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Cinema

Pamela Anderson: da Baywatch all’Oscar? La riscossa dell’icona anni ’90 con “The Last Showgirl”

Relegata per anni in ruoli di secondo piano e produzioni minori, Pamela Anderson sorprende tutti con la sua performance intensa nel nuovo film indipendente. Un viaggio di rinascita e rivincita che potrebbe coronarsi con una nomination all’Oscar, mentre la star dimostra che c’è molto di più oltre l’immagine della bionda esplosiva.

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    Pamela Anderson, 57 anni, la ricordiamo tutti come la bionda esplosiva che correva al rallentatore sulla spiaggia in Baywatch, il ruolo che l’ha resa un’icona negli anni ’90. Ma c’è molto di più dietro quell’immagine glamour e provocante, e finalmente Hollywood sembra essersene accorta. Nonostante una carriera costellata da apparizioni in film di serie B e un controverso video a luci rosse con Tommy Lee (uno dei suoi cinque mariti), oggi Anderson sta vivendo un’inattesa resurrezione cinematografica.

    Il suo nuovo film The Last Showgirl, diretto da Gia Coppola, nipote del celebre Francis Ford Coppola, è stato presentato al festival di San Sebastian, e già si parla di una possibile candidatura agli Oscar per la sua interpretazione. Nel film, Anderson veste i panni di Shelly, una ballerina cinquantenne di Las Vegas, che si esibisce in un triste spettacolo di nudo e danza chiamato Razzle Dazzle. Shelly si trova a dover affrontare la fine del suo show e il desiderio di riconnettersi con sua figlia Hannah, interpretata da Billie Lourd, mentre il direttore di scena, interpretato dal muscoloso Dave Bautista, la informa che il sipario sta per calare definitivamente.

    Un ruolo intenso, drammatico, che mostra un lato di Pamela Anderson mai visto prima. Come lei stessa ha raccontato, la proposta di Gia Coppola l’ha inizialmente lasciata perplessa: «Quando mi ha proposto il ruolo, le ho detto: sei sicura che vuoi proprio me?». Eppure, questa interpretazione rappresenta un’evoluzione tanto attesa per una star che Hollywood ha spesso trattato con superficialità, relegandola a ruoli sexy e leggeri. «Gran parte della mia carriera si è basata sull’aspetto fisico», ha dichiarato Anderson, «ma ora ho deciso di fare un esperimento con me stessa e capire chi sono davvero, senza lasciare che siano gli altri a definirmi».

    Un’oscura storia di Hollywood e una riscossa inaspettata

    Hollywood ha sempre avuto un rapporto ambivalente con Pamela Anderson. Troppo facilmente relegata al ruolo di “bagnina bona”, il suo talento è stato per anni offuscato dall’immagine di sex symbol, alimentata da apparizioni provocanti e da una vita sentimentale che faceva più notizia dei suoi successi professionali. Anche i tentativi di emergere in ruoli più seri, come nel film Barb Wire, non hanno mai avuto il successo sperato.

    Eppure, è proprio questa capacità di sopportare e reinventarsi che ha reso Pamela Anderson un’icona per tante generazioni di donne. Lontana dal voler essere ricordata solo per il suo aspetto fisico, ha più volte sottolineato di voler dimostrare che c’è molto di più dietro la bionda esplosiva di Baywatch. E ora, con The Last Showgirl, sembra aver finalmente trovato la giusta occasione per mettere a tacere i critici e dimostrare il suo vero valore come attrice.

    Hollywood, oscillazione tra redenzione e critica

    Hollywood ama le storie di resurrezione, e Pamela Anderson sembra essere l’ultima a incarnare questo archetipo tanto caro all’industria cinematografica. Ma dietro questa rinascita c’è molto di più: c’è una donna che ha deciso di non farsi più definire dalle aspettative altrui, e che ha intrapreso un viaggio personale per ritrovare se stessa. «In un’intervista a Playboy, avevo detto che volevo essere una brava madre e vincere un Oscar», ricorda Anderson, con un sorriso ironico, «ma ora quella frase mi tormenta. Non mi faccio illusioni».

    Accanto a lei, nel film, un cast stellare che include la formidabile Jamie Lee Curtis, un’altra icona di Hollywood che, come Anderson, ha scelto di non nascondere le imperfezioni del suo corpo e del suo volto, un tempo considerati perfetti. Insieme, queste due donne rappresentano una sfida agli standard di bellezza e giovinezza di Hollywood, mostrando che il talento e la personalità possono superare i limiti dell’età e dell’apparenza.

    Riuscirà Pamela Anderson a vincere l’Oscar?

    Certo, è ancora presto per dirlo. La concorrenza sarà agguerrita, ma la sola ipotesi di una candidatura è già un trionfo personale per Pamela Anderson, che dopo decenni di ingiusta superficialità potrebbe finalmente ricevere il riconoscimento che merita. In un mondo che spesso giudica troppo in fretta, la storia di Pamela Anderson è un promemoria del potere della resilienza e della capacità di cambiare le carte in tavola. E se alla fine riuscisse davvero a stringere quell’ambita statuetta tra le mani? Beh, sarebbe la perfetta conclusione di un’epica storia di rinascita hollywoodiana.

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      Cinema

      Pretty Woman, il retroscena clamoroso: Richard Gere disse no, Julia Roberts lo convinse con un biglietto

      La commedia romantica più amata di sempre rischiava di essere un dramma sociale con un finale amaro. Richard Gere non voleva il ruolo, Julia Roberts non era la prima scelta. Ma poi successe la magia: tra imprevisti, risate vere e giacche comprate per strada, Pretty Woman diventò leggenda.

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        Pretty Woman è entrato nella storia come il film che ha consacrato Julia Roberts a icona planetaria e ha rilanciato Richard Gere come protagonista romantico per eccellenza. Ma dietro la favola metropolitana da quasi mezzo miliardo di dollari al botteghino, si nasconde un retroscena che in pochi conoscono.

        Nella prima versione della sceneggiatura, scritta da J.F. Lawton, il film finiva in tragedia. Vivian veniva abbandonata da Edward e la sua amica Kit moriva di overdose durante una gita a Disneyland. Altro che commedia: un cupissimo dramma sociale, senza lieto fine. Fu solo con l’arrivo della Disney e del regista Garry Marshall che il copione prese una svolta radicale. Si decise di trasformare la storia in una fiaba urbana, con un finale romantico e memorabile.

        Anche il casting fu un percorso a ostacoli. Julia Roberts, all’epoca una promessa ancora in ombra, dovette sostenere due audizioni per conquistare il ruolo. I dirigenti Disney volevano nomi più noti: Meg Ryan, Jennifer Connelly, persino Winona Ryder vennero considerate. Tutte rifiutarono, in parte per via del tono iniziale troppo duro del film.

        Quanto a Richard Gere, il no fu quasi categorico. L’attore rifiutò più volte il ruolo di Edward, finché Julia non si presentò a New York con un biglietto scritto a mano: “Per favore, dì di sì”. Fu il gesto decisivo. La chimica tra i due, una volta sul set, fece il resto.

        Molte delle scene più amate furono improvvisate. La chiusura del portagioie sul dito di Vivian? Inventata sul momento. La risata fragorosa davanti alla TV? Vera, provocata da Marshall che solleticava i piedi di Julia. Anche la celebre giacca rossa fu comprata per strada dai costumisti dopo averla vista indosso a una sconosciuta.

        Oggi Pretty Woman è un classico senza tempo. E se un sequel non si farà mai — per volontà del cast e dopo la scomparsa di Garry Marshall — resta intatto il fascino di un film nato da mille imprevisti, ma entrato nel cuore di tutti.

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          Cinema

          “Jurassic World. La rinascita”: dinosauri trumpiani e messicani in fuga. Scarlett spara, il pubblico sorride

          Nel nuovo “Jurassic World. La rinascita”, i dinosauri tornano a inseguire umani, i buoni scappano, i cattivi complottano e Scarlett Johansson mena le mani. Ma il vero colpo di scena? Un T. Rex trumpiano che rincorre messicani nel deserto. Esagerato? Sì. Ma lo spettacolo non manca.

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            Se pensavate che la saga di Jurassic Park avesse già detto tutto, preparatevi al ritorno dei dinosauri con un’agenda politica. Jurassic World. La rinascita è l’ultimo reboot di un franchise che ha più vite di un Velociraptor, diretto dal sobrio Gareth Edwards e scritto da David Koepp, che dopo il primo film del 1993 evidentemente aveva voglia di farsi un regalo nostalgico.

            Il film parte con Scarlett Johansson versione mercenaria da palestra, alias Zora, che imbraccia un fucile grande quanto un frigorifero e si lancia in missione accanto a Duncan, interpretato da Mahershala Ali, basco in testa e carisma rilassato. Il compito? Recuperare campioni di sangue da tre dinosauri iper-mutati nascosti su un’isola vietatissima. Classico.

            Nel mezzo, un’adorabile famigliola messicana in vacanza (male) si ritrova inseguita da un T. Rex con la faccia – o almeno l’atteggiamento – di Donald Trump. Un’idea sottile come un meteorite, ma che funziona: il D. Rex (Distortus Rex, giuro) irrompe come un politico in campagna elettorale e semina il panico. Ed è qui che il film trova il suo groove: esagerato, caricaturale, senza alcuna intenzione di prendersi sul serio.

            I dinosauri, ovviamente, sono i veri protagonisti: alcuni sembrano usciti da una sfilata punk, altri ricordano i vecchi amici di “Gioele” nei caroselli Rai, ma quando entra in scena il T. Rex originale nella palude – sì, proprio lui – tutto si fa più epico. C’è anche un baby-dinosauro che mangia dolcetti e fa amicizia con una bambina: una deriva alla Spielberg degli anni Ottanta che strappa sorrisi.

            I dialoghi? Boh. Servono a malapena a tenere insieme le scene. I personaggi? Si reggono sul carisma degli attori, più che sulla scrittura. Ma a salvarci è il ritmo da videogame e l’azione scatenata, tra giungle tropicali, laboratori segreti e una nave cargo che sembra uscita da Skull Island.

            Il messaggio di fondo – combattere le multinazionali farmaceutiche assetate di profitti usando dinosauri come cavie – è meno chiaro di quanto sembri, ma chi se ne importa? Quando un T. Rex trumpiano rincorre messicani armati di machete, ogni sottotesto politico passa in secondo piano.

            Scarlett ce la mette tutta. I dinosauri fanno il loro dovere. E il pubblico, alla fine, applaude.

            E allora? Non sarà il film dell’anno. Ma per due ore di fuga, zanne e assurdità ben piazzate, va più che bene.

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              Cinema

              Kevin Spacey riparte dal cinema europeo: «Perdono chi mi ha giudicato, ma non tornerò a lavorare con loro»

              Kevin Spacey torna a parlare pubblicamente in Italia e lo fa con tono pacato ma deciso: «Ho perdonato chi mi ha condannato senza processo, ma non lavorerò più con loro». Dopo l’assoluzione, l’attore è pronto a rimettersi in gioco con tanti nuovi progetti.

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                Kevin Spacey sta tornando. Dopo sei anni di silenzio forzato e di allontanamento dallo show business, l’attore due volte premio Oscar è apparso sul palco dell’Italian Global Series Festival a Rimini, dove ha ricevuto il Maximo Excellence Award e parlato apertamente del suo percorso umano e professionale, segnato dalle accuse di molestie per le quali è stato completamente assolto.

                «Sono entusiasta di tornare a lavorare», ha detto Spacey davanti a una platea calorosa. «Ho tantissime storie da raccontare». Ma l’attore non si è limitato a guardare avanti: ha ripercorso anche il periodo buio della sua vita, sottolineando il valore della gratitudine verso chi gli è rimasto accanto e il distacco definitivo da chi lo ha abbandonato. «Sono pieno di riconoscenza verso coloro che hanno atteso l’esito del processo prima di giudicarmi. Quelle persone hanno la mia fiducia e farò di tutto per mantenerla. Quanto a chi mi ha condannato senza conoscere la verità: li perdono, ma non cercherò mai più una collaborazione con loro».

                Spacey ha citato Franco Nero, che nel 2023 lo ha voluto nel film L’uomo che disegnò Dio, come primo a tendere una mano dopo l’esilio hollywoodiano. «Franco ha alzato la testa e ha detto: ‘Kevin, ti voglio nel mio film’. È stato il primo, e ha fatto partire una tendenza. Da allora ho ripreso a lavorare, e non mi sono più fermato».

                L’attore ha anche ricordato il recente intervento a Cannes, dove ha ricevuto un riconoscimento alla carriera dal Better World Fund Gala. In quell’occasione aveva dichiarato con sarcasmo: «Chi avrebbe mai detto che omaggiare uno scagionato in tutti i tribunali sarebbe stato considerato un atto di coraggio?». Ora però il tono è diverso, più misurato, quasi zen. «Questa pausa forzata mi ha concesso di riflettere, di rivalutare, di ascoltare. E di capire con chi valga davvero la pena lavorare».

                Dopo Johnny Depp, anche Kevin Spacey sceglie l’Europa per il suo ritorno: meno Hollywood, più storie d’autore. Ma con la voglia di ricominciare davvero.

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