nel 2017 sulla rivista Cognitive Processing da un gruppo della MedUni di Vienna. I ricercatori, guidati dallo psichiatra Ulrike Willinger, hanno analizzato un campione di 156 adulti e hanno osservato che le persone in grado di comprendere e apprezzare l’umorismo nero ottenevano punteggi più alti nei test di intelligenza verbale e non verbale. Non si tratta di un rapporto di causa-effetto, ma di una correlazione: per decodificare questo tipo di battute servono più passaggi mentali rispetto all’ironia comune.

        Il dato forse più sorprendente riguarda la sfera emotiva. Contrariamente allo stereotipo del cinico cupo, i partecipanti che gradivano maggiormente il dark humor mostravano livelli più bassi di aggressività e meno segnali di stress o umore negativo. Secondo gli studiosi, questa forma di comicità può diventare un modo per prendere distanza da temi dolorosi senza negarli, trasformandoli in uno spazio mentale gestibile.

        In pratica, il cervello compie una doppia operazione: riconosce la serietà dell’argomento, ma allo stesso tempo rielabora la tensione attraverso il gioco linguistico. Non è mancanza di empatia, ma una diversa strategia di regolazione emotiva. Saper ridere del tragico non significa banalizzarlo, bensì guardarlo da un’angolazione meno schiacciante.

        La psicologia sociale lo definisce un meccanismo di coping: uno strumento che permette di affrontare la realtà, non di rimuoverla. Non a caso, in molti contesti difficili — dalla medicina d’emergenza ai corpi di soccorso — l’umorismo nero è frequente e viene utilizzato per alleggerire pressioni che altrimenti risulterebbero insostenibili.

        Certo, resta un linguaggio che va maneggiato con cautela. Il confine tra ironia e offesa dipende dal contesto, dall’intenzione e da chi ascolta. Ma ridurre il dark humor a una semplice provocazione sarebbe ingiusto. È un esercizio mentale che richiede sensibilità e misura, più che spregiudicatezza.

        La prossima volta che una battuta “borderline” vi strapperà un sorriso, potrebbe non essere un segnale di cinismo. Forse, più semplicemente, racconta la vostra capacità di osservare il mondo senza esserne travolti.

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          Lifestyle

          Il ghosting ferisce più di un addio: lo conferma la scienza

          Il ghosting, ormai diffuso nelle relazioni sentimentali e di amicizia, provoca un dolore più duraturo e complesso rispetto a una separazione esplicita. Ecco perché lascia ferite profonde nella psiche di chi lo subisce.

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          ghosting

            Non è solo una sensazione: il ghosting, quella pratica sempre più comune di interrompere ogni comunicazione senza spiegazioni, fa realmente più male di un addio detto in faccia. A dirlo è una nuova ricerca scientifica intitolata The Phantom Pain of Ghosting: Multi-day experiments comparing the reactions to ghosting and rejection, la prima a esaminare in tempo reale gli effetti psicologici del fenomeno.

            Finora gli studi sul ghosting si basavano principalmente su testimonianze o ricordi retrospettivi, ma questa nuova indagine — condotta da un team di psicologi e ricercatori internazionali — ha seguito giorno per giorno le emozioni dei partecipanti, restituendo una fotografia più realistica e precisa del suo impatto emotivo.

            Nel dettaglio, i volontari hanno partecipato a brevi conversazioni quotidiane via chat con un interlocutore (in realtà un collaboratore dello studio). Monitorando costantemente il proprio stato d’animo attraverso questionari giornalieri. A un certo punto dell’esperimento, alcuni partecipanti sono stati improvvisamente ignorati — simulando quindi un episodio di ghosting —, altri hanno ricevuto invece un messaggio di rifiuto chiaro e diretto, mentre un terzo gruppo ha continuato la conversazione normalmente.

            I risultati sono stati sorprendenti. Il ghosting si è rivelato più doloroso e prolungato nel tempo rispetto al rifiuto esplicito. Se quest’ultimo genera una reazione emotiva più intensa ma di breve durata. L’assenza totale di spiegazioni lascia le persone in una condizione di incertezza persistente, fatta di domande senza risposta, dubbi e senso di colpa.

            “La differenza principale – spiega la ricercatrice Alessia Telari, una delle autrici dello studio – è che il ghosting priva la persona della possibilità di chiudere emotivamente la relazione. Entrambe le esperienze mettono in crisi bisogni psicologici fondamentali, come la connessione e l’autostima, ma il silenzio lascia sospesi, impedendo la guarigione.”

            I ricercatori hanno osservato che le persone “ghostate” continuano per giorni a rimuginare sull’accaduto, cercando di dare un senso al silenzio dell’altro. Questo prolungamento dell’incertezza mantiene alto il livello di stress e può incidere negativamente sull’umore, sull’autostima e persino sulla capacità di fidarsi di nuovi partner o amici.

            Un altro aspetto emerso riguarda la percezione morale. Chi subisce il ghosting tende a considerare l’altra persona meno empatica e meno corretta. Mentre chi riceve un rifiuto diretto, pur soffrendo, riconosce più facilmente il rispetto implicito nella sincerità. In altre parole, la franchezza, anche quando fa male, è preferibile all’indifferenza.

            “I dati dimostrano che anche nelle relazioni superficiali la comunicazione conta,” conclude Telari. “Saper gestire la chiusura, anche in ambito digitale, ci rende più consapevoli e rispettosi. Parlare, spiegare e assumersi la responsabilità di dire ‘non voglio continuare’ è un atto di maturità che può evitare molto dolore inutile.”

            Nel mondo iperconnesso dei social e delle app di dating, dove ogni rapporto sembra effimero e sostituibile, il ghosting è diventato quasi una norma. Ma questa ricerca scientifica ricorda che dietro a ogni silenzio c’è una persona reale, con emozioni vere.

            Perciò, la prossima volta che ci si sente tentati di “sparire”, forse vale la pena ricordare che un messaggio di addio. Per quanto difficile da scrivere, può fare meno male di un silenzio che non finisce mai.

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              Lifestyle

              Quando le favole non erano per bambini: l’origine più oscura dei racconti classici

              Dalla Sirenetta di Andersen alla Cenerentola dei Grimm, molte narrazioni oggi edulcorate avevano finali tragici e contenuti crudi. Un viaggio nelle versioni originali che la modernità ha trasformato per renderle più innocue.

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              Quando le favole non erano per bambini

                Oggi le favole popolano libri illustrati e cartoni animati, ma le loro radici affondano in un mondo ben diverso. Prima dell’Ottocento, questi racconti circolavano oralmente tra adulti e servivano a trasmettere regole sociali, paure collettive e avvertimenti sul pericolo. Solo più tardi sono diventati storie destinate ai più piccoli, spesso depurate da sangue, morte e crudeltà.

                Un esempio noto è quello dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm, che nel 1812 pubblicarono la prima raccolta delle Fiabe del focolare. In quell’edizione molte storie erano più violente rispetto alle versioni moderne. In Cenerentola, le sorellastre si tagliano parti del piede per far entrare la scarpetta e, alla fine, vengono punite da uccelli che le accecano. Nel corso delle edizioni successive, i Grimm attenuarono diversi passaggi per adeguarsi alla nascente idea dell’infanzia come fase protetta, un concetto che nel XIX secolo si stava affermando in Europa.

                Un’altra fiaba entrata nell’immaginario collettivo è Cappuccetto Rosso. Nella versione di Charles Perrault del 1697 non arriva alcun cacciatore a salvare la bambina: il lupo la uccide, e la storia si chiude con una morale esplicita rivolta alle giovani, avvertendole dei “lupi” travestiti da gentiluomini. Solo più tardi vari adattamenti introdussero un lieto fine, trasformando un monito sociale in un racconto rassicurante.

                La storia de La bella addormentata contiene elementi ancora più disturbanti nelle sue origini. Nel Pentamerone di Giambattista Basile (1634), la protagonista — chiamata Talia — non viene svegliata da un bacio, ma partorisce due gemelli dopo essere stata violata mentre dorme. Solo in seguito si risveglia, dando vita a una trama molto lontana dall’immagine romantica diffusa nell’Ottocento e poi consolidata dalle versioni più celebri.

                Anche Hans Christian Andersen scrisse finali più tragici di quelli che oggi si raccontano ai bambini. Nella Sirenetta del 1837, la protagonista non sposa il principe: dopo aver rinunciato alla propria voce e sofferto dolori lancinanti per ottenere le gambe umane, si dissolve in schiuma di mare quando il suo amore non viene ricambiato. Andersen non intendeva punire la protagonista, ma raccontare il prezzo del desiderio e del sacrificio.

                Queste trasformazioni non sono casuali. Tra XIX e XX secolo, editori, educatori e successivamente l’industria culturale hanno ripulito le fiabe per adattarle a un pubblico infantile e a valori più rassicuranti. Tuttavia, le versioni originali ricordano che le favole non nascono per addormentare i bambini. Ma per svegliare gli adulti di un tempo: parlavano di morte, abbandono, pericolo e desideri proibiti. Riscoprirle oggi significa capire che, dietro mondi incantati, si celano storie pensate per insegnare a sopravvivere, non solo a sognare.

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