Cinema
Sigourney Weaver: “Alien: Pianeta Terra mi spaventa, non riesco a guardarlo da sola”
L’iconica interprete di Ellen Ripley racconta il suo rapporto con il nuovo spin-off televisivo firmato Noah Hawley. Tra elogi al cast e al regista, e la paura ancora viva di fronte agli Xenomorfi che l’hanno resa leggenda.
Sigourney Weaver, volto simbolo della saga Alien, ha confessato di essere rimasta profondamente colpita – e spaventata – dal nuovo spin-off televisivo Alien: Pianeta Terra. L’attrice, che con il personaggio di Ellen Ripley ha rivoluzionato il cinema fantascientifico a partire dal 1979, si trova oggi dall’altra parte dello schermo: da protagonista a spettatrice, con la stessa inquietudine del pubblico comune.
“Lo sto guardando come una persona normale”, ha raccontato in una recente intervista. “Non riesco a farlo da sola: devo fissare un appuntamento con mio marito perché temo che una di quelle creature esca dallo schermo. Sono indietro con la visione, ma quello che ho visto finora è davvero affascinante”.
Noah Hawley e la nuova visione di Alien
La serie, creata da Noah Hawley – già autore della pluripremiata Fargo – rappresenta un’interpretazione inedita del franchise. Weaver non ha nascosto la sua ammirazione per l’approccio del regista e sceneggiatore: “Conoscevo e stimavo il suo lavoro su Fargo, e mi chiedevo cosa avrebbe fatto con l’universo di Alien. Quello che trovo straordinario è che non si concentra solo sugli Xenomorfi. Racconta il mondo come sarà tra cento anni: parla di avidità, di come la società potrebbe evolversi, delle priorità che avremo. Ha ampliato temi che sono sempre stati presenti nella saga, portandoli a una scala ancora più grande. Ed è recitata e realizzata in modo magnifico. Fatico a credere che sia una produzione televisiva”.
Nel cast spicca Sydney Chandler, già apprezzata in Don’t Worry Darling e qui chiamata a confrontarsi con un immaginario tanto carico di aspettative quanto temibile.
Ripley, un’eroina senza tempo
Il confronto con la serie è inevitabilmente segnato dalla storia di Weaver stessa. La sua interpretazione di Ellen Ripley in Alien (1979) di Ridley Scott rivoluzionò la rappresentazione femminile nel cinema di genere, trasformando un ruolo inizialmente secondario in un’eroina iconica.
Ripley tornò poi nei successivi tre capitoli principali della saga: Aliens – Scontro finale (1986) di James Cameron, Alien³ (1992) di David Fincher e Alien – La clonazione (1997) di Jean-Pierre Jeunet. Una presenza così forte da estendersi oltre il cinema, con il personaggio apparso in fumetti, videogiochi e romanzi ufficiali.
Il legame tra l’attrice e la creatura di H.R. Giger rimane intatto. “Quegli esseri continuano a terrorizzarmi”, ha ammesso Weaver, confermando come lo Xenomorfo resti una delle icone più disturbanti mai create.
Il futuro della saga
Con Alien: Pianeta Terra, il franchise vive una nuova stagione che mescola fantascienza, horror e riflessione sul destino dell’umanità. Weaver, pur non essendo coinvolta direttamente, resta la sua spettatrice più esigente e sincera.
E se anche la “madre” di Ripley non riesce a guardare lo show senza compagnia, significa che la forza perturbante degli Xenomorfi è rimasta intatta, capace di attraversare generazioni e linguaggi senza perdere la sua presa sul pubblico.
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Cinema
I dieci film di Halloween più belli di sempre: tra cult immortali e brividi d’autore, la notte delle streghe va in scena
Non serve attendere la mezzanotte per rabbrividire: basta un divano, una coperta e la giusta maratona di film. Dieci titoli perfetti per chi ama l’horror, ma anche per chi cerca solo un po’ di magia nera in alta definizione.
Cominciare da Halloween di John Carpenter (1978) è quasi obbligatorio. Il respiro di Michael Myers, la colonna sonora ipnotica, la notte infinita di Haddonfield: il film che ha inventato l’horror moderno. Poi The Exorcist (1973), con la sua tensione metafisica e la bambina posseduta che ancora oggi non perde potenza. Insieme, rappresentano il lato sacro e profano della paura.
E per chi vuole la perfezione estetica, The Shining di Stanley Kubrick (1980) resta un incubo da museo: corridoi, labirinti e una follia che cresce piano, fino a divorare tutto.
L’incubo che fa sorridere
C’è anche un Halloween più giocoso, ma non meno iconico. Beetlejuice (1988) e The Nightmare Before Christmas (1993) portano la firma di Tim Burton, che ha trasformato il gotico in poesia pop. Fantasmi innamorati, zucche cantanti e atmosfere dark fiabesche che si guardano con un bicchiere di vino in mano, non con gli occhi chiusi. Hocus Pocus (1993) aggiunge la nota ironica: streghe, scope e risate per chi vuole festeggiare senza traumi.
Il brivido d’autore
Negli anni Duemila la paura si è fatta più intima. The Babadook (2014) è l’esempio perfetto: un film che non fa solo paura, ma parla di dolore, lutto e amore. In chiave opposta, Sweeney Todd (2007) di Tim Burton — ancora lui — mescola musical, sangue e vendetta con eleganza teatrale. E per chi ama i miti, Nosferatu (1922) è la radice di tutto: il vampiro silenzioso che ha ispirato un secolo di cinema.
La notte perfetta
Dieci film, dieci modi diversi di vivere Halloween. Dall’orrore puro alla favola macabra, dal gotico espressionista al rock del barbiere di Fleet Street. Perché la paura, quando è raccontata bene, non serve a fuggire ma a restare incantati.
E nella notte del 31 ottobre, sotto la luce tremolante delle candele, il vero brivido è quello che accompagna il primo fotogramma: quando il buio dello schermo somiglia un po’ troppo a quello fuori dalla finestra.
Cinema
Eva Murati, la prima attrice italiana creata con l’intelligenza artificiale: debutta sul red carpet di Roma e parla ai giornalisti
Occhi magnetici, sorriso perfetto e voce sintetizzata: Eva Murati è la prima attrice italiana interamente generata con l’intelligenza artificiale. Il progetto, sostenuto da EDI Effetti Digitali Italiani, esplora il confine tra creatività umana e tecnologia.
Ha calcato il red carpet come una star consumata, sorridendo ai flash e concedendo interviste come se fosse nata per questo. Ma Eva Murati, protagonista del cortometraggio The Last Image, non esiste. O meglio: non esiste in carne e ossa. È la prima attrice italiana interamente generata con l’intelligenza artificiale, una creazione che segna un nuovo capitolo nel rapporto tra cinema e tecnologia.

Dietro di lei c’è HAI – Human & Artificial Imagination, il laboratorio creativo che ha realizzato il progetto con il supporto di EDI Effetti Digitali Italiani, una delle aziende leader europee nel campo dei visual effects.
Il cortometraggio, diretto da Frankie Caradonna e prodotto da Film Affair, è il primo esperimento nazionale in cui l’intelligenza artificiale è coinvolta in tutte le fasi: scrittura, fotografia, montaggio e post-produzione. Ma non per sostituire l’uomo — per affiancarlo.

Sul tappeto rosso della Festa del Cinema di Roma, Eva Murati si è comportata come una vera interprete: ha rilasciato dichiarazioni ai giornalisti («Sono felice di essere a Roma, città della Dolce Vita, film preferito di mia nonna») e ha posato per i fotografi con un’eleganza quasi inquietante nella sua perfezione. Un esercizio di stile che lascia intravedere il futuro del cinema digitale.




The Last Image racconta un mondo prossimo al collasso, dove le immagini diventano l’ultimo ricordo dell’umanità. Un tema che dialoga con la stessa esistenza della sua protagonista, nata da un algoritmo ma modellata da mani umane. Oltre cinquanta professionisti — sceneggiatori, artisti visivi, tecnici e programmatori — hanno lavorato fianco a fianco con le macchine, dimostrando che la creatività artificiale può essere uno strumento, non un rivale.
Il risultato è un cortometraggio che interroga, più che stupire: quanto è reale ciò che ci emoziona? E quanto siamo pronti ad accettare un volto sintetico sullo schermo, se riesce a farci sentire qualcosa di autentico?
Cinema
Johnny Depp e Tim Burton: l’amicizia che ha resistito al dolore
Durante le riprese di Sweeney Todd nel 2007, la figlia di Depp, Lily-Rose, si ammalò gravemente. Il regista interruppe la produzione per stargli accanto. Oggi, una docuserie racconta quell’episodio che ha cementato un legame umano oltre il set.
Johnny Depp e Tim Burton condividono da oltre trent’anni uno dei sodalizi più affascinanti del cinema contemporaneo. Ma dietro le atmosfere gotiche e visionarie dei loro film, si nasconde una storia di amicizia profonda, segnata anche dal dolore.
A raccontarla è Depp nella docuserie in quattro parti Tim Burton: Life in the Line, diretta dalla regista Tara Wood, che esplora la carriera e l’universo creativo del cineasta americano.
Nel terzo episodio, l’attore ricorda il 2007, anno in cui la sua vita si fermò bruscamente. Durante le riprese di Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, sua figlia Lily-Rose — allora di appena sette anni, nata dalla relazione con Vanessa Paradis — fu colpita da una grave infezione da Escherichia coli che compromise i reni, costringendola alla dialisi.
“Tim ha fatto enormi sacrifici durante Sweeney,” racconta Depp. “Lo consideravo già parte della famiglia. Quando gli dissi che dovevo lasciare il film, lui mi fermò subito: ‘Non dirlo nemmeno, amico. Troveremo un modo’.”
La produzione si fermò per quasi un mese. “Siamo rimasti in ospedale più di tre settimane,” ricorda l’attore. “Tim venne a trovarci il giorno dopo la telefonata, portando fiori. Si comportò da vero zio, da padrino amorevole. Non lo dimenticherò mai.”
Derek Frey, storico produttore di Burton, conferma l’episodio nella docuserie: “La malattia di Lily-Rose cambiò l’atmosfera sul set. Era un film oscuro, e Johnny stava vivendo il suo personale incubo. Credo che quel dolore autentico abbia influenzato la sua interpretazione.”
Fortunatamente, la storia ha avuto un lieto fine. Lily-Rose Depp si è completamente ristabilita e oggi, a 26 anni, è un volto emergente del cinema. Dopo il successo della serie The Idol, sarà tra le protagoniste del nuovo Nosferatu di Robert Eggers, in uscita nel 2025.
“Quell’esperienza ci ha segnati per sempre,” ha dichiarato Depp. “Tim è rimasto vicino a me quando tutto sembrava crollare. Da allora, ogni film con lui è anche un atto di gratitudine.”
La docuserie, che include interviste a Helena Bonham Carter, Danny Elfman e Michael Keaton, mostra un Tim Burton più umano che mai — e un Johnny Depp finalmente disposto a ricordare che, dietro il mito, c’è un uomo che ha imparato a sopravvivere anche grazie all’amicizia.
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