Società
Abitare su un albero? Si può fare, a patto che…
Tra burocrazia e vincoli edilizi, l’esperienza di Gabriele Ghio racconta le difficoltà di chi vuole trasformare un rifugio tra i rami in una vera residenza.

Diciamolo chi non ha mai sognato di vivere in una casa sull’albero? Tutti ci abbiamo pensato primo o poi. Quando eravamo bambini o da adulti quando sono arrivati i bambini. Un rifugio sospeso nel verde, lontano dal caos, immerso nella natura e nel silenzio. All’apparenza sembra facile basta aver un buon progetto e individuare un albero all’altezza. Ma c’è di più. Bisogna tenere conto di molte avvertenze, cavilli, permessi… Fare diventare questo sogno in realtà permanente è tutt’altro che semplice.
Le leggi urbanistiche trattano le case sugli alberi come normali costruzioni al suolo, imponendo vincoli, autorizzazioni e permessi che spesso scoraggiano chi vorrebbe sperimentare questo stile di vita. Quindi addio Tarzan…? No, c’è chi ce l’ha fatta. E’ il caso di Gabriele Ghio. Scrittore e appassionato di vita nei boschi, ha vissuto per cinque anni in una casa costruita su un ciliegio. Poi ha dovuto smontarla, e da allora cerca disperatamente un terreno dove costruire una nuova abitazione tra i rami, con un vero riconoscimento residenziale. Il problema? La burocrazia, che cambia da Comune a Comune e lascia spesso senza risposte chi tenta di ottenere l’autorizzazione.
Vuoi costruire una casa su un albero…? Ecco come fare
Quali permessi servono per abitare su un albero? In Italia, costruire una casa sull’albero non è illegale, ma richiede il rispetto di una serie di regole. Per la legge, una casa sospesa tra i rami è comunque un edificio e, come tale, deve sottostare alle normative urbanistiche ed edilizie. Per costruirla è spesso necessario ottenere il permesso di costruire oppure presentare una Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA). Inoltre, bisogna verificare eventuali vincoli paesaggistici, ambientali, sismici o archeologici, che potrebbero bloccare il progetto. Il progettista ha anche la responsabilità della sicurezza: l’incastro tra la casa e l’albero deve essere studiato con attenzione, evitando di danneggiare la pianta e garantendo la stabilità della struttura.
…ma così ci passa la fantasia!
Se Gabriele Ghio ha dovuto ripiegare su una casa in campagna, c’è chi ha già trovato il modo di abitare tra i rami. In Piemonte esiste un villaggio segreto di case sull’albero, sospese a sei metri dal suolo e costruite con tecniche di bioedilizia. Si trova nel canavese tra i monti Pelati e Castellamonte in provincia di Torino. Le abitazioni hanno tutti i comfort, dal Wi-Fi alla televisione, e sono collegate da ponticelli e passerelle di legno. Gli abitanti sono persone comuni, lavorano in città ma preferiscono trascorrere le notti immersi nella natura, lontano dal caos urbano.
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Società
Treccani cancella il “vu cumprà”: la lingua inchinata al politicamente corretto
Dal trash televisivo ai dizionari seri, dai venditori in spiaggia alla censura postuma: “vu cumprà” sparisce dal lessico accettabile. Ma chi cancella una parola, cosa sta davvero cercando di rimuovere?

C’era un tempo in cui il “vu cumprà” era ovunque. In spiaggia, in tivù, nei cinepanettoni e persino nei dizionari. Una formula nata dal basso, romagnola d’origine, per descrivere i venditori ambulanti — quasi sempre neri — che offrivano occhiali tarocchi, collanine e borse improbabili tra un pedalò e un cocco fresco. Poi, d’improvviso, il silenzio. La parola è diventata impronunciabile. E ora la Treccani ne firma il necrologio.
A decretarne la morte è un saggio di Rocco Luigi Nichil, pubblicato sulla rivista Lingua Italiana. Lì, con tono accademico e penna raffinata, si certifica che “vu cumprà” è un’espressione razzista, figlia di un’Italia che non c’è più — o che finge di non esserci più. E se un tempo era nel Devoto-Oli con la definizione “venditore ambulante, generalmente negro”, oggi basta quel “generalmente” per rischiare il linciaggio social.
Negli anni Ottanta, “vu cumprà” era sulla bocca di tutti. Antonio Ricci ci costruì sopra un personaggio trash: Mazouz M’ Barek, alias Patrick. Gianfranco D’Angelo ne fece una maschera nel film Rimini Rimini. Era folklore, era satira, era Italia. Poi arrivò la stretta morale. Il termine scomparve dai media, sostituito da silenzi imbarazzati e metafore sghembe: oggi c’è il “bangla”, il “rosario”, il “paki”. Più sottili, meno ufficiali, ma non meno razzisti.
Il problema, però, non è la parola. È il disagio che ci trasciniamo dietro. È l’idea che basti cancellare un termine per salvarsi l’anima. Ma togliere “vu cumprà” dai dizionari non ci rende più giusti. Solo più ipocriti. Perché alla fine, sulle spiagge di oggi come su quelle dell’86, continuiamo a dire no con la testa e sì con cinque euro. E a parlare male, anche quando facciamo finta di aver imparato a farlo bene.
Società
“Tu gusti is meglio che uan”? Oddio mi si è ristretto il Maxibon
Una lettera virale a Stefano Accorsi riaccende i ricordi di un’intera generazione e denuncia con ironia la shrinkflation che ha colpito anche il gelato più iconico degli anni ’90.

C’era una volta il Maxibon, quello vero, quello che ti faceva saltare la merenda e pure la cena. Una sleppa di gelato che ti si scioglieva tra le mani e ti faceva sentire parte di una generazione che aveva ancora sogni grandi. E gelati ancora più grandi. Oggi, invece, ti ritrovi con un “mini bon” che sembra uscito da una confezione di campioncini da supermercato. A lanciare il grido di dolore (e di fame) è stato Emiliano Miliucci, autore di una lettera aperta diventata virale, indirizzata a Stefano Accorsi, volto indimenticabile dello spot cult “Tu gusti is meglio che uan”.
Nel suo post, Miliucci racconta con ironia e un pizzico di malinconia l’esperienza di aver comprato un Maxibon nel 2025. Per scoprire che il gelato della sua adolescenza si è rimpicciolito fino a diventare quasi simbolico. “Quando ho aperto sto gelato m’è preso un coccolone”, scrive, “non era un Maxibon, era un mini bon. Tu gusti che non ne fanno manco uan”. E con quella frase, ha colpito dritto al cuore di tutti i nati negli anni ’80 e ’90, quelli cresciuti con Ambra, Max Pezzali. E non solo. Anche la Pausini de La solitudine e, ovviamente, con Accorsi che faceva il provolone con due ragazze in spiaggia.
Il post non è solo una lamentela sul gelato che si è ristretto, ma una riflessione amara e divertente sulla shrinkflation e su come, nel tempo, ci abbiano tolto un po’ tutto. Il welfare, la sanità pubblica, le certezze… e pure i gelati. Ma almeno, dice Miliucci, “il gelato avrebbero potuto lasciarcelo”. Accorsi, oggi impegnato sul set del nuovo film di Gabriele Muccino, ha raccontato in passato che quello spot fu il primo momento in cui venne riconosciuto per strada. “Mi hanno fermato urlando il nome del gelato”, ha detto a Verissimo, ricordando anche di averne mangiati così tanti durante le riprese da ritrovarsi con i denti in fiamme.
A 54 anni oggi Accorsi sfoggia un fisico invidiabile e una carriera solida, ma per molti resterà per sempre il ragazzo del Maxibon. E forse è proprio questo il punto: mentre tutto cambia, si restringe e si complica, abbiamo bisogno di simboli che ci riportino a un tempo in cui bastava un gelato per sentirsi felici. Anche se ora quel gelato è diventato più piccolo, il ricordo resta gigante.
Società
Le estati in VHS: quando il mare sapeva di “Baywatch” e merendine al cioccolato fuso
Altro che resort, droni e foto in HD: c’era un tempo in cui l’estate si consumava tra spot Martini, videocassette ingiallite e pomeriggi passati davanti a “Supercar”. E il massimo dell’esotico era Rimini. Benvenuti nell’era delle estati in VHS.

C’è stato un tempo — né troppo lontano né abbastanza vicino da essere vintage. In cui l’estate non passava sui social ma in VHS, con l’audio frusciante e l’immagine sgranata. Erano le estati degli anni ’80 e ’90. Quelle del ghiacciolo “tropicale” e dei costumi fluo, delle spiagge affollate da famiglie intere e delle televisioni accese dal mattino al tramonto.
Era il tempo di “Baywatch” a ora di pranzo, con Pamela Anderson che correva al rallentatore. Mentre tu, dodicenne in braghette, capivi vagamente che qualcosa stava cambiando. Le pubblicità erano più martellanti della risacca: Martini, Algida, Fanta. Ogni spot una promessa di felicità semplice, da consumare sotto il sole con una cannuccia fluo.
Le vacanze al mare si facevano rigorosamente in macchina, con il sedile che scottava. La cartina stradale appiccicata alla gamba sudata del papà e la radio che gracchiava “Gioca Jouer”. La meta più ambita? Rimini, Jesolo, Cecina, al massimo Bibione: nomi che sembravano esotici solo perché c’era il mare.
E poi, loro: le merendine. Il Buondì sciolto nella borsa frigo, il Tegolino che diventava una tavoletta di cioccolato caldo e quella voglia di un Calippo che, nella memoria, ha lo stesso peso emozionale del primo bacio.
A casa, mentre gli adulti russavano nella penombra dei ventilatori, noi guardavamo cartoni giapponesi e repliche dei cinepanettoni. “Vacanze di Natale”, “Yattaman”, “Fantozzi in Paradiso”. L’estate era anche questo: una VHS registrata da Canale 5, con l’inizio tagliato e un nastro che saltava proprio sulla battuta buona.
Sulla spiaggia si giocava a racchettoni, si facevano buche profonde come trincee e si sfoggiavano infradito Puma e occhiali Carrera. Il mito da imitare? I paninari: ciuffo impomatato, cintura El Charro e Walkman sempre acceso. Con quella certezza incrollabile che bastasse un “yo bello!” per diventare qualcuno.
Oggi l’estate è smart, iperconnessa e fotogenica. Ma c’è una generazione intera che, chiudendo gli occhi, sente ancora il fruscio della cassetta che parte, il rumore del bagnasciuga in lontananza e l’odore inconfondibile della crema solare al cocco del discount.
E se non sai di cosa parliamo, forse sei nato dopo il DVD. O forse non hai mai visto Baywatch mangiando una Fiesta mezza fusa. Ed è un gran peccato.
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