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Società

Don Antonio Mazzi: «Io, più padre che prete. Pietro Maso la mia più grande delusione»

Dopo quarant’anni di attività accanto ai giovani fragili e dimenticati, don Antonio Mazzi racconta la nascita di Exodus, un sogno diventato realtà che continua a vivere anche nelle delusioni. Tra queste, quella di Pietro Maso, figura che rappresenta il fallimento più doloroso per il sacerdote, che si definisce «più padre che prete».

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    Don Antonio Mazzi, a 95 anni, non si ferma. Padre, educatore e fondatore di Exodus, una delle realtà più importanti nel campo dell’assistenza ai giovani in difficoltà, continua a essere un punto di riferimento per chi si trova ai margini della società. Eppure, nonostante il suo instancabile impegno, Mazzi non si definisce un prete nel senso tradizionale del termine.

    “Sono più padre che prete”
    «Sono un caratteriale. E mi sono sempre sentito più un padre che un prete. Anche perché io i preti li odiavo», racconta don Mazzi, con il tono diretto che lo ha sempre contraddistinto. La sua missione tra i ragazzi non è mai stata una scelta legata alla vocazione sacerdotale in senso stretto, ma piuttosto il frutto di una profonda empatia verso chi soffre. «Se facessi il prete non sarei lì, avrei da dir messa da una parte, confessare dall’altra… Invece, con ‘sti ragazzi è una bellezza. È gente che ha sofferto».

    Il cammino di don Mazzi con i giovani è iniziato 40 anni fa, quando ha fondato Exodus, una comunità per tossicodipendenti nata al Parco Lambro di Milano nel 1984. Oggi, Exodus è presente in oltre 40 centri in Italia, offrendo assistenza a migliaia di giovani attraverso programmi di prevenzione e riabilitazione. Il punto culminante di questa esperienza è il Capitolo di Exodus, un raduno annuale che coinvolge ragazzi, educatori e volontari. «È un’occasione per stare tutti insieme, a guardarci negli occhi», spiega Mazzi, sottolineando l’importanza della condivisione e del contatto umano.

    Quaranta come simbolo di rinascita
    Il numero quaranta è particolarmente significativo per don Mazzi: «Quaranta come gli anni in cui gli ebrei vagarono nel deserto per salvarsi, quaranta come i giorni di digiuno di Gesù». Exodus, infatti, non è solo una comunità, ma un vero e proprio viaggio salvifico che si rinnova ogni giorno attraverso l’impegno verso i giovani più fragili. Nato per rispondere all’emergenza della tossicodipendenza, oggi Exodus è diventato un rifugio per ogni tipo di fragilità giovanile, inclusa quella criminale.

    Un cammino che ha conosciuto il dolore
    Ma il cammino di don Mazzi non è stato privo di dolori e delusioni. Nel corso degli anni, molti dei suoi ragazzi sono morti, alcuni sono tornati sulle strade da cui cercavano di scappare, e altri hanno vanificato il supporto ricevuto. «Chi soffre va sempre rispettato, anche se ha sbagliato», è uno dei principi cardine della filosofia di don Mazzi, che ha sempre difeso chi è caduto, ma ha cercato di rialzarsi. Tuttavia, ammette che non tutti hanno saputo cogliere la mano tesa.

    Tra le sue più grandi delusioni, spicca Pietro Maso, l’uomo che nel 1991 uccise i genitori a Montecchia di Crosara, vicino Verona. «C’è chi mi ha deluso. E la più grande delusione per me è Pietro Maso. Non so se abbia un cuore…», confessa don Mazzi. Nonostante gli sforzi e la fiducia riposta in lui, Maso ha rappresentato per il sacerdote una sconfitta personale, un’incapacità di fare breccia in un’anima tanto tormentata. Questo episodio rimane un nodo irrisolto nella lunga carriera di don Mazzi, ma non è bastato a spegnere il suo desiderio di aiutare gli altri.

    L’origine della sua vocazione
    Don Mazzi ha costruito la sua carriera sul rapporto con i giovani, ma la sua scelta di diventare sacerdote è nata quasi per caso. Cresciuto senza padre, morto quando lui aveva solo 13 mesi, don Mazzi ricorda il momento in cui decise di dedicarsi ai ragazzi: «Pensavo di essere stato sfortunato per aver perso mio padre, ma poi ho incontrato quei bambini che avevano perso tutta la famiglia nell’alluvione del Po. È stato lì che ho detto “gli faccio io da padre”».

    Da quel momento, la strada di Mazzi è stata chiara. Dopo gli inizi con i ragazzi disabili, è stato chiamato a Milano da don Luigi Maria Verzè, che gli affidò un centro per giovani disabili vicino al Parco Lambro. È proprio in quel contesto che Mazzi ha scoperto la piaga della tossicodipendenza e ha dato vita a Exodus, una comunità mobile e itinerante che, nel marzo del 1985, partì con la prima carovana di 13 ragazzi e 5 educatori. Da allora, Exodus non ha mai smesso di crescere.

    Un futuro che continua oltre don Mazzi
    Don Mazzi sa che il tempo è contro di lui, ma non ha paura di lasciare il testimone ai suoi “figli spirituali”. «Purtroppo i prossimi 40 anni di Exodus li vedrò dall’altra parte. Ma so che i miei ragazzi faranno bene», afferma con serenità. Nonostante le delusioni, i dolori e le difficoltà, don Mazzi continua a credere nella forza dei giovani e nella possibilità di riscatto.

    Il suo esodo verso l’umano, come lo definisce lui stesso, non è finito. È un viaggio che continua, nonostante tutto, perché, come dice don Mazzi: «Chi ha sofferto va sempre rispettato, anche quando sbaglia».

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      Dilaga il fenomeno dei licenziamenti ad personam fatti via mail o via Quit-Tok

      Dilaga il fenomeno dei licenziamenti ad personam fatti va mail o via Quit Tok
      I licenziamenti sono sempre difficili da superare. Non vanno giù facilmente. Sembrano dei soprusi. Delle ingiustizie. Soprattutto per la Generazione Z.

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        I licenziamenti sono sempre difficili da superare. Non vanno giù facilmente. Sembrano dei soprusi. Delle ingiustizie. Soprattutto per la Generazione Z.

        La nuova moda per i ragazzi che vengono licenziati è di prendersi una rivincita attraverso i social. Ovvero pubblicare il momento in cui vengono cacciati per dimostrare il loro disappunto verso l’azienda. E soprattutto mettere in guardia i proprie coetanei sui modi utilizzati dalla stessa per darti il ben servizio. Ma i capi del personale si stanno facendo furbi. Ovvero hanno iniziato a licenziare via mail. La reputazione è salva.

        Mi licenzi? Lo racconto sui social

        Per i ragazzi della Generazione Z il licenziamento va visto non più come un evento di cui vergognarsi. Tutt’altro. Può diventare una bandiera. Un episodio importante da condividere a volte anche su uno dei social più diffusi come Tik Tok. Secondo una inchiesta effettuata dal quotidiano britannico Financial Times si tratterebbe di un vero e proprio fenomeno: Quit-Tok. Filmati, pubblicati con titoli come “lascia il mio lavoro con me” oppure con l’hashtag #layoffseason, fanno parte di questa tendenza che punta a condividere pubblicamente quella che in altri tempi sarebbe stata una comunicazione privata.

        Rendere pubbliche alcune fasi della propria vita lavorativa

        Le dimissioni pubbliche sono diventate un successo virale. Fa audience, crea follower. Inoltre molti giovani manifestano la loro insoddisfazione rispetto al proprio incarico e alcune incongruenze dell’organizzazione o dei settori a cui sono stati assegnati. Secondo l’indagine del FT tra i video postati nell’ultimo giorno di lavoro quelle che usano di più questo tipo di comunicazione sono le ragazze. Con le lacrime agli occhi si riprendono dopo aver appena letto una mail in cui il capo informa che si è stati licenziati oppure che ci si sta dimettendo dal proprio ruolo.

        Ma i manager si stanno facendo furbi

        I lavoratori che realizzano le clip si filmano durante le videochiamate e i manager dall’altra parte non sanno di essere registrati. Molti sono all’interno del luogo di lavoro. Una clip di nove secondi, riportato nell’inchiesta del FT, mostra un ristorante McDonald’s vuoto, presumibilmente dopo che tutti i dipendenti sono stati licenziati in massa. Naturalmente il rischio che i dipendenti possano essere contestati per riprese nascoste esiste. Ma la maggior parte degli utenti di TikTok non sembra preoccuparsene. Non teme azioni legali della propria azienda. Ribattono che è utile mostrare risposte personali, spesso emotive, per mostrare la loro “autenticità” e magari esorcizzare ansia e stress. E i primi effetti di questa nuova moda si stanno già facendo sentire soprattutto nelle aziende tecnologiche.

        E le Risorse Umane vanno al contrattacco

        Sia i responsabili delle risorse umane che i dirigenti aziendali, ma anche avvocati specializzati in diritto del lavoro e le società di ricollocamento non amano diventare il bersaglio di un TikTok virale. Per questo si stanno organizzando per evitare le brutte figure e cadere in tranelli che possono mettere in dubbio la propria reputazione. Per questo utilizzano sempre più spesso la mail o gli sms. Sarà corretto?

        Cosa dicono gli avvocati di Quit-Tok

        Secondo lo studio legale Toffoletto De Luca Tamajo la pratica di licenziare il dipendente utilizzando un sms, un social o via mail è legittimo. Per il licenziamento notificato via mail la Corte di Cassazione ha spiegato che il requisito della comunicazione per iscritto del licenziamento deve ritenersi assolto “con qualunque modalità che comporti la trasmissione al destinatario del documento scritto nella sua materialità”. Quindi anche mediante invio di una e-mail.

        Nel caso dell’uso di WhatsApp il Tribunale di Catania ha stabilito che il messaggio WhatsApp è un documento informatico imputato con certezza al datore di lavoro e dal quale “discende l’inequivoca volontà di licenziare comunicata efficacemente al dipendente.” Nel caso di un sms la Corte d’Appello di Firenze ha ritenuto lo strumento formalmente legittimo per la notifica del licenziamento. Naturalmente in tutti i casi il dipendente può impugnare il licenziamento e fare ricorso nelle sedi competenti.

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          Società

          Che c’entra il “sommo poeta” Pirandello con OnlyFans? Chiedi alla maestra

          Il caso di Elena Maranga, licenziata per il suo profilo hot, accende il dibattito: chi è più immorale, lei o chi ha divulgato le sue immagini?

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            C’era una volta una maestra che, oltre alla lavagna, aveva un profilo su OnlyFans. Sì, perché in Italia insegnare è una vocazione, ma il conto in banca non sembra condividere l’entusiasmo. E così Elena Maranga, dopo un periodo di stipendio da fame, ha deciso di mettere a frutto la sua immagine in un contesto decisamente lontano dai banchi di scuola. Tutto normale, o almeno così sembrava, fino a quando un genitore – non proprio mosso da nobili intenti – ha pagato l’abbonamento per accedere ai suoi contenuti. Invece di limitarsi alla curiosità personale, ha pensato bene di diffondere le immagini. Risultato? Bufera, indignazione, e licenziamento. E Pirandello…? Calma!

            Alla fine chi è immorale?

            E’ a questo punto che sorge il dilemma pirandelliano che la stessa Maranga ha sollevato: “Chi è immorale? Io che ho aperto un profilo su OnlyFans o il papà di un bambino della mia scuola che pagando è andato su OnlyFans e ha divulgato le immagini?”. La maestra non si arrende e ha denunciato il papà per diffamazione. Ma non solo. Ha fatto notare un dettaglio non di poco conto. Ha sostenuto che in questo Paese di poeti, santi e VIP, un’insegnante guadagna poco più di 20mila euro lordi l’anno, con cui si fatica ad arrivare a fine mese. A meno che non ci siano genitori e nonni generosi o, appunto, un profilo su OnlyFans. Se Pirandello fosse ancora tra noi, probabilmente tirerebbe fuori “Uno, nessuno e centomila” e chiederebbe a tutti di riflettere su questa doppia faccia della moralità. Da una parte, una donna che cerca un’alternativa per guadagnare, dall’altra chi grida allo scandalo mentre è lui stesso il primo a sbirciare.

            Il poeta e la maestra

            Alla fine, Maranga ha voltato pagina: eventi, serate in discoteca e forse un reality in arrivo. Perché, si sa, in Italia la via per il successo è fatta di polemiche e un buon uso del momento mediatico. Insomma un gran bel minestrone all’italiana fatto di moralità, ipocrisia, stipendi ridicoli e indignazione selettiva condito con un pizzico di OnlyFans. E Pirandello? Lui avrebbe osservato tutto con un sorriso enigmatico, chiedendosi chi sia davvero il piccolo uomo in questa storia.

            Pirandello e OnlyFans realtà e apparenza

            Premio Nobel per la Letteratura nel 1934, il “sommo”, nel corso della sua storia ha esplorato la frammentazione dell’identità e dell’ipocrisia sociale, mettendo in discussione il concetto di realtà e di apparenza. Il riferimento nasce proprio dalla sua riflessione sull’identità: “Io sono colei che mi si crede“, potrebbe dire oggi la Maranga, citando il suo pensiero. Pirandello ha sempre sottolineato come le persone vengano giudicate in base all’immagine che gli altri si fanno di loro, piuttosto che sulla loro reale essenza. La maestra, licenziata per la sua attività online, solleva infatti il tema della percezione sociale e del giudizio pubblico. Viene definita “immorale” per il suo profilo. Ma allo stesso tempo chi ha divulgato le sue immagini, violando la sua privacy, non viene considerato altrettanto discutibile.

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              Maturità? Anche i vip hanno sudato (e a volte anche fallito)

              Da Fiorello a Margherita Hack, passando per Alberto Angela e Giulio Andreotti: quando una bocciatura non ha fermato il successo.

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                L’esame di maturità è uno dei momenti più temuti dagli studenti italiani. L’ansia cresce, i ripassi si fanno frenetici e il timore di non farcela aleggia nell’aria. Ma se c’è una cosa che la storia dimostra è che una bocciatura alla maturità non è la fine del mondo. Anzi, può persino essere l’inizio di qualcosa di grande.

                Prendiamo come esempio l’indimenticabile Tullio De Mauro, uno dei più importanti linguisti, lessicografo e saggista italiano, ex ministro della pubblica istruzione. Da ragazzo De Mauro fu bocciato all’esame di licenza ginnasiale, proprio in Italiano, Latino e Greco. Un colpo duro, certo, ma che gli servì per capire quanto le interrogazioni orali potessero essere ingiuste e squilibrate. Da docente, decise di cambiare le regole, puntando sulle tesine scritte per dare agli studenti una possibilità più equa per dimostrare la propria preparazione.

                I bocciati diventati famosi

                Anche Umberto Veronesi, celebre oncologo e punto di riferimento per i malati di tumore, non fu esattamente uno studente modello. Ma come professore? Eh sì perchè Veronesi fu bocciato ben due volte alle superiori, ammise candidamente di non fare mai i compiti a casa. La scuola dell’epoca era dura e punitiva, ma lui trovò comunque la sua strada, diventando uno dei medici più rispettati al mondo. E vogliamo parlare della futura astrofisica Margherita Hack che fu respinta al ginnasio proprio in matematica? L’astrofisica fu rimandata non tanto per la sua preparazione, quanto per l’antipatia del professore verso il suo modo di fare. Eppure, quella bocciatura non le impedì di diventare una delle menti più brillanti della scienza italiana.

                Persino Alberto Angela, oggi re della divulgazione, ha avuto il suo momento difficile. Bocciato in quinta elementare per insufficienza in Italiano. Ma davvero? Un duro colpo per un bambino, ma che non gli impedì di migliorare e costruire una carriera straordinaria sotto gli occhi di tutti.

                E con i politici come andiamo con la maturità?

                Tra i politici, il caso più curioso da raccontare è quello di Giulio Andreotti, bocciato in terza media per un brutto voto in Latino. Ironia della sorte, anni dopo diventò un latinista di fama internazionale fondando il Centro di studi ciceroniani. Nel mondo dello spettacolo, le bocciature non sono mancate. Pierfrancesco Favino ha dovuto ripetere il secondo liceo, mentre Giovanna Mezzogiorno è stata bocciata due volte. E Fiorello? Ahh… lui ha collezionato ben tre bocciature al liceo scientifico prima di riuscire a diplomarsi. Ma non finisce qui. Nella Storia c’è l’esempio lasciato nientepopodimenoche da Albert Einstein che non a scuola non brillava. Tanto che il suo insegnante di matematica gli disse che non avrebbe mai combinato nulla. Bingo!! E Winston Churchill? Fu bocciato più volte e Steve Jobs abbandonò il college poi ce lo siamo ritrovati in casa…

                Insomma, la maturità è importante, ma non definisce il futuro dei candidati. Se anche i grandi hanno inciampato, forse vale la pena prendere tutto con un po’ più di leggerezza. E chissà, magari proprio un inciampo può diventare il primo passo verso un futuro di successo.

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