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Agatha Christie, la crocerossina che sapeva uccidere: così la regina del giallo imparò l’arte dei veleni

Durante la Prima guerra mondiale la scrittrice si offrì volontaria come assistente farmacista a Torquay, sviluppando la competenza tossicologica che avrebbe reso immortali i suoi delitti letterari.

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    Tra zollettine di curaro in tasca, manuali di dispensazione e veleni mascherati nella marmellata, Agatha Christie costruì il suo arsenale narrativo durante gli anni in corsia. La sua conoscenza chimica e farmacologica trasformò il giallo in scienza, anticipando metodi e trame che ancora oggi affascinano lettori e studiosi.

    Prima di diventare la regina del giallo, Agatha Christie indossò il grembiule bianco della crocerossina. Siamo nel 1914, a Torquay: la giovane Agatha, spinta dal desiderio di contribuire allo sforzo bellico, si offre volontaria in ospedale. È lì che, tra corsie e dispensari, incontra l’ingrediente segreto che renderà micidiale la sua narrativa: la chimica dei veleni.

    Come racconta la chimica e saggista Kathryn Harkup nel libro V is for Venom (V come Veleno, Bloomsbury), fu proprio l’esperienza da assistente farmacista a fornirle l’arsenale letale per i suoi futuri romanzi. Nel 1917, Agatha supera l’esame da dispensatrice farmaceutica e comincia a maneggiare sostanze che, a seconda delle dosi, possono curare o uccidere. «Molte delle sostanze presenti nei suoi gialli avevano all’epoca un uso medico», ricorda Harkup. Non a caso, nel suo esordio Poirot a Styles Court, Christie cita direttamente il manuale The Art of Dispensing, che studiava in quegli anni.

    A rafforzare la sua curiosità fu l’incontro con un farmacista locale, Mr. P, figura quasi da romanzo. Nella sua autobiografia, Christie lo descrive come un uomo dall’aspetto innocuo ma inquietante, che portava in tasca una zolletta di curaro «perché gli dava un senso di potenza». Da lui imparò dettagli pratici che poi si sarebbero trasformati in omicidi letterari: dalle proprietà della strofantina, veleno di frecce africane usato all’epoca come farmaco cardiaco, fino all’arte di sfruttare la sottile linea che separa la dose terapeutica da quella letale. Tre racconti pubblicati tra il 1937 e il 1958 si basano proprio su questa sostanza.

    La Christie sapeva che un buon avvelenamento letterario non si gioca solo sulla sostanza, ma anche sui tempi di azione. Nel romanzo Polvere negli occhi, ad esempio, un uomo d’affari muore apparentemente dopo una tazza di tè. Ma l’indizio è depistante: il veleno non è nel tè, bensì nella marmellata della colazione, che ha mascherato il gusto amaro della tassina, alcaloide tossico del tasso. In Poirot e i quattro, invece, un indizio in punto di morte — “gelsomino giallo” — si rivela la chiave di un avvelenamento da gelsemina, principio attivo di varietà di Gelsemium mortali che in Inghilterra non sopravvivono, segno che la mano dell’uomo ha colpito.

    Non solo veleni vegetali: la sua fantasia toccò anche batteri e armi biologiche. In Carte in tavola (1936), un pennello da barba contaminato con antrace richiama un incidente reale del 1915. Ma con la diffusione degli antibiotici negli anni ’40, le sue trame batteriologiche svaniscono: troppo facile salvare una vittima con un’iniezione.

    Così, mentre nelle corsie di Torquay iniettava medicinali per salvare vite, nella sua mente Agatha imparava a uccidere persone di carta, trasformando ogni fiala, zolletta o barattolo di marmellata in un potenziale colpo di scena. E la sua penna, come una siringa, non sbagliò mai la dose.

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      Un documentario celebra il Cedro di Calabria: presentato il dossier sulla Citrus medica

      La prima parte del progetto “Melon, Citrus, Cedro? Storia, filologia e simbolismo della Citrus medica” è disponibile sul sito ARSAC. Un percorso tra storia antica, tradizione religiosa, linguistica e memoria agricola, sostenuto dal PSR Calabria e introdotto dal giornalista Paolo Di Giannantonio. L’edizione completa arriverà per Calabria Città Edizioni – Rubbettino Editore.

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        Il cedro non è solo un agrume: per la Calabria è simbolo, radice, materia viva di memoria collettiva. L’ARSAC – Azienda Regionale per lo Sviluppo dell’Agricoltura Calabrese – presenta la prima parte del dossier-documentario “Melon, Citrus, Cedro? Storia, filologia e simbolismo della Citrus medica”, firmato dal Dott. Gianbattista Sollazzo, riconosciuto studioso delle fonti storiche legate al cedro. Un lavoro che accompagna il lettore alle origini di un frutto millenario, ponte tra cultura mediterranea, religione e identità territoriale.

        Tra ricerca storica e radici spirituali
        Il progetto nasce nell’ambito delle “Azioni informative e dimostrative sul territorio regionale”, finanziate dal FEASR – Misura 1, Intervento 1.2.1 del PSR Calabria 2014/2022, con il sostegno dell’Assessore regionale all’Agricoltura, On. Gianluca Gallo, e della Direttrice Generale ARSAC, Dott.ssa Fulvia Michela Caligiuri. Il dossier ricostruisce la storia del cedro attraverso testi classici, linguistica antica e testimonianze religiose, in particolare sul legame tra il cedro-etrog e la tradizione ebraica, di cui la Riviera calabrese rappresenta un punto nevralgico riconosciuto nel mondo.

        Accanto al rigore storico, la pubblicazione porta firme di rilievo. La supervisione scientifica è del Prof. Giuseppe Squillace, Ordinario di Storia Greca dell’Università della Calabria, mentre la prefazione è affidata al giornalista e volto televisivo Paolo Di Giannantonio. Un contributo decisivo arriva anche dal Rabbino Moshe Lazar e da suo figlio Menachem, che hanno autorizzato l’uso delle immagini legate alla raccolta degli etrogim per Sukkot e offerto un prezioso supporto all’inquadramento simbolico e religioso del frutto.

        Verso l’edizione completa
        Il lavoro fotografico è curato da Eugenio Magurno, con materiale aggiuntivo messo a disposizione dalla Dott.ssa Mery Casella (MC Social Marketing). Questa pubblicazione rappresenta solo l’inizio: seguirà infatti un’edizione integrale, edita da Calabria Città Edizioni – Rubbettino Editore, con ulteriori approfondimenti storici, filologici e antropologici.

        La prima parte dell’opera è consultabile sul sito ARSAC, un invito a riscoprire il cedro non solo come prodotto agricolo, ma come simbolo profondo e identitario di una terra che continua a raccontarsi attraverso i suoi frutti e la sua storia millenaria.

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          “Vlad, il figlio del Drago – Le cronache di Dracula”: Mursia porta in libreria l’origine oscura del mito, dove storia, sangue e destino forgiano l’uomo prima del mostro

          Non il vampiro della letteratura ottocentesca, ma il principe guerriero, l’ostaggio del Sultano, il ragazzo cresciuto tra intrighi ottomani e tradimenti valacchi. Con Vlad, il figlio del Drago, Mursia inaugura una saga che riscrive Dracula partendo dalla sua dolorosa umanità, tra battaglie, psicologia e un amore impossibile destinato a segnare il suo fato.

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          Vlad, il figlio del Drago

            L’uomo dietro il mito
            Dimenticate il mantello, i canini e la notte eterna. Vlad, il figlio del Drago – Le cronache di Dracula non insegue il vampiro della fantasia, ma l’uomo che venne prima: Vlad III, principe di Valacchia, condottiero spietato e simbolo di un’epoca in cui potere e sopravvivenza erano sinonimi. Luca Arnaù sceglie la via più ambiziosa: restituire Dracula alla Storia. Il risultato è un romanzo ruvido, immersivo, scolpito nel ferro e nel fuoco delle campagne balcaniche del Quattrocento.

            Ostaggi del Sultano, figli della guerra
            Il racconto si apre nel 1442. Vlad e il fratello Radu vengono consegnati alla corte del sultano Murad II. È l’inizio della prigionia, ma anche della metamorfosi. Nel serraglio ottomano non c’è spazio per l’infanzia: ci sono disciplina, umiliazione, paura, desiderio di riscatto. Arnaù descrive questo crogiolo emotivo con un realismo che brucia, mescolando formazione militare, raffinata crudeltà politica e l’ombra lunga della vendetta. In queste pagine nasce l’Impalatore, temprato dalla ferocia ma guidato da una volontà assoluta: riconquistare il trono e difendere la sua terra, a qualunque costo.

            Sangue, potere e una crepa nel cuore
            Le battaglie sono feroci, mai compiaciute ma densissime: acciaio, fango, disciplina, e la lucidità strategica di un uomo che conosce il nemico perché un tempo ne ha condiviso la tavola. Quando Vlad torna in Valacchia, trova tradimenti, boiardi pronti a venderlo e un regno in bilico tra due imperi. È qui che la narrazione si apre a una dimensione più intima: l’incontro con Leila. Non romanticismo gratuito, ma un’interferenza umana nel destino di un uomo votato alla guerra. Lei non lo addolcisce: lo rivela. Mostra la crepa dove entrano luce e tormento, ricorda che dietro l’acciaio della leggenda c’è ancora carne.

            Arnaù firma un romanzo storico che non cerca redenzione né condanna: racconta. E nel racconto, Vlad torna vivo, inquieto, irriducibile — prima di diventare mito, era un uomo. E proprio per questo fa paura di più.

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              Sonia Bruganelli: «L’aborto a 24 anni, il tradimento, Paolo e io. Vi racconto tutto quello che mi ha cambiato»

              Sonia Bruganelli si mette a nudo come non aveva mai fatto. Lo fa in un’intervista al Corriere della Sera e nel suo nuovo libro Solo quello che rimane – Autobiografia di una lettrice (Sperling & Kupfer), dove ripercorre la sua vita privata, le sue fragilità e il lungo legame con Paolo Bonolis, l’uomo che ha segnato gran parte della sua esistenza.

              Per la prima volta racconta un episodio che ha inciso profondamente nel suo percorso personale: «Avevo ventiquattro anni quando rimasi incinta. La gravidanza non era cercata, ma avrei voluto che Paolo mi dicesse: “Che bello, questo bimbo è frutto del nostro amore”. Invece, non era pronto. L’ho capito, non l’ho accusato e, fra diventare madre senza di lui o avere lui, ho scelto lui. Ma mi sbagliavo. Pensavo che, dopo l’intervento, tutto sarebbe finito lì. Invece, la rabbia per ciò che mi era stato tolto si è fatta sentire nel tempo».

              Quella scelta, confessa oggi, ha segnato il suo modo di vivere l’amore e la maternità: «Da allora ho cercato di riprendermi quello che non avevo avuto la maturità di scegliere. Ho accumulato errori su errori. Essere madre è sempre stato il mio sogno, ma per anni quella ferita ha condizionato tutto il nostro rapporto».

              Il dolore si è intrecciato alla gelosia e alla difficoltà di accettare le differenze: «Quando Paolo parlava dei suoi figli, mi sentivo lacerata. Pensavo che non mi considerasse abbastanza importante da volere un’altra paternità con me. Gli dicevo: “Zitto, mi ferisci”. Era una situazione tossica».

              Poi la confessione più intima: «Ci siamo sposati perché ci amavamo, ma anche per un intreccio di altre ragioni. Dentro quell’amore c’erano rancori, desideri, bisogno di conferme».

              Nel libro, Bruganelli non elude nemmeno il tema dei tradimenti e della fine del matrimonio: «A un certo punto ho capito che dovevamo lasciarci per restare interi. Non per mancanza d’amore, ma per rispetto. Abbiamo vissuto tanto insieme, e tanto ci sarà ancora, in forme diverse. Il perdono è la più alta forma d’amore».

              Una confessione lucida, adulta e senza orpelli, quella di Sonia Bruganelli, che chiude un cerchio ma non un legame: quello con l’uomo che, nel bene e nel male, continua a far parte della sua storia.

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                Sonia Bruganelli si mette a nudo come non aveva mai fatto. Lo fa in un’intervista al Corriere della Sera e nel suo nuovo libro Solo quello che rimane – Autobiografia di una lettrice (Sperling & Kupfer), dove ripercorre la sua vita privata, le sue fragilità e il lungo legame con Paolo Bonolis, l’uomo che ha segnato gran parte della sua esistenza.

                Per la prima volta racconta un episodio che ha inciso profondamente nel suo percorso personale: «Avevo ventiquattro anni quando rimasi incinta. La gravidanza non era cercata, ma avrei voluto che Paolo mi dicesse: “Che bello, questo bimbo è frutto del nostro amore”. Invece, non era pronto. L’ho capito, non l’ho accusato e, fra diventare madre senza di lui o avere lui, ho scelto lui. Ma mi sbagliavo. Pensavo che, dopo l’intervento, tutto sarebbe finito lì. Invece, la rabbia per ciò che mi era stato tolto si è fatta sentire nel tempo».

                Quella scelta, confessa oggi, ha segnato il suo modo di vivere l’amore e la maternità: «Da allora ho cercato di riprendermi quello che non avevo avuto la maturità di scegliere. Ho accumulato errori su errori. Essere madre è sempre stato il mio sogno, ma per anni quella ferita ha condizionato tutto il nostro rapporto».

                Il dolore si è intrecciato alla gelosia e alla difficoltà di accettare le differenze: «Quando Paolo parlava dei suoi figli, mi sentivo lacerata. Pensavo che non mi considerasse abbastanza importante da volere un’altra paternità con me. Gli dicevo: “Zitto, mi ferisci”. Era una situazione tossica».

                Poi la confessione più intima: «Ci siamo sposati perché ci amavamo, ma anche per un intreccio di altre ragioni. Dentro quell’amore c’erano rancori, desideri, bisogno di conferme».

                Nel libro, Bruganelli non elude nemmeno il tema dei tradimenti e della fine del matrimonio: «A un certo punto ho capito che dovevamo lasciarci per restare interi. Non per mancanza d’amore, ma per rispetto. Abbiamo vissuto tanto insieme, e tanto ci sarà ancora, in forme diverse. Il perdono è la più alta forma d’amore».

                Una confessione lucida, adulta e senza orpelli, quella di Sonia Bruganelli, che chiude un cerchio ma non un legame: quello con l’uomo che, nel bene e nel male, continua a far parte della sua storia.

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