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Cinema

Pamela Anderson e The Last Showgirl: «Shelly? È la mia vita. Questo ruolo mi ha liberata»

Un viaggio nel tramonto dello scintillante mondo di Las Vegas e una storia che riflette le esperienze personali dell’attrice: «Non avrei potuto interpretare Shelly senza la vita che ho vissuto».

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    Pamela Anderson torna sotto i riflettori con The Last Showgirl, un film diretto da Gia Coppola che segna una svolta nella carriera dell’attrice. Anderson interpreta Shelly, una veterana showgirl di Las Vegas che si ritrova a fare i conti con un futuro incerto dopo la chiusura del suo storico spettacolo, Le Razzle Dazzle. Sullo sfondo di una città sempre più commerciale, la storia esplora la maternità, i legami familiari e il tramonto di un’epoca scintillante.

    «Non avrei mai potuto interpretare questo personaggio senza la vita che ho vissuto», ha raccontato Pamela Anderson in un’intervista a Deadline. «Ogni scelta che facciamo è dettata dagli strumenti che abbiamo in quel momento. Guardandomi indietro, so che tutte quelle esperienze mi hanno portato qui».

    Il film, che la vede recitare al fianco di Billie Lourd (nel ruolo della figlia di Shelly), è stato un’esperienza catartica per Anderson: «Essere una madre lavoratrice in questo settore ti mette un senso di colpa addosso che ti porti dentro. La scena con Billie è stata reale e intensa, soprattutto per la sua storia personale, essendo la nipote di Debbie Reynolds e la figlia di Carrie Fisher. Quel momento ha unito le nostre esperienze e ha reso tutto vero».

    Conosciuta come sex symbol degli anni Novanta, Pamela Anderson ha attraversato decenni di carriera trasformandosi in una figura iconica. Dopo il successo globale di Baywatch e un record di apparizioni su Playboy, questo nuovo ruolo rappresenta un importante cambiamento. Shelly non è solo un personaggio, ma un modo per l’attrice di affrontare il proprio passato: «Ogni scena mi ha permesso di liberarmi di quella bolla invisibile che ci imprigiona».

    The Last Showgirl, in uscita nel 2024, non è solo un omaggio a un’epoca dorata dello spettacolo, ma anche una riflessione intima sui sacrifici e le rinascite che definiscono la vita di ogni artista. Per Pamela Anderson, è il ruolo di una vita: quello che l’ha aiutata a trovare un nuovo equilibrio tra passato e futuro.

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      Cinema

      La docuserie “Mr. Scorsese” svela il maestro dietro la cinepresa: viaggio dentro la mente del regista più iconico d’America

      In cinque capitoli, Martin Scorsese si racconta come mai prima d’ora: dagli anni a Little Italy all’asma che lo portò in sala, dalla dipendenza alla rinascita creativa. I Rolling Stones fanno da cornice a un viaggio intimo che ripercorre le radici di “Mean Streets”, “Toro Scatenato” e della sua eterna sfida al lieto fine hollywoodiano.

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        La docuserie Mr. Scorsese apre una porta che per anni è rimasta chiusa: quella del laboratorio segreto di uno dei registi più influenti della storia. Con Rebecca Miller come interlocutrice, Scorsese attraversa la sua vita come se stesse raccontando un film: infanzia, fede cattolica, ossessioni, e quell’energia violenta che ha nutrito la sua estetica. Il tutto sulle note dei Rolling Stones, colonna sonora permanente della sua immaginazione.

        Sympathy for the Devil: sentire insieme il buio

        Il documentario si apre con Sympathy for the Devil. Non è solo un omaggio rock: è una chiave interpretativa. “Syn páthos” significa “sentire insieme”, non imitare il male, ma guardarlo negli occhi. Ed è quello che Scorsese ha fatto per cinquant’anni: raccontare la violenza senza assolverla, rifiutando il lieto fine che Hollywood ama rifilare al pubblico.

        L’asma, la finestra e l’inquadratura

        Le origini della sua visione sono sorprendentemente semplici. Da bambino, l’asma lo inchiodava in casa mentre gli altri giocavano in strada. Guardava il mondo dalla finestra: un’inquadratura naturale, come rivela Nicholas Pileggi. È lì che nasce la sua firma visiva. Il resto lo aggiunge padre Principe, guida cattolica che lo avvicina alla letteratura e a una forma di disciplina morale che tornerà in tutto il suo cinema.

        Joe Pesci, i Rolling Stones e gli “sfavoriti improbabili”

        Il racconto accelera come un film di Scorsese quando compaiono gli amici di una vita: De Niro, Pesci, DiCaprio. Joe Pesci diventa il suo “specchio sporco”, la voce dell’America marginale che Scorsese conosce meglio di chiunque altro. I personaggi scorsesiani sono “sfavoriti improbabili”: Travis Bickle, Henry Hill, Jake LaMotta. Uomini che l’America crea e poi finge di non riconoscere più.

        E poi c’è il ritmo: quello dei Rolling Stones. Ogni volta che li usa, Scorsese si raddoppia. Violenza e bellezza viaggiano insieme, come i pugni di Pesci e le urla di Jagger.

        Dipendenze, cadute e resurrezioni

        Scorsese non indora nulla. Racconta la cocaina, la quasi morte, e l’intervento salvifico di De Niro che lo trascina fuori dal letto per Toro scatenato. È l’episodio che trasforma la sua autobiografia in un percorso spirituale. Una resurrezione artistica che culmina anni dopo nell’Oscar per The Departed, consegnato da Spielberg, Coppola e Lucas come un rito di consacrazione.

        Alla fine, Scorsese resta ciò che DiCaprio definisce con semplicità: un uomo che “farebbe il regista a tutti i costi”. E in Mr. Scorsese lo si vede per quello che è sempre stato: un credente delle immagini, uno che del cinema ha fatto la sua chiesa, il suo peccato e la sua salvezza.

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          Cinema

          Edwige Fenech, 78 anni e zero rimpianti: “Sono fieramente single” e torna al cinema accanto a Pierfrancesco Favino

          Regina della commedia sexy, musa pop e oggi artista libera: Edwige Fenech parla del distacco dal cinema italiano, del legame con Favino e del suo essere “fieramente single”. E svela la scelta di crescere da sola il figlio, senza mai rivelare il nome del padre.

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            Edwige Fenech torna al cinema come se non fosse mai andata via. A 78 anni, l’icona della commedia erotica anni Settanta rientra in sala con Il Maestro, al fianco di Pierfrancesco Favino, e lo fa con un entusiasmo che sembra riportarla ai suoi esordi più luminosi. Un ritorno misurato, desiderato, quasi meditato, dopo anni in cui aveva scelto di lasciare l’Italia e trasferirsi a Lisbona.

            Una vita nuova, lontana dallo showbiz italiano

            L’attrice confida che a un certo punto il sistema l’aveva stancata. «Non mi offrivano parti interessanti e non volevo assistere allo scippo dei miei progetti», racconta. Ha preferito allontanarsi piuttosto che restare in un ambiente che percepiva come ostile. Una scelta netta, personale, che oggi rivendica senza esitazioni: «Avevo la sensazione che la presenza della Fenech infastidisse». Da qui, la decisione di ricominciare altrove.

            Favino, il filo che si riannoda

            Nel parlare del suo nuovo film, gli occhi le brillano quando pronuncia un nome: Pierfrancesco Favino. «Sono stata tra le prime a capire quanto fosse bravo», ricorda con orgoglio. Lo volle nel cast di Part Time nel 2004, quando ancora non era la star che tutti conoscono. Ritrovarlo oggi ha il sapore di una circolarità perfetta, come un capitolo che si chiude solo per aprirne un altro.

            Amori, scelte e un figlio cresciuto da sola

            Tra passato e presente, affiorano inevitabilmente gli affetti. C’è il ricordo tenero di Luca Cordero di Montezemolo, uno dei suoi grandi amori. C’è l’orgoglio di chi vive bene la propria solitudine: «Sono fieramente single», dice. E soprattutto c’è Edwin, suo figlio, la parte più delicata e insieme più forte della sua storia. È nato con una grave meningite, e lei ha potuto stringerlo solo dopo un mese. Da allora, lo ha cresciuto da sola.

            Sul padre, la Fenech resta irremovibile. «È italiano, ma non è Fabio Testi, anche se con lui ho avuto un flirt. Non dirò mai il suo nome». Una promessa di silenzio fatta per proteggere la libertà di un uomo che non desiderava diventare genitore. Nessuna recriminazione, solo una scelta accettata e custodita nel tempo. «Sono stata una sul campo», conclude.

            Edwige oggi appare così: una donna che ha vissuto mille vite, che ha amato, lavorato, combattuto e scelto. E che, ancora una volta, sa come prendere la scena.

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              Cinema

              Bella Thorne accusa Mickey Rourke di molestie sul set: il racconto shock e la replica dell’attore riaccendono il caso sicurezza a Hollywood

              La star americana racconta una serie di comportamenti aggressivi e umilianti subiti sul set da Mickey Rourke, parlando di lividi, scene modificate e pressioni psicologiche. Il team dell’attore nega ogni responsabilità ma si dice disponibile a collaborare con eventuali indagini. Il caso riapre il dibattito sulla sicurezza degli interpreti.

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                Bella Thorne rompe il silenzio e lo fa in modo diretto, senza filtri, con un post che in poche ore ha riacceso un tema che Hollywood continua a inseguire: la sicurezza sul set. L’attrice, oggi 27enne, ha raccontato pubblicamente una delle esperienze peggiori della sua carriera, vissuta anni fa durante le riprese di un film insieme a Mickey Rourke. Una vicenda che, se confermata, descrive un clima di intimidazione, abusi di potere e totale assenza di tutela.

                Tutto parte da una scena che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere coreografata e simulata. «Quest’uomo è schifoso», ha scritto la Thorne accanto alla foto dell’attore, raccontando che il personaggio di Rourke avrebbe dovuto colpire un ginocchio con una smerigliatrice scenica. Ma, secondo la sua versione, l’attore avrebbe mirato più volte all’area pelvica, colpendola attraverso i jeans e lasciandole lividi sull’osso. Un episodio che, da solo, basterebbe a spiegare la parola “trauma”.

                La Thorne sostiene che non sia stato un caso isolato. Ricorda l’ultima giornata di riprese, quando Rourke avrebbe accelerato il motore di un’auto per ricoprirla di terra, ridendone davanti alla troupe. E ancora: il rifiuto di collaborare con la produzione e il regista, costringendo l’attrice — giovanissima all’epoca — ad andare da sola nel suo camper a implorarlo di continuare a lavorare. Una dinamica di potere che lei definisce «umiliante, spaventosa, profondamente sbagliata».

                La replica non tarda ad arrivare. I rappresentanti di Rourke definiscono le accuse “gravi” e respinte “con decisione”. Sottolineano che l’attore «non era mai stato informato prima d’ora di simili episodi» e ribadiscono «l’importanza di un ambiente di lavoro sicuro e rispettoso per tutti». Nessun commento aggiuntivo, almeno per ora, ma la disponibilità a collaborare con eventuali indagini.

                Il caso, oltre i nomi, interroga ancora una volta l’industria: come è possibile che una giovane attrice debba affrontare da sola un collega più anziano e potente? Perché certe segnalazioni emergono solo anni dopo? E soprattutto: quanto è cambiato davvero il modo in cui Hollywood gestisce la protezione degli interpreti?

                Il racconto della Thorne — duro, dettagliato, emotivamente crudo — non punta solo a denunciare un collega, ma a riaprire una conversazione che l’industria sembra voler dimenticare troppo in fretta. Rourke, dal canto suo, vuole difendersi e respinge ogni responsabilità.

                La verità, come spesso accade, passerà dal confronto fra versioni opposte. Ma il messaggio che resta è chiaro: per molte attrici, il set non è ancora quel luogo sicuro che dovrebbe essere.

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