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Le conigliette tornano a casa? Cooper Hefner tenta il grande ritorno

il marchio Playboy conserva ancora un grande fascino. Cooper Hefner, figlio del fondatore, sta tentando di rilanciare il marchio, ma la strada è ancora lunga.

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    Chi l’avrebbe mai detto? Le mitiche conigliette potrebbero presto tornare a far palpitare i cuori. Cooper Hefner, figlio del leggendario fondatore di Playboy, Hugh Hefner, ha infatti lanciato un’offerta da 100 milioni di dollari per riportare il marchio di famiglia sotto la sua ala protettiva. Insomma lo vuole riportare in famiglia…Ma chi glielo fa fare?

    Un’icona in cerca di rinascita

    I motivi della scelta di Hefner junior sono diversi. Playboy, un tempo simbolo di libertà sessuale e di un certo modo di vivere, ha vissuto anni d’oro, ma l’avvento di internet e la concorrenza sempre più agguerrita l’hanno messo a dura prova. La società, quotata in borsa nel 2021, ha visto le sue azioni crollare vertiginosamente, accumulando un debito di 200 milioni di dollari. Quindi in realtà si sta acquistando una testata che ha già dei debiti.

    Ma questo affare va oltre il denaro

    E’ naturale quindi che per Cooper Hefner, questa non è solo una semplice operazione finanziaria. “È una grande azienda americana e un grande marchio americano, al di là del mio legame personale“, ha dichiarato. L’erede del fondatore vuole riportare Playboy ai fasti di un tempo, puntando su nuove partnership mediatiche e sfruttando il fascino intramontabile del marchio. Ecco diciamo che si è reso conto che il valore del marchio è rimasto intatto e può diventare un simbolo anche per altre operazioni sia editoriali sia di altro tipo. Quindi è partita la scalata.

    Un pezzo della nostra storia

    Fondata da Hugh Hefner nel 1953, Playboy è stata più di una semplice rivista erotica. È stata un simbolo di rivoluzione sessuale, un punto di riferimento culturale e un trampolino di lancio per scrittori, attori e modelli. La rivista ha contribuito a cambiare il modo di pensare della società, sfidando tabù e preconcetti. Riuscirà Cooper Hefner nel suo intento di riportare Playboy al successo? È ancora presto per dirlo. L’offerta di 100 milioni di dollari è sicuramente ambiziosa, ma dovrà fare i conti con una concorrenza agguerrita e con un mercato mediatico in continua evoluzione.

    Perché investire su Playboy? Perché è molto più di una semplice rivista

    Playboy è un marchio iconico riconosciuto in tutto il mondo, con un valore storico e culturale inestimabile. Nonostante gli anni conserva ancora un seguito fedele di appassionati. Bisogna anche tenere conto che il mondo dei media è in continua evoluzione, e Playboy può sfruttare nuove piattaforme e format per raggiungere un pubblico ancora più ampio. La testata è stata un vero e proprio fenomeno culturale che ha influenzato la società, la moda, il costume e persino la politica. Hefner senior era un giovane ambizioso con una visione chiara. Aveva lanciato Playboy con l’obiettivo di creare una rivista che fosse molto sofisticata, intellettuale e, allo stesso tempo, provocatoria. Le prime pagine di Playboy erano un mix di fotografie sensuali, interviste a personaggi famosi, articoli di attualità e racconti.

    Hugh Hefner: un genio controverso

    Del resto Hugh Hefner è stato una figura molto controversa e intrigante. Per anni ha vissuto nella sua famosa Playboy Mansion, presto diventata un’icona di un certo stile di vita, caratterizzato dal lusso, dalle feste e dalle belle donne. Hefner è stato un visionario che ha saputo anticipare i trend culturali. Ha creato un impero mediatico partendo da quasi nulla, e ha sfidato le convenzioni sociali dell’epoca. Nonostante questo è stato spesso criticato per aver oggettificato le donne e per aver contribuito a diffondere stereotipi sessisti. Le sue feste e il suo stile di vita sono stati oggetto di numerose polemiche.

    Erano gli anni della rivoluzione sessuale

    Playboy era diventata un simbolo della rivoluzione sessuale degli anni ’60 e ’70. La rivista ha sfidato le convenzioni sociali, promuovendo una visione più aperta e tollerante della sessualità. Le famose “conigliette” di Playboy sono diventate icone di bellezza e sensualità, e la rivista ha contribuito a normalizzare la rappresentazione del corpo femminile. Nel corso degli anni, Playboy si è trasformato in un vero e proprio impero mediatico, con televisioni, radio, club e persino un parco a tema. La rivista ha ospitato scrittori del calibro di Truman Capote e Vladimir Nabokov, e ha lanciato le carriere di attori come Marilyn Monroe. A partire dagli anni ’90 la rivista ha iniziato a risentire della concorrenza del web e di altre forme di intrattenimento. La diffusione di internet ha reso più facile accedere a contenuti erotici, erodendo la base di lettori della rivista. Inoltre, la società è diventata più aperta e tollerante nei confronti della sessualità, rendendo meno necessario un prodotto come Playboy.

    Perché Playboy ha chiuso? Le ragioni del suo declino

    A decretarne il declino e la sua chiusura ci hanno pensato i siti porno che hanno reso più facile accedere a contenuti erotici gratuitamente, erodendo la base di lettori della rivista. A questo vanno aggiunti anche i debiti. La società ha accumulato debiti e ha faticato a rimanere competitiva in un mercato in continua evoluzione.

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      Società

      Treccani cancella il “vu cumprà”: la lingua inchinata al politicamente corretto

      Dal trash televisivo ai dizionari seri, dai venditori in spiaggia alla censura postuma: “vu cumprà” sparisce dal lessico accettabile. Ma chi cancella una parola, cosa sta davvero cercando di rimuovere?

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        C’era un tempo in cui il “vu cumprà” era ovunque. In spiaggia, in tivù, nei cinepanettoni e persino nei dizionari. Una formula nata dal basso, romagnola d’origine, per descrivere i venditori ambulanti — quasi sempre neri — che offrivano occhiali tarocchi, collanine e borse improbabili tra un pedalò e un cocco fresco. Poi, d’improvviso, il silenzio. La parola è diventata impronunciabile. E ora la Treccani ne firma il necrologio.

        A decretarne la morte è un saggio di Rocco Luigi Nichil, pubblicato sulla rivista Lingua Italiana. Lì, con tono accademico e penna raffinata, si certifica che “vu cumprà” è un’espressione razzista, figlia di un’Italia che non c’è più — o che finge di non esserci più. E se un tempo era nel Devoto-Oli con la definizione “venditore ambulante, generalmente negro”, oggi basta quel “generalmente” per rischiare il linciaggio social.

        Negli anni Ottanta, “vu cumprà” era sulla bocca di tutti. Antonio Ricci ci costruì sopra un personaggio trash: Mazouz M’ Barek, alias Patrick. Gianfranco D’Angelo ne fece una maschera nel film Rimini Rimini. Era folklore, era satira, era Italia. Poi arrivò la stretta morale. Il termine scomparve dai media, sostituito da silenzi imbarazzati e metafore sghembe: oggi c’è il “bangla”, il “rosario”, il “paki”. Più sottili, meno ufficiali, ma non meno razzisti.

        Il problema, però, non è la parola. È il disagio che ci trasciniamo dietro. È l’idea che basti cancellare un termine per salvarsi l’anima. Ma togliere “vu cumprà” dai dizionari non ci rende più giusti. Solo più ipocriti. Perché alla fine, sulle spiagge di oggi come su quelle dell’86, continuiamo a dire no con la testa e sì con cinque euro. E a parlare male, anche quando facciamo finta di aver imparato a farlo bene.

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          “Tu gusti is meglio che uan”? Oddio mi si è ristretto il Maxibon

          Una lettera virale a Stefano Accorsi riaccende i ricordi di un’intera generazione e denuncia con ironia la shrinkflation che ha colpito anche il gelato più iconico degli anni ’90.

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            C’era una volta il Maxibon, quello vero, quello che ti faceva saltare la merenda e pure la cena. Una sleppa di gelato che ti si scioglieva tra le mani e ti faceva sentire parte di una generazione che aveva ancora sogni grandi. E gelati ancora più grandi. Oggi, invece, ti ritrovi con un “mini bon” che sembra uscito da una confezione di campioncini da supermercato. A lanciare il grido di dolore (e di fame) è stato Emiliano Miliucci, autore di una lettera aperta diventata virale, indirizzata a Stefano Accorsi, volto indimenticabile dello spot cult “Tu gusti is meglio che uan”.

            Nel suo post, Miliucci racconta con ironia e un pizzico di malinconia l’esperienza di aver comprato un Maxibon nel 2025. Per scoprire che il gelato della sua adolescenza si è rimpicciolito fino a diventare quasi simbolico. “Quando ho aperto sto gelato m’è preso un coccolone”, scrive, “non era un Maxibon, era un mini bon. Tu gusti che non ne fanno manco uan”. E con quella frase, ha colpito dritto al cuore di tutti i nati negli anni ’80 e ’90, quelli cresciuti con Ambra, Max Pezzali. E non solo. Anche la Pausini de La solitudine e, ovviamente, con Accorsi che faceva il provolone con due ragazze in spiaggia.

            Il post non è solo una lamentela sul gelato che si è ristretto, ma una riflessione amara e divertente sulla shrinkflation e su come, nel tempo, ci abbiano tolto un po’ tutto. Il welfare, la sanità pubblica, le certezze… e pure i gelati. Ma almeno, dice Miliucci, “il gelato avrebbero potuto lasciarcelo”. Accorsi, oggi impegnato sul set del nuovo film di Gabriele Muccino, ha raccontato in passato che quello spot fu il primo momento in cui venne riconosciuto per strada. “Mi hanno fermato urlando il nome del gelato”, ha detto a Verissimo, ricordando anche di averne mangiati così tanti durante le riprese da ritrovarsi con i denti in fiamme.

            A 54 anni oggi Accorsi sfoggia un fisico invidiabile e una carriera solida, ma per molti resterà per sempre il ragazzo del Maxibon. E forse è proprio questo il punto: mentre tutto cambia, si restringe e si complica, abbiamo bisogno di simboli che ci riportino a un tempo in cui bastava un gelato per sentirsi felici. Anche se ora quel gelato è diventato più piccolo, il ricordo resta gigante.

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              Le estati in VHS: quando il mare sapeva di “Baywatch” e merendine al cioccolato fuso

              Altro che resort, droni e foto in HD: c’era un tempo in cui l’estate si consumava tra spot Martini, videocassette ingiallite e pomeriggi passati davanti a “Supercar”. E il massimo dell’esotico era Rimini. Benvenuti nell’era delle estati in VHS.

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                C’è stato un tempo — né troppo lontano né abbastanza vicino da essere vintage. In cui l’estate non passava sui social ma in VHS, con l’audio frusciante e l’immagine sgranata. Erano le estati degli anni ’80 e ’90. Quelle del ghiacciolo “tropicale” e dei costumi fluo, delle spiagge affollate da famiglie intere e delle televisioni accese dal mattino al tramonto.

                Era il tempo di “Baywatch” a ora di pranzo, con Pamela Anderson che correva al rallentatore. Mentre tu, dodicenne in braghette, capivi vagamente che qualcosa stava cambiando. Le pubblicità erano più martellanti della risacca: Martini, Algida, Fanta. Ogni spot una promessa di felicità semplice, da consumare sotto il sole con una cannuccia fluo.

                Le vacanze al mare si facevano rigorosamente in macchina, con il sedile che scottava. La cartina stradale appiccicata alla gamba sudata del papà e la radio che gracchiava “Gioca Jouer”. La meta più ambita? Rimini, Jesolo, Cecina, al massimo Bibione: nomi che sembravano esotici solo perché c’era il mare.

                E poi, loro: le merendine. Il Buondì sciolto nella borsa frigo, il Tegolino che diventava una tavoletta di cioccolato caldo e quella voglia di un Calippo che, nella memoria, ha lo stesso peso emozionale del primo bacio.

                A casa, mentre gli adulti russavano nella penombra dei ventilatori, noi guardavamo cartoni giapponesi e repliche dei cinepanettoni. “Vacanze di Natale”, “Yattaman”, “Fantozzi in Paradiso”. L’estate era anche questo: una VHS registrata da Canale 5, con l’inizio tagliato e un nastro che saltava proprio sulla battuta buona.

                Sulla spiaggia si giocava a racchettoni, si facevano buche profonde come trincee e si sfoggiavano infradito Puma e occhiali Carrera. Il mito da imitare? I paninari: ciuffo impomatato, cintura El Charro e Walkman sempre acceso. Con quella certezza incrollabile che bastasse un “yo bello!” per diventare qualcuno.

                Oggi l’estate è smart, iperconnessa e fotogenica. Ma c’è una generazione intera che, chiudendo gli occhi, sente ancora il fruscio della cassetta che parte, il rumore del bagnasciuga in lontananza e l’odore inconfondibile della crema solare al cocco del discount.

                E se non sai di cosa parliamo, forse sei nato dopo il DVD. O forse non hai mai visto Baywatch mangiando una Fiesta mezza fusa. Ed è un gran peccato.

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