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Spettacolo

Francesca Michielin: «Festeggio due anni di cicatrici. Il dolore mi ha resa più coraggiosa»

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    Due anni fa, Francesca Michielin affrontava uno dei momenti più difficili della sua vita: una nefrectomia, l’asportazione di un rene. L’artista, scoperta da X Factor, non ha mai voluto entrare nei dettagli medici, ma nel 2024, in un’intervista a Vanity Fair, aveva parlato di un serio «problema fisico» che le cure non erano riuscite a risolvere. «Ho dovuto fare un intervento abbastanza invasivo perché non avevo alternative», aveva detto. Una scelta che l’aveva costretta ad annullare il tour autunnale e a fermarsi.

    Oggi, a distanza di due anni, Francesca Michielin ha scelto di raccontare la sua “rinascita” con un post su Instagram: «Oggi festeggio i due anni delle mie cuciture», ha scritto, condividendo immagini e video dei suoi ultimi ventiquattro mesi. Parole cariche di gratitudine e di lucida sincerità: «Non avrei mai immaginato che mi avrebbero tolto un pezzo, ma dicono che quel pezzo rappresenti la paura di non farcela ed effettivamente ora che non ce l’ho più qualcosa è cambiato».

    La cantante descrive un percorso fatto di dolore fisico e trasformazioni: «Ho visto il mio corpo cambiare, dimagrire, gonfiarsi, patire fitte allucinanti, riacquisire muscolatura e poi perdere di nuovo tono, accettare l’imperfezione e ritornare ogni giorno un centimetro più forte». Non una narrazione edulcorata, ma un invito a guardare in faccia la fragilità.

    «Ho imparato che volere una vita in cui non esiste mai il dolore è impossibile. La nostra società vorrebbe che fossimo sempre felici, prestanti e in forma, ma il dolore è parte della crescita, e mi permetto di dire anche della musica e dell’arte», aggiunge. Un insegnamento maturato sulla propria pelle, trasformato in un nuovo modo di vivere e di scrivere.

    Oggi Francesca Michielin si dice «più coraggiosa e consapevole», forse un po’ “impazzita” come le dicono, ma capace di vedere la bellezza anche nelle cicatrici. Trofei silenziosi di una battaglia vinta.

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      Televisione

      «Parrucchiere gay cercasi»: Uno Mattina finisce nel tritacarne dei pregiudizi

      Un annuncio discriminatorio in Abruzzo scatena un acceso dibattito in studio su Rai 1. Tra stereotipi, “radar per riconoscere i gay” e scuse che non bastano: sui social esplode la polemica.

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      «Parrucchiere gay cercasi»: Uno Mattina finisce nel tritacarne dei pregiudizi

        Un piccolo annuncio su Facebook, poi la discussione in diretta su Rai 1. È bastato un cartello: “Parrucchiere gay cercasi” — un salone di Montesilvano, in provincia di Pescara, ha pubblicato un’offerta di lavoro riservata esplicitamente a persone gay, suscitando subito reazioni.

        I giorni successivi all’annuncio, il messaggio è stato rimosso, ma il dibattito ha trovato nuova vita nello studio di Uno Mattina in Famiglia. La conduttrice Ingrid Muccitelli ha aperto il confronto chiedendo agli ospiti come Concita Borrelli e Alessandro Cecchi Paone se un parrucchiere gay possieda per forza più manualità, sensibilità o charme rispetto a uno eterosessuale.

        Le reazioni in studio

        Concita Borrelli ha risposto che «detto così mi fa i brividi», dicendo di non considerare l’orientamento sessuale una categoria professionale. Tuttavia, ha aggiunto che ha notato una maggiore predisposizione estetica tra le persone omosessuali e che il senso estetico. La sensibilità verso il bello siano tratti spesso associati nella percezione comune.

        La domanda che ha acceso maggiormente il dibattito è stata: «Ma il gay, come si riconosce?». Borrelli ha risposto: «Si riconosce, dai… usciamo da tutte le ipocrisie. Io ho i radar». Più precisamente: “basta un gesto, una parola, un ammiccamento della bocca, si vede…”

        Cecchi Paone ha preso una posizione più cauta: ha detto che, pur comprendendo la domanda provocatoria, non è possibile stabilire un metodo affidabile per riconoscere una persona gay. Ha messo in guardia sul rischio che tali affermazioni alimentino stereotipi dannosi, specialmente per chi vive in ambienti piccoli o più conservatori. Ha sottolineato che esistono soldati, camionisti e professionisti in settori tradizionalmente “maschili” che sono omosessuali, segno che l’orientamento sessuale non definisce la professione.

        Critiche esterne e richieste di intervento

        Le frasi pronunciate in diretta hanno subito generato scalpore sui social. Esponenti di organizzazioni per i diritti civili, il sindacato dei giornalisti (Usigrai) e la Commissione Pari Opportunità della Rai hanno denunciato che quelle affermazioni siano «una sequela di stereotipi e luoghi comuni».

        Il consigliere del CdA della Rai, Roberto Natale, ha definito alcune battute «indegne del servizio pubblico». Ha rimarcato che il contratto di servizio e il codice etico della Rai richiedono tutela delle minoranze e rispetto nella comunicazione, anche nelle trasmissioni “di intrattenimento”.

        Contesto e implicazioni

        L’episodio riflette questioni più ampie: il confine tra libertà di espressione e responsabilità mediatica. Il ruolo del servizio pubblico nel prevenire discriminazioni non esplicite, la difficoltà di superare stereotipi anche involontari nel linguaggio comune.

        Non è il primo caso in cui annunci di lavoro specificano criteri legati all’orientamento sessuale: la legge italiana vieta discriminazioni basate su identità di genere o orientamento sessuale, ma l’applicazione pratica resta complessa quando si tratta di “preferenze” che si giustificano con stereotipi (sensibilità, manualità, empatia).

        Il dibattito sollevato a Uno Mattina in Famiglia non è solo “rissa da social”. Mette in evidenza come certi stereotipi — che sembravano superati — siano ancora ben radicati e pronti a riaffiorare, anche in contesti che si credono più consapevoli.

        Parlare di “radar per riconoscere i gay” non è neutralità: è riaffermare che vi sia qualcosa da “indovinare”, da etichettare, anziché accettare la complessità dell’identità umana.

        Il pubblico servizio radiotelevisivo ha il dovere di educare anche attraverso le parole, non solo con i palinsesti. E questo scontro dimostra quanto sia necessaria una riflessione seria sul linguaggio, sui cliché quotidiani, sulle differenze tra desiderio di inclusione e perpetuazione di etichette.

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          Personaggi e interviste

          Enrica Bonaccorti: “Ho un tumore. Non farò più lo struzzo, voglio volare di nuovo”

          In una foto in sedia a rotelle, accompagnata dalla figlia Verdiana, la Bonaccorti annuncia di aver iniziato la sua battaglia più difficile. “Mi sono bloccata nell’assenza, come se il mio non esserci facesse sparire ciò che invece c’è. Adesso voglio affrontare tutto con coraggio”.

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            «Mi scuso con tutti, fino a oggi mi sono bloccata nell’assenza. Ma ora non farò più lo struzzo, ho voglia di volare di nuovo». Con queste parole, Enrica Bonaccorti ha scelto di rompere il silenzio e di condividere pubblicamente la notizia della sua malattia. La conduttrice, 74 anni, ha rivelato sui social di avere un tumore e di essersi ritirata dalla scena da quattro mesi, incapace di parlare anche con gli amici più cari.

            Nel post, accompagnato da una foto che la ritrae in sedia a rotelle mentre la figlia Verdiana la accompagna in ospedale, scrive: «È da tanto che non ci sentiamo e non ci vediamo, né qui né in televisione. Sono quattro mesi che mi sono nascosta, come se il mio non esserci facesse scomparire ciò che invece c’è». Un messaggio intimo, pieno di fragilità e di forza insieme, che ha subito commosso colleghi e fan.

            Bonaccorti non ha specificato la natura del tumore, ma ha spiegato di aver deciso solo ora di rendere pubblica la sua condizione, dopo un lungo periodo di paura e di silenzio. «Avevo sempre detto che, se mi fosse capitata la stessa cosa di Eleonora, non sarei stata capace di affrontarla come lei». Il riferimento è a Eleonora Giorgi, scomparsa a gennaio dopo aver combattuto con straordinaria dignità contro un cancro al pancreas.

            Oggi, la conduttrice e autrice, volto amatissimo della televisione italiana dagli anni Ottanta in poi, ha deciso di non nascondersi più. «Siamo all’inizio — ha aggiunto — ma ora che sono riuscita a dirvelo mi sento già più forte». Parole che suonano come un atto di liberazione, la scelta di affrontare la malattia senza più paura né vergogna.

            Il suo messaggio, sincero e privo di retorica, è diventato in poche ore virale. Tantissimi i messaggi di sostegno da parte del pubblico e del mondo dello spettacolo, che si è stretto intorno a lei. «Non farò più lo struzzo — ha concluso —, ora ho voglia di volare di nuovo insieme a voi». Una frase che racchiude tutta la sua determinazione: fragile, ma pronta a ripartire.

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              Cinema

              Mel Gibson nei guai per i dazi di Trump sui film girati all’estero: “La Passione di Cristo 2” rischia di affondare

              La misura minaccia Cinecittà e le coproduzioni internazionali. Il regista australiano, già isolato da Hollywood, si è auto-finanziato il film, ma ora potrebbe chiedere a Trump un’esenzione “salvifica”.

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                Donald Trump dichiara guerra al cinema globale. Con un post su Truth Social, il presidente ha annunciato un dazio del 100% su tutti i film girati fuori dagli Stati Uniti. L’obiettivo dichiarato è “riportare la produzione a casa e rilanciare l’industria americana”. Ma la decisione rischia di trasformarsi in un boomerang politico e culturale, colpendo anche i suoi amici più fedeli.

                Tra questi c’è Mel Gibson, da sempre vicino alla destra conservatrice americana. Il regista australiano naturalizzato statunitense è alle prese con La Passione di Cristo – Resurrezione, il sequel del suo kolossal del 2004. Le riprese si svolgono tra Roma, Matera, Israele e il Marocco, e l’imposizione del dazio del 100% potrebbe pesare come un macigno sulla distribuzione americana del film, che già è costato oltre 150 milioni di dollari.

                Gibson, considerato un paria da Hollywood dopo le polemiche sul suo passato, ha deciso di finanziare il progetto con risorse personali. Ma ora il suo destino dipende proprio da quell’amico che più di tutti dice di voler difendere l’arte e la fede. “La nostra industria cinematografica è stata rubata da altri Paesi come rubare caramelle a un bambino”, ha scritto Trump. “Pertanto imporrò un dazio del 100% su tutti i film girati al di fuori degli Stati Uniti. Make America Great Again!”.

                La decisione, se confermata, colpirebbe anche Cinecittà e i grandi set europei, che negli ultimi anni hanno accolto produzioni internazionali. Secondo gli esperti, la tassa renderebbe proibitivi i costi per i film girati in Italia, Francia o Regno Unito, scoraggiando gli investimenti di Hollywood nel Vecchio Continente.

                Non solo Gibson. Anche registi come Christopher Nolan, impegnato nel kolossal Odyssey tra Grecia, Sicilia e Regno Unito, rischiano di vedersi applicare la nuova tariffa. Un provvedimento che, in ultima analisi, finirà per penalizzare gli spettatori, chiamati a pagare prezzi più alti per biglietti e streaming.

                Mel Gibson spera ora in un’esenzione personale: un gesto politico che, nel linguaggio di Trump, potrebbe valere come un miracolo. Nel frattempo, il regista prosegue le riprese tra Gerusalemme e Roma, portando sulle spalle la sua croce più pesante: un film religioso, bloccato dai peccati della politica.

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