Cinema
Barba, camicia stropicciata e occhi lucidi: Al Pacino dal Papa è irriconoscibile
Al Pacino, 85 anni, si è presentato all’udienza privata con il Papa in versione “profeta metropolitano”: capelli scompigliati, vestito oversize e una camicia uscita da ogni controllo. Commosso, ha definito l’incontro «uno dei momenti più toccanti della mia vita». Ma nel 2020, dopo un arresto cardiaco da Covid, disse di aver «trovato il nulla»

Barcollava tra fede e filosofia esistenziale già in Profumo di donna, e ora – ironia della sorte – Al Pacino approda davvero in Vaticano. Capelli arruffati, barba grigia di tre giorni, sguardo da sciamano metropolitano e una camicia troppo larga, talmente larga da sfuggire ai pantaloni come la verità in certi film di Sorrentino. Ma era lui. Proprio lui. Al Pacino. In carne, ossa e Oscar. E non era un film.




L’attore statunitense, 85 anni portati come un clochard di lusso, è stato ricevuto in udienza privata da Papa Leone XIV, il primo pontefice americano della storia. Al suo fianco, Andrea Iervolino, produttore del film Maserati: I Fratelli, in cui Pacino interpreta Vincenzo Vaccaro, un investitore visionario che scommette tutto sulla neonata casa automobilistica dei tre fratelli bolognesi.
La delegazione, comunicano i portavoce, è stata accolta dal pontefice per un incontro “di ispirazione spirituale e culturale”, durante il quale si sarebbe parlato di valori comuni come “unità della famiglia, amore, compassione e contributo al bene comune”. Temi che – secondo Iervolino – sarebbero al cuore sia della dottrina cattolica che del film.
Al Pacino, visibilmente emozionato, avrebbe confidato di aver vissuto «uno dei momenti più toccanti della mia vita». Non è dato sapere se fosse per il Papa o per la pressione dell’abito, ma tant’è. L’attore, cresciuto in una famiglia cattolica ma sempre dichiaratamente non credente, ha vissuto negli ultimi anni un rapporto con la spiritualità più confuso che mai. Nel 2020, dopo un arresto cardiaco durante la degenza per Covid, raccontò di aver «trovato il nulla». Nessun tunnel, nessuna luce, solo il vuoto. Una rivelazione che sembrava uscita da un film di Terrence Malick più che da una confessione hollywoodiana.
Insieme a Pacino, nella delegazione c’erano solo produttori. Nessuna traccia degli altri membri del cast: Anthony Hopkins, Andy Garcia, Jessica Alba, Salvatore Esposito e Michele Morrone. Forse troppo glamour per un incontro tanto mistico. O forse, semplicemente, trattenuti da altri impegni. A ogni modo, l’onore della prima star di Hollywood ricevuta ufficialmente in Vaticano spetta tutto a lui: Pacino batte Scorsese 1-0.
Già, perché Martin Scorsese, grande amico di Papa Francesco e cattolico praticante da sempre, non ha avuto la stessa fortuna. Il regista di Silence e L’ultima tentazione di Cristo – entrambi film che non hanno mai fatto impazzire i cardinali – ha comunque avuto rapporti stretti col Papa argentino, tanto che alcune conversazioni intime con lui saranno incluse nel documentario Aldeas – A New Story, ultima intervista spirituale del pontefice scomparso.
Ma Scorsese, che nel 2019 diresse proprio Pacino in The Irishman, probabilmente apprezzerà il fatto che il suo ex Hoffa abbia incontrato l’attuale Papa. Forse lo invidierà anche un po’. Al Pacino, nel frattempo, si gode questo inatteso debutto sulla scena ecclesiastica, con la camicia fuori dai pantaloni e l’anima – forse – un po’ più dentro.
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Cinema
La rabbia elegante di Matilde De Angelis: “Condividere un premio con Elodie? Una mancanza di rispetto”
Matilda De Angelis conquista il Nastro d’Argento come miglior attrice non protagonista per Fuori di Mario Martone, ma il premio ex-aequo con Elodie non le va giù. In un’intervista senza filtri, l’attrice bolognese esprime il proprio disappunto per il riconoscimento condiviso, riflette sulla banalizzazione del nudo femminile nel cinema e critica duramente la politica culturale del governo Meloni. Tra frecciate, frustrazioni e un orgoglio ferito, la De Angelis rivendica il valore del merito e dell’identità artistica.

Nell’ex-aequo con Elodie per il Nastro d’Argento come miglior attrice non protagonista si può riscontrare in lei una precisa delusione, anche se celata da una signorile eleganza. D’altronde l’atteggiamento della De Angelis può essere considerato più che giustificato: una è un’attrice (seppur giovane e inesperta), l’altra una cantante pop promossa attrice, forse più per hype che per merito.
Occorrerebbe maggior rispetto
La sottile rabbia della 29enne bolognese è tutta nella sua dichiarazione velenosamente elegante: “Lo trovo insensato e molto irrispettoso. Ognuno di noi è un individuo singolo. Quando togli la singolarità, togli la personalità, l’impegno, l’unicità”. Tradotto: Matilda mastica amaro e non lo nasconde dietro finte diplomazie. Altro che “sorellanza”…
Un bel caratterino
Del resto, De Angelis non è una che le manda a dire. Dall’esordio folgorante in Veloce come il vento (2016) alla consacrazione internazionale con The Undoing accanto a Nicole Kidman, passando per il recente Fuori in cui recita nuda sotto la regia sensibile di Martone: un talento vero, cresciuto senza scorciatoie. Eppure, quando il merito si confonde con la visibilità, lei alza il sopracciglio. E non si limita a quello.
Nel 2025 siamo ancora a parlare di nudo femminile…
Sul nudo, Matilda è netta: “È abbastanza assurdo che quella scena sia stata tanto discussa. È la meno intima del film. Io inizio a provare fastidio per le continue domande su questo tema: trovo superato dover giustificare la nudità femminile. Agli uomini chiedete lo stesso?”. Lucida, combattiva, stufa di un doppio standard che resiste anche nel cinema d’autore.
Inequivocabile su Trump
Non risparmia neppure la politica. Quando le si chiede chi non difenderebbe mai da avvocata, risponde secca: “Donald Trump”. E, con un affondo ancora più tagliente, accusa il governo Meloni di abbandonare il settore culturale al suo destino: “C’è una quantità insensata di lavoratori dello spettacolo che non lavora da otto mesi. La risposta? Andatevene affanculo. Fa paura”.
Matilda De Angelis, attrice, cittadina, donna consapevole del proprio talento e della propria voce. Che non ha paura di usarla, anche quando brucia. Anche quando divide un premio che forse sentiva di meritare tutta per sé.
Cinema
Portobello è tornato, ma stavolta non fa ridere: marco Bellocchio riscrive la tragedia di Enzo Tortora
Nel giorno dell’anniversario del suo arresto, HBO Max rilascia le prime immagini di Portobello, la serie firmata da Marco Bellocchio che ripercorre l’ingiustizia subita da Enzo Tortora. A interpretarlo, un intenso Fabrizio Gifuni, in una delle prove attoriali più difficili e toccanti degli ultimi anni. La serie debutterà nel 2026 ed è già destinata a far discutere.

A 42 anni dal suo arresto, avvenuto il 17 giugno del 1983, Enzo Tortora torna a scuotere le coscienze degli italiani. Stavolta non in tribunale, ma sullo schermo. HBO Max ha infatti diffuso le prime, potentissime immagini della serie Portobello, diretta da Marco Bellocchio, maestro del cinema civile italiano.
Un’immagine che fa male (e bene)
La prima foto ufficiale non lascia spazio alla leggerezza: Fabrizio Gifuni, nei panni del conduttore, è immortalato con il volto scavato, lo sguardo basso e le mani ammanettate davanti a una caserma. Un fotogramma che racconta tutto: la vergogna, l’ingiustizia, il peso di un errore giudiziario che ha segnato per sempre l’opinione pubblica. Bellocchio, con la sua solita intensità, ci mette davanti al dolore nudo, senza filtri. E sembra dirci: “Non dimenticate. Non archiviate.”
Gifuni, tra dignità e dolore
Fabrizio Gifuni, attore di straordinario spessore, ha accettato una delle sfide più impegnative della sua carriera: interpretare un personaggio amato, colpito, risorto e mai davvero dimenticato. La sua è una trasformazione totale, che promette di restituire l’umanità lacerata di Tortora, al di là della cronaca.
Gli altri nomi del cast
Nel cast, volti noti e di grande caratura: Lino Musella, Romana Maggiora Vergano, Barbara Bobulova e Alessandro Preziosi. Un ensemble che fa presagire una narrazione profonda, rispettosa, ma senza sconti.
Una serie evento che fa già discutere
Portobello segna anche l’esordio della prima produzione italiana originale targata HBO Max. Un debutto importante, che unisce realtà produttive di prestigio come Our Films, The Apartment, Arte France e Kavac Film. La messa in onda è prevista per il 2026, ma l’attenzione mediatica è già altissima. La scelta della data per il rilascio delle immagini non è casuale. È un atto di memoria e denuncia. La serie non si limita a raccontare un errore giudiziario: vuole scavare nella coscienza collettiva, portando il pubblico a riflettere sul rapporto tra verità, giustizia e opinione pubblica.
La forza del racconto civile
Con Portobello, Marco Bellocchio sembra voler gridare ancora una volta che l’Italia non può permettersi di dimenticare. Enzo Tortora non è solo un nome nella cronaca nera: è un simbolo della fragilità del sistema giudiziario, del potere dei media e della dignità umana calpestata. E oggi, grazie a una serie che promette di essere intensa e necessaria, quella storia torna a parlare a tutti noi.
Cinema
Il cavallo, i rigatoni e Ulisse: quando Fellini provò a salvare i libri dalla TV
Federico Fellini depositò alla Siae nove mini-capolavori pubblicitari dedicati alla letteratura. Non li girò mai, ma oggi quei soggetti – tra cavalli in biblioteca, letti-barca e incontri con Ulisse – tornano a galoppare grazie a un libro di Rosita Copioli che ne rivela la bellezza sommersa

Cosa ci fa un cavallo che trotta elegante in una biblioteca silenziosa? Se il regista è Federico Fellini, la risposta è sempre la stessa: sogna. E infatti quel cavallo non è mai esistito. O meglio: ha vissuto solo sulla carta, in un soggetto per uno spot pubblicitario che il maestro di Rimini scrisse negli anni Ottanta per promuovere nientemeno che la lettura. Sì, avete capito bene: la lettura. In un’epoca in cui la televisione stava fagocitando tutto, compresi i cervelli, Fellini provò a salvarli con i libri. O almeno ci pensò.
Ora quel sogno ritorna tra le mani dei lettori, grazie al volume “Il cavallo in biblioteca”, edito da Vallecchi, in cui la poetessa e saggista Rosita Copioli trascrive, analizza e illumina quei nove spot mai realizzati, depositati dal regista alla Siae nel 1988 e rimasti dimenticati per decenni. Una galleria di visioni tenere e surreali, come solo Fellini sapeva fare.
C’è il cavallo mansueto che entra in una biblioteca sacra, fiuta i libri, ne lecca la costa. C’è un uomo disteso su un letto che si trasforma in barca – forse un’eco di una poesia di Stevenson – e poi in astronave. C’è persino Ulisse in corazza rilucente che compare accanto a un lettore tormentato dal frastuono del condominio. Altro che caroselli con il detersivo: qui siamo dalle parti dell’epifania.
Eppure Fellini la pubblicità non la sopportava. Soprattutto quella che interrompeva i film. In un prologo fulminante ai soggetti, scrive: «Il mezzo che più di ogni altro ha esiliato ed emarginato la lettura è proprio la televisione. Dunque: invitare il pubblico televisivo a leggere ha un che di paradossale, di profondamente contraddittorio». Ma anche, aggiunge, di inevitabile. Era l’ultima spiaggia. L’ultima chance per tentare un colpo di teatro e risvegliare le coscienze.
E pensare che lui gli spot li aveva anche fatti, e benissimo. Memorabile quello per la Barilla, con il tormentone dei rigatoni. Deliziosi quelli per la Banca di Roma, con uno strepitoso Paolo Villaggio nei panni dell’ansioso da incubo, e Fernando Rey, attore-feticcio di Buñuel, come psicanalista. Oppure quello per la Campari, tanto elegante quanto beffardo. Fellini sapeva come rendere anche la réclame un set da sogno.
Ma quei nove spot sui libri – onirici, delicati, spesso malinconici – non li girò mai. Nessun committente, nessun budget, forse anche troppa distanza tra quel mondo sospeso e il linguaggio commerciale. Rimasero lì, custoditi in un cassetto come un’idea troppo bella per diventare vera. Eppure oggi che li leggiamo, ci accorgiamo che avevano già vinto. Perché la pubblicità che vale è quella che ti resta in testa. E anche se non ha mai avuto uno sponsor, il cavallo in biblioteca sta ancora correndo.
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