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“Mio figlio è un hikikomori”: quando la stanza diventa prigione

La testimonianza di una madre: “All’inizio pensavamo fosse solo una fase, ma poi ha smesso di uscire, andare a scuola, vedere gli amici. È come se avesse staccato la spina con il mondo esterno. E noi genitori ci siamo sentiti impotenti”.

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    “Non voleva più uscire dalla sua stanza. Diceva che là fuori non c’era nulla per lui. Non scuola, non amici, non futuro. Solo un senso opprimente di fallimento.” A parlare è Patrizia (nome di fantasia), madre di un ragazzo di 17 anni che da oltre un anno vive da hikikomori.

    Un termine giapponese, ormai tristemente diffuso anche nel nostro paese, che indica una forma estrema di ritiro sociale volontario. Chi ne soffre smette progressivamente ogni interazione con il mondo esterno: niente scuola, niente lavoro, nessuna socialità. Solo una stanza chiusa, spesso connessa alla rete, dove si rifugiano da ciò che percepiscono come una società ostile o inaccessibile.

    In Giappone il fenomeno è studiato dagli anni ’90, ma in Italia è stato per lungo tempo ignorato. Secondo l’Associazione Hikikomori Italia, i casi stimati nel nostro paese sarebbero oltre 100.000, e in continuo aumento, complice anche la pandemia che ha esasperato l’isolamento. Si tratta prevalentemente di maschi adolescenti, tra i 14 e i 25 anni, anche se non mancano casi tra le ragazze.

    “All’inizio lo scambiavamo per pigrizia, ribellione, o semplice ansia scolastica”, racconta ancora Patrizia. “Abbiamo provato a spronarlo, a imporgli dei limiti, ma peggiorava. Finché non ha più messo piede fuori casa. Non parlava più con nessuno. Si chiudeva a chiave con il telefonino. Mangiare diventava un’impresa.”

    La causa? Non esiste una sola spiegazione, ma un insieme di fattori: pressione scolastica, paura del giudizio, bassa autostima, bullismo, ma anche una società che misura tutto in base alla performance. “Chi non si sente all’altezza finisce per voler sparire”, spiega lo psicoterapeuta Marco Crepaldi, fondatore dell’associazione che si occupa di questi ragazzi e delle loro famiglie.

    Oggi il figlio di Patrizia sta lentamente migliorando. Ha accettato di farsi aiutare da uno psicologo specializzato e ha ripreso contatto, anche solo via messaggio, con alcuni amici. Ma il cammino è lungo. “Abbiamo capito che non serve forzare, ma esserci. Ogni giorno. Anche senza parole.”

    La scuola, i servizi sociali, la sanità mentale pubblica: tutti oggi devono imparare a riconoscere i segnali precoci dell’hikikomori, per evitare che un disagio profondo si trasformi in un isolamento cronico. Perché dietro una porta chiusa non c’è solo silenzio, ma una richiesta d’aiuto che va ascoltata.

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      Lifestyle

      Educazione affettiva a scuola: la Campania apre la strada a una legge nazionale

      Sessualità, parità di genere, salute riproduttiva e prevenzione della violenza entrano nei programmi didattici: un passo avanti verso una scuola che forma cittadini consapevoli, non solo studenti.

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      Educazione affettiva a scuola

        Il Consiglio regionale della Campania ha approvato all’unanimità una proposta di legge che potrebbe segnare una svolta nel panorama educativo italiano: introdurre stabilmente l’educazione affettiva e relazionale nelle scuole di ogni ordine e grado.
        Il testo, ora inviato alla Camera dei Deputati, propone di inserire nei percorsi didattici temi come la sessualità consapevole, la salute riproduttiva, l’uguaglianza di genere e la prevenzione della violenza.

        Un’iniziativa che tocca un terreno complesso, dove per anni si sono incrociati dibattiti ideologici, timori dei genitori e richieste del mondo educativo. Ma questa volta, la Campania sceglie un approccio diverso: non progetti temporanei o facoltativi, bensì un’integrazione strutturale e permanente all’interno dei programmi scolastici.

        Una legge articolata e concreta

        La proposta si compone di quattro articoli principali, accompagnati da un impegno esplicito sulla formazione del personale docente.

        • L’articolo 1 introduce moduli specifici di educazione all’affettività, alla sessualità e alla salute riproduttiva, calibrati in base all’età e al grado di maturità psicofisica degli studenti.
        • L’articolo 2 affida al Ministero dell’Istruzione e del Merito il compito di elaborare, entro 120 giorni, linee guida nazionali, previa consultazione pubblica, per garantire pluralismo culturale e trasparenza.
        • L’articolo 3 stabilisce che ogni scuola inserisca un piano triennale per l’educazione affettiva e al rispetto delle differenze nel proprio PTOF (Piano Triennale dell’Offerta Formativa).
        • L’articolo 4 prevede informazioni chiare e accessibili per le famiglie riguardo ai contenuti e alle modalità dei percorsi educativi.

        Il testo prevede inoltre che i docenti ricevano formazione specifica su affettività, sessualità, contrasto alla violenza e alle discriminazioni, affinché i contenuti siano trattati con competenza e sensibilità.

        Oltre la norma: una sfida culturale

        La proposta, nata a livello regionale, è ora all’esame della Commissione Cultura della Camera. Se approvata, diventerebbe una delle prime leggi in Italia a sancire per legge l’obbligatorietà dell’educazione affettiva.
        Un cambiamento non solo normativo, ma culturale. L’obiettivo è riconoscere alla scuola un ruolo attivo nella formazione relazionale delle nuove generazioni: insegnare il rispetto reciproco, la gestione delle emozioni, la consapevolezza del proprio corpo e dei propri limiti.

        Gli esperti sottolineano che tali percorsi possono contribuire a ridurre fenomeni di bullismo, discriminazione e violenza di genere, oggi in crescita tra gli adolescenti. Secondo dati ISTAT e Save the Children, circa un ragazzo su quattro dichiara di aver assistito a episodi di violenza verbale o fisica in ambito scolastico, e oltre il 50% delle ragazze tra i 14 e i 18 anni riferisce di aver subito commenti sessisti o molestie online.

        Un dibattito aperto

        Come ogni tema che tocca l’educazione, anche questo divide. C’è chi teme che parlare di sessualità e affettività a scuola significhi “sottrarre” alle famiglie un ruolo educativo primario. Ma la legge campana, con la sua attenzione al coinvolgimento dei genitori e al rispetto dell’età degli alunni, punta a costruire un dialogo condiviso e non a sostituire i valori familiari.

        “Educare all’affettività non significa parlare di sesso, ma insegnare il rispetto e la consapevolezza delle proprie emozioni,” ha sottolineato uno dei promotori del testo. “È una forma di prevenzione culturale contro la violenza e le discriminazioni.”

        Il futuro dell’educazione relazionale

        Se la proposta dovesse superare l’esame parlamentare, potrebbe diventare un modello per altre regioni e un punto di svolta per la scuola italiana, che da anni chiede strumenti per affrontare con competenza i temi dell’emotività, della parità e della convivenza.

        In un momento in cui crescono i casi di violenza giovanile e disagio psicologico tra gli adolescenti, l’educazione affettiva appare non più come un optional, ma come un bisogno educativo primario.
        Perché imparare a conoscere se stessi e gli altri, in fondo, è la base per ogni forma di società civile.

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          Lifestyle

          Dopo il lieto fine: come la nascita di un figlio mette alla prova l’amore

          Dalla stanchezza alla ridefinizione dei ruoli, dal calo del desiderio alle nuove paure: perché la nascita di un figlio può mettere in crisi il legame di coppia e come affrontare il cambiamento insieme, senza perdersi.

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          Dopo il lieto fine

            Siamo abituati a vedere, nelle favole, la storia chiudersi con “e vissero felici e contenti”. Ma nessuno racconta cosa accade dopo. Nella vita reale, il “dopo” comincia proprio quando nasce un figlio. L’immagine della maternità e della paternità come momenti di pura felicità è radicata nella cultura collettiva, eppure dietro il sorriso dei neogenitori si nasconde spesso un terremoto emotivo.
            La coppia, che fino a poco prima si definiva attraverso l’intimità, la libertà e la reciprocità, si trova improvvisamente a dover rinegoziare tutto: tempi, spazi, desideri e priorità. Secondo diversi studi internazionali, la soddisfazione coniugale tende a diminuire sensibilmente nel primo anno di vita del bambino — un cambiamento fisiologico, ma non per questo meno doloroso.

            Il dopo parto: un cambiamento per entrambi

            Il corpo e la mente della madre attraversano una trasformazione radicale. Gli ormoni, la fatica e la pressione sociale del “essere una buona madre” possono generare senso di inadeguatezza, ansia o malinconia post partum. Ma anche il partner vive un suo cambiamento, spesso invisibile. Il senso di esclusione, la paura di non essere all’altezza o l’incertezza nel gestire il nuovo equilibrio familiare possono alimentare tensioni e incomprensioni.

            “Il primo figlio segna la nascita di tre entità: il bambino, la madre e il padre come genitori”, spiega la psicoterapeuta e perinatal coach Silvia Vegetti Finzi. “In questo passaggio, la coppia deve imparare a riconoscersi in ruoli nuovi, e ciò richiede tempo e dialogo.”

            Quando la coppia smette di essere “noi”

            Molte crisi post nascita derivano da un errore di prospettiva: credere che tutto tornerà come prima. Ma non è così. Il tempo condiviso si riduce, la sessualità cambia, e la gestione delle responsabilità può far emergere vecchie fragilità mai affrontate.
            Il sonno interrotto, le giornate scandite dai bisogni del neonato e la costante stanchezza logorano la pazienza e la comunicazione. A volte uno dei due si sente invisibile, mentre l’altro sommerso dalle aspettative.

            Gli esperti parlano di parental burnout, un esaurimento emotivo legato al ruolo genitoriale. Quando non si riesce più a ritagliarsi spazi personali o di coppia, la relazione rischia di trasformarsi in una partnership organizzativa, fatta di liste e turni, ma povera di intimità.

            Come affrontare la crisi senza rompersi

            Il primo passo è riconoscere che la crisi non è un fallimento, ma una tappa naturale dell’adattamento.
            Gli psicologi familiari suggeriscono alcune strategie semplici ma efficaci:

            • Comunicare senza giudizio. Dire ciò che si prova, anche la stanchezza o la frustrazione, permette di alleggerire il peso emotivo e di evitare incomprensioni.
            • Chiedere aiuto. Coinvolgere i nonni, amici o professionisti non significa essere deboli, ma prendersi cura del proprio equilibrio.
            • Ritrovare la coppia. Bastano piccoli gesti — una cena insieme, una passeggiata, un abbraccio consapevole — per ricordare che prima di essere genitori si è partner.
            • Rispettare i tempi. Il desiderio e la complicità possono diminuire, ma con ascolto e pazienza tornano a fiorire.

            Il ruolo della società

            Oggi si parla sempre più di “salute mentale perinatale”: una dimensione che coinvolge entrambi i genitori e che richiede supporto culturale e istituzionale. In Italia, progetti come Mamme in Cerchio o Nascita e Relazione offrono spazi di ascolto e gruppi di sostegno per affrontare la genitorialità in modo consapevole e condiviso.

            Perché se la nascita di un figlio cambia tutto, non significa che debba rompere qualcosa. Può essere, al contrario, un’occasione per riscoprire una forma d’amore più matura, che cresce insieme al bambino — e che, proprio come lui, ha bisogno di essere accudita ogni giorno.

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              Arte e mostre

              Regina Rania tra piramidi e couture: fuochi, stelle e un Dolce&Gabbana da favola per l’inaugurazione del Grand Egyptian Museum al Cairo

              Il Cairo accende i riflettori sul Grand Egyptian Museum, maxi tempio dell’antichità e nuova vetrina geopolitica del Paese. Alla serata inaugurale, una parata di reali e teste coronate: regina Rania in abito couture, il re Felipe di Spagna e il re Philippe del Belgio applaudono fuochi, performance e acrobati. L’Egitto prova a rilanciare immagine e turismo puntando su cultura, glamour e soft power.

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                Fuochi d’artificio che illuminano il deserto, fasci di luce che baciano le piramidi, coreografie tra danza contemporanea e folklore faraonico. Il Cairo ha scelto l’effetto “meraviglia totale” per l’inaugurazione del Grand Egyptian Museum, il colosso culturale affacciato su Giza destinato a custodire, tra gli altri tesori, l’intero corredo di Tutankhamon. Una notte spettacolare, studiata per restare nella memoria e — dettaglio non secondario — nei feed del mondo.

                Tra gli ospiti, la più fotografata è lei: la regina Rania di Giordania. Eleganza magnetica, sorriso calibrato e un abito Dolce&Gabbana che sembrava cucito per incarnare l’idea stessa di regalità mediorientale moderna. Linee pulite, luminosità couture, il giusto equilibrio tra tradizione e glamour internazionale. Il suo ingresso ha cristallizzato gli obiettivi e, per un istante, quasi rubato la scena alla maestosa scalinata del museo.

                Accanto a lei, altri monarchi di peso. Re Felipe VI di Spagna, impeccabile accanto alle piramidi illuminate. Re Philippe del Belgio, discreto ma presente in prima fila. Un parterre che sa di diplomazia soft, di nuove alleanze e di cultura come chiave geopolitica. Perché qui non si parlava solo di statue millenarie o reperti inestimabili: questa è una mossa d’immagine potente, un messaggio al turismo globale e al panorama internazionale.

                L’Egitto punta a riposizionarsi al centro della mappa culturale e turistica mondiale, e lo fa con una struttura monumentale e una regia scenica che sembra uscita da un colossal hollywoodiano. Luci che disegnano i profili di Giza come fossero un set, musiche epiche, troupe di ballerini e performer. Una celebrazione dell’identità faraonica in versione XXI secolo, dove archeologia e spettacolo convivono senza imbarazzi.

                In platea diplomatici, invitati selezionati, intellettuali e influencer culturali. Tutti pronti a immortalare la notte in cui l’Egitto ha deciso di raccontarsi non solo attraverso i suoi tesori antichi, ma anche attraverso stile, presenza internazionale e una modernità rivendicata.

                E mentre il finale esplodeva in un tripudio di fuochi e applausi, una cosa appariva chiara: il Grand Egyptian Museum non vuole essere solo un museo, ma un simbolo. Un ponte tra passato e futuro. E, giudicando dagli sguardi incantati dei presenti — e dall’impeccabile apparizione di Rania — la missione, almeno per una notte, è riuscita.

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