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Cinema

“Popeye” a tutto gas: sul set cocaina in scatola e attori strafatti. Parola dell’ex boss della Paramount

Durante la promozione del suo libro “Who Knew”, l’ex dirigente della Paramount racconta che sul set di “Popeye” – girato a Malta nel 1980 – la cocaina viaggiava nelle scatole della pellicola. “Era impossibile sfuggire, erano tutti fatti”, confessa. Un debutto cinematografico fuori controllo per Robin Williams

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    Altro che spinaci. Sul set di Popeye – Braccio di Ferro, il carburante principale non era quello della famosa lattina verde, ma una ben più stupefacente polverina bianca. A sganciare la bomba è Barry Diller, ex potentissimo CEO della Paramount Pictures, che nel corso della promozione del suo libro di memorie, Who Knew, ha deciso di togliersi qualche sassolino (o meglio, qualche striscia) dalle scarpe.

    Intervistato a New York, quando gli è stato chiesto quale fosse stato il set “più cocainomane” tra quelli frequentati durante il suo decennio dorato a Hollywood, Diller non ha avuto esitazioni: “Un set cinematografico da sballo? Oh, Popeye. Tutti strafatti, impossibile sfuggire. E se guardate il film ve ne accorgete: sembra girato metà a 33 giri e metà a 78”.

    Girato nel 1980 sull’isola di Malta e diretto da un visionario e spesso ingestibile Robert Altman, Popeye segnava il debutto cinematografico di Robin Williams, reduce dal successo in TV con Mork & Mindy. Al suo fianco c’era Shelley Duvall, nel ruolo di Olivia, attrice feticcio del regista e volto etereo e malinconico che sarebbe diventato iconico anche grazie a Shining di Kubrick, uscito quello stesso anno.

    Ma dietro la scenografia coloratissima del villaggio di Braccio di Ferro si nascondeva una realtà ben più torbida. “Le scatole di pellicola venivano spedite ogni giorno a Los Angeles per lo sviluppo. Solo che ci infilavano dentro anche la cocaina”, ha raccontato Diller. “Era un traffico continuo avanti e indietro da Malta. Un sistema rodato. Un party senza fine.”

    Un retroscena che oggi fa sorridere amaramente, ma che all’epoca sembrava quasi la norma. Diller, che ha supervisionato l’uscita di cult come La febbre del sabato sera, I predatori dell’arca perduta, Grease e Beverly Hills Cop, non si nasconde: “C’era cocaina ovunque. Non solo su quel set, ma lì era tutto amplificato, disinibito. Forse per questo il film è così… come dire… schizofrenico.”

    Nonostante tutto, Popeye fu un successo al botteghino, incassando 60 milioni di dollari in tutto il mondo, quasi il doppio del suo budget. Ma la critica non fu altrettanto generosa: recensioni tiepide, spesso perplesse di fronte all’esperimento a metà tra musical, live action e cartone animato. Oggi il film è diventato un piccolo cult, ma all’epoca lasciò molti perplessi. E forse, ora sappiamo perché.

    Robin Williams – che in anni successivi avrebbe parlato apertamente delle sue lotte con le dipendenze – uscì comunque indenne dall’esperienza, pronto a diventare uno degli attori più amati di Hollywood. Ma il set di Popeye, a quanto pare, è rimasto nella memoria di chi c’era come una specie di Woodstock marinaresca: costumi buffi, regia anarchica e una montagna di polvere bianca a tenere alto il morale della truppa.

    “Altman era un genio, ma anche un pazzo. E quel film è stato un delirio collettivo”, ha concluso Diller. Uno di quei casi in cui la realtà del dietro le quinte era molto più lisergica del prodotto finito.

    E chi l’avrebbe mai detto che Braccio di Ferro, tra un pugno e una canzone, nascondeva uno dei set più folli degli anni Ottanta? Altro che cartoni animati: qui si girava con il naso all’insù.

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      Cinema

      Jude Law, Il mago del Cremlino: la politica di Putin raccontata attraverso lo sguardo di un burattinaio

      Il nuovo film in concorso a Venezia di Olivier Assayas, tratto dal romanzo di Giuliano da Empoli, indaga l’ascesa autoritaria attraverso la mente di un insospettabile manipolatore.

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      Jude Law

        In concorso al 82° Festival di Venezia, Il mago del Cremlino (The Wizard of the Kremlin) di Olivier Assayas ritorna sui tanti luoghi oscuri della politica contemporanea. Tratto dal romanzo omonimo di Giuliano da Empoli. Firmato in co-sceneggiatura con Emmanuel Carrère – l’opera propone un affresco della Russia post-sovietica. Delineando l’ascesa di Vladimir Putin attraverso gli occhi del suo consigliere occulto, un “Rasputin moderno” interpretato da un sottilmente minaccioso Paul Dano. Artefice del successo politico di un giovane agente del KGB, Putin è invece impersonato da un luciferino Jude Law. La cui freddezza scenica domina lo schermo.

        Il film si dipana lungo oltre trent’anni di storia russa (1990–2014), saldando eventi reali – il disastro del sottomarino Kursk. Le guerre in Cecenia, l’annessione della Crimea, le operazioni digitali nei confronti dell’Occidente – con la finzione disincantata del romanzo.

        Jude Law ha affrontato il ruolo con una preparazione quasi ossessiva. Al Lido ha raccontato di essere scivolato in un “rabbit hole” di video e interviste di Putin, cercando di catturarne l’imperscrutabilità. “Il volto pubblico non rivela nulla”, ha spiegato, e proprio in quel contrasto ha costruito la verità della sua performance. Law ha voluto evitare una maschera o una parrucca esasperata. Il look si è risolto con un trucco sobrio e un accento misurato, per lasciare parlare l’unica cosa che conta: la fredda ambizione di un dittatore.

        Paul Dano, nel ruolo di Vadim Baranov (ispirato a Vladislav Surkov), domina con una presenza rarefatta, una voce sommessa e una determinazione disturbante. Critici come Jonathan Romney hanno evidenziato come il suo interpretazione sembri ipnotica e ambigua. Ma la sua figura resta il centro morale e tematico del film: l’architetto silenzioso del regime.

        La regia di Assayas mantiene un registro elegante e articolato, valorizzando i luoghi simbolo della transizione russa. Dalla Russia devastata dei primi anni Novanta fino a una modernità distopica, passando per i palazzi del potere, le foreste, gli ambienti tecnologici e le città devastate. È una geografia del controllo, così come il film narra “politica come arte”: astuta, sfuggente, inquietante.

        La ricezione al Festival è stata intensa. Law è stato accolto da una standing ovation di dieci minuti, suggellando il suo ritratto magnetico e inquietante. Alicia Vikander, nel ruolo di Ksenia, figura femminile che incarna emancipazione e cambiamento. Ha definito la sua parte uno specchio della Russia post-comunista: una donna in trasformazione, fragile e speranzosa.

        Ma per alcuni, il film paga il suo ambizioso impianto narrativo con una densità di dialoghi e una voce off troppo invadente, che rende la visione più documentaristica che romanzesca. La freddezza stilistica, per alcuni critici, limita lo sviluppo emotivo dei personaggi, con Baranov e il suo potere che restano più archetipi che esseri umani complessi.

        In conferenza stampa, Assayas ha sottolineato che il suo film non vuole essere una biografia di Putin, ma un avviso: «È una riflessione su cosa è diventata la politica oggi. Abbiamo preso Putin, ma si applica a tanti leader autoritari».

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          Cinema

          Sophie Codegoni all’assalto di Jacob Elordi a Venezia: “Dal vivo è ancora più bono”. Lui fugge

          Scene da cinepanettone alla Mostra del Cinema: l’influencer tenta di abbordare la star di “Euphoria” tra flash e urla, ma Elordi preferisce scappare. A rincarare la dose ci pensa l’amica: “Sposami!”.

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            Non bastavano i red carpet, le première e i party blindatissimi. A Venezia 82 si è consumata anche una parentesi comico-grottesca con protagonista Sophie Codegoni. L’influencer, ex gieffina ed ex fiamma di Alessandro Basciano, ha tentato la mossa disperata: avvicinare Jacob Elordi, il bel tenebroso di Euphoria e Priscilla.

            Missione impossibile. Tra flash, bodyguard e un’orda di fan urlanti, Sophie si è letteralmente accalcata per strappare un contatto con l’attore. «Dal vivo è ancora più bono», ha gridato davanti a telecamere e smartphone. Elordi, impeccabile nel completo scuro, ha fatto quello che in tanti avrebbero sognato di fare: girarsi dall’altra parte e allontanarsi senza pensarci due volte.

            Come se non bastasse, a peggiorare la scena ci ha pensato l’amica di Sophie: a pieni polmoni ha chiesto a Elordi di sposarla. Risultato? Una fuga degna di un film d’azione: la star si dilegua, l’influencer resta lì a raccogliere applausi sarcastici e qualche meme già pronto per i social.

            Insomma, momenti di pura demenzialità sulla Laguna. Sophie Codegoni voleva la favola romantica, ma a Venezia ha messo in scena una commedia involontaria che neanche i Vanzina.

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              Cinema

              Scarlett Johansson: “A Hollywood mi hanno sessualizzata troppo presto. A 18 anni ero appena una ragazza”

              L’attrice si confessa al podcast Table for Two: «Con Lost in Translation e La ragazza con l’orecchino di perla avevo solo 18 anni, stavo scoprendo me stessa. Mi sono sentita costretta a diventare un’attrice bon ton per via degli uomini».

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                Hollywood l’ha consacrata giovanissima, ma a caro prezzo. Scarlett Johansson, oggi 40enne e madre di due figli, è tornata a parlare dei suoi primi anni da attrice e della sensazione di essere stata etichettata troppo in fretta come un’icona sexy. Nel podcast Table for Two, la star ha ricordato l’impatto devastante dei suoi primi ruoli da protagonista: Lost in Translation di Sofia Coppola e La ragazza con l’orecchino di perla di Peter Webber.

                «Ho fatto quei film quando avevo 18 o 19 anni – racconta –. Stavo appena scoprendo la mia femminilità, i miei desideri, la mia sessualità. E invece mi sentivo già costretta in un ruolo ipersessualizzato. In un certo senso, come se dovessi diventare un’attrice bon ton per via degli uomini».

                Due pellicole d’autore che avrebbero dovuto aprire ogni strada, ma che finirono per incasellarla nello stereotipo della “giovane seduttrice”, un’immagine che l’ha accompagnata per anni, complicando la possibilità di essere scelta per parti più sfaccettate.

                «È stato difficile liberarsi di quella etichetta – spiega ancora Johansson –. Per molto tempo mi sono portata addosso il peso di un’immagine che non coincideva con la mia realtà personale. Solo più avanti, con ruoli diversi e con la maturità, ho iniziato a trovare davvero la mia voce».

                Un’ammissione che getta luce su un meccanismo antico quanto lo star system: il bisogno di confezionare “icone sexy” anche a costo di bruciare la complessità delle persone dietro ai personaggi. Scarlett, che negli anni ha conquistato credibilità sia come attrice drammatica che come eroina action della Marvel, oggi può dirlo senza esitazioni.

                «Da ragazza mi sono sentita ridotta a un corpo – conclude –. Oggi so che il mio lavoro è molto di più. Ma per arrivarci, ho dovuto combattere».

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