Spettacolo
Lino Banfi sindaco per un giorno: “Casa vostra, ma lasciatemi lavorare!”
Il celebre nonno d’Italia, nominato da Papa Francesco, ha indossato la fascia tricolore e presieduto una riunione di giunta nella sua città natale. Tra battute, luminarie dedicate e un invito del sindaco per la promozione del territorio, Banfi ha dimostrato ancora una volta il suo amore per Canosa, chiudendo la giornata con un augurio pubblico per il nuovo anno.
Lino Banfi, con il suo inconfondibile sorriso, ha indossato la fascia tricolore e si è calato nei panni di sindaco per un giorno a Canosa di Puglia, la città in cui è cresciuto. Un evento simbolico, ma emozionante, che ha portato l’88enne attore a rivivere il legame con il suo territorio, dimostrando ancora una volta il suo spirito generoso e ironico.
“Casa vostra”, ha scherzato Banfi accogliendo il sindaco in carica, Vito Malcangio, che ha dovuto chiedere permesso per entrare nel proprio ufficio. “Lino Banfi è Canosa e Canosa è Lino Banfi”, ha dichiarato Malcangio, sottolineando il rapporto indissolubile tra l’attore e la città.
Seduto comodo nella poltrona del primo cittadino, Banfi non si è limitato a fare presenza: ha partecipato a una riunione di giunta, affrontando temi legati alla promozione del territorio e alle problematiche locali. Non sono mancati i momenti di convivialità con i dirigenti comunali e alcuni cittadini che hanno voluto confidargli le loro difficoltà. Per un giorno, il celebre attore ha assunto il ruolo di mediatore e ascoltatore, con l’entusiasmo e l’empatia che lo contraddistinguono.
A Canosa, l’affetto per Lino Banfi è palpabile. Le luminarie natalizie di quest’anno sono un omaggio alla sua carriera, con citazioni iconiche tratte dai suoi film. E lui, in risposta, ha promesso di rafforzare ulteriormente il suo impegno per la città. “Magari questa potrebbe diventare la scenografia delle mie prossime serie o film”, ha detto Banfi, lasciando intravedere possibilità per nuovi progetti artistici.
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Personaggi e interviste
Virginia Raffaele replica a Belen Rodriguez: “La mia imitazione non era volgare. Le offese sono altre”
Botta e risposta nel mondo dello spettacolo tra Belen Rodriguez e Virginia Raffaele. Dopo le critiche della showgirl argentina, che aveva definito “volgarotta” la sua imitazione, la comica ha replicato con calma: “Credo di non aver offeso nessuno, le offese sono altre”. Poi la citazione di Chaplin: “Quando un personaggio viene imitato vuol dire che è veramente grande”.
Virginia Raffaele ha scelto la via dell’ironia per rispondere alle accuse di Belen Rodriguez, che in un’intervista aveva definito “volgarotta” la sua imitazione. Una polemica scoppiata dopo l’ultima apparizione della comica, che aveva portato sul palco una versione esagerata e autoironica della showgirl argentina, suscitando risate e qualche malumore.
“Credo di non aver offeso nessuno, le offese sono altre”, ha dichiarato la Raffaele, mettendo fine alle polemiche con il tono elegante e misurato che da sempre la contraddistingue. Nessuna frecciata, solo una riflessione sul senso stesso dell’imitazione, che secondo lei deve essere sempre “un gioco di specchi, mai una caricatura cattiva”.
La comica ha poi voluto citare Charlie Chaplin, ricordando le sue parole: “Quando un personaggio viene imitato vuol dire che è veramente grande”. Un omaggio all’arte dell’imitazione, ma anche un messaggio indiretto a Belen, che nel corso degli anni è diventata a tutti gli effetti un’icona della tv italiana.
Nel frattempo, sui social, i fan si sono schierati in massa con Virginia, sottolineando la leggerezza e l’intelligenza delle sue parole. “Non c’è volgarità nel talento, solo in chi non sa riconoscerlo”, ha scritto qualcuno.
La Raffaele, dal canto suo, sembra intenzionata a chiudere qui la vicenda: nessun rancore, solo la consapevolezza che ogni imitazione, quando è fatta con rispetto, è un tributo più che una presa in giro. E con la sua solita classe, riesce ancora una volta a trasformare una polemica in una lezione di stile.
Musica
Sanremo 2026, cast dimezzato e nostalgia alle stelle: tra crollo degli ascolti e polemiche social il Festival cambia pelle
Spotify segna un crollo del 45% sugli ascoltatori mensili e le certificazioni si dimezzano. Una linea più di nicchia accende critiche e timori: per molti Sanremo rischia di somigliare a un talent, mentre cresce il coro che invoca il ritorno di Amadeus.
Sanremo 2026 si presenta con un cast che non divide: spacca in due. La prima edizione dell’era Carlo Conti dopo il regno amadeusiano arriva con un paradosso evidente. Da una parte i 30 artisti scelti rappresentano un cambio di rotta netto, quasi una reazione al modello “all-star” costruito negli ultimi anni. Dall’altra, i numeri raccontano un ridimensionamento mai visto: gli ascoltatori mensili complessivi su Spotify crollano a 29,4 milioni, quasi la metà rispetto ai 52,8 del 2025. Anche le certificazioni confermano il trend: 330 dischi di platino contro i 695 dello scorso anno. È un ritorno ai livelli del 2022 e del 2023, quando Sanremo era meno dominato dallo streaming e più ancorato alla tradizione della scoperta.
Conti sembra voler riportare il Festival allo spirito originario, puntando su artisti più di ricerca che di impatto mediatico. Un gesto quasi controcorrente in un momento in cui le piattaforme digitali dominano il consumo musicale. Ma non tutti la prendono bene. Sui social si parla apertamente di cast “da talent”, di line-up troppo di nicchia, di scelte che non intercettano il grande pubblico. E come riflesso pavloviano arriva la nostalgia: “Ridateci Amadeus”, scrivono in molti, trasformandolo in un’icona pop da liberare da uno scantinato immaginario.
Eppure non manca chi invita alla calma. Enzo Mazza, ceo di FIMI, ricorda che il vero banco di prova sarà lo streaming post-Festival. È lì che si misurerà la forza delle canzoni, non nella popolarità iniziale dei loro interpreti. Negli ultimi anni, brani considerati “minori” alla vigilia sono diventati successi enormi, spesso ribaltando pronostici e gerarchie.
Resta però un dato culturale: per molti italiani il Festival non è solo musica, ma un rituale collettivo, un osservatorio sul Paese. E vedere così pochi nomi “pesanti” in gara alimenta il timore che Sanremo perda centralità, trasformandosi in un trampolino per emergenti più che in una consacrazione per star già affermate. È una paura diffusa, che riflette la trasformazione dell’industria musicale e l’erosione di un immaginario comune.
Ora la responsabilità passa alle canzoni. Se il cast riuscirà a conquistare pubblico e piattaforme con la forza della scrittura e delle interpretazioni, la scelta di Conti apparirà come un gesto coraggioso, non come un passo indietro. Se invece gli streaming post-Festival confermeranno la debolezza dei dati preliminari, la svolta verrà inevitabilmente messa in discussione.
Una cosa però è certa: Sanremo 2026 arriva al pubblico già carico di tensioni, nostalgie e aspettative contrastanti. E mai come quest’anno il verdetto non spetta agli algoritmi, ma all’Ariston.
Televisione
Sandokan vola negli ascolti ma naufraga nel resto: il remake che tradisce Salgari e offende il mito della Tigre della Malesia
Can Yaman inespressivo, Yanez trasformato in una macchietta, personaggi snaturati e sceneggiatura piena di forzature. Il ritorno della Tigre della Malesia, atteso per cinquant’anni, si trasforma in un’operazione senza anima, dove l’estetica batte la sostanza e la magia salgariana evapora.
Il dato nudo e crudo è impressionante: quasi sei milioni di spettatori e uno share che sbriciola la concorrenza. Un trionfo, sulla carta. Ma se si va oltre la curva degli ascolti, il nuovo Sandokan appare per quello che è: un’operazione patinata che somiglia più a una telenovela turca girata sul Tirreno che al capolavoro salgariano amato da generazioni. Le spiagge di Lamezia, bellissime, fanno il loro dovere. Il resto arranca.





Can Yaman, scelto come protagonista, entra in scena con lo stesso entusiasmo di chi deve sostenere un esame senza aver aperto il libro. Bello, sì, instagrammabile anche, ma impacciato, rigido, incapace di restituire un grammo dell’intensità selvaggia del personaggio nato dalla penna di Emilio Salgari. Ci prova con lo sguardo feroce, ma il risultato è una Tigre della Malesia che sembra imitare sé stessa, come un bambino a una recita scolastica.
Non va meglio con Alessandro Preziosi, un Yanez da Gomera trasformato in comico involontario. Faccine, smorfie, battute fuori tempo: il compagno di mille avventure di Sandokan diventa una caricatura, un guizzo sopra le righe che smonta qualsiasi tensione narrativa. Marianna, ribattezzata Lady Maryam, è riscritta in chiave proto-femminista per ragioni che nulla hanno a che fare con il personaggio originale. Tutto è ritoccato, ribaltato, ricalibrato come se Salgari fosse un autore qualunque da aggiornare per compiacere l’algoritmo.
Il risultato è un racconto che non scorre, non vibra, non emoziona. È un lungo tentativo di modernizzare ciò che non andava toccato, con la presunzione tipica di chi crede che basti aggiungere qualche dramma sentimentale e una dose abbondante di CGI per ricreare la magia. Ma Sandokan non è mai stato un esercizio di stile: era un mondo incantato, un’epica dell’avventura, un romanzo da maneggiare in punta di piedi. Qui, invece, i personaggi vengono svuotati, la trama appesantita da trovate discutibili e persino la tigre appare come un pupazzo spaesato.
Il paradosso è che l’impegno produttivo è evidente: mezzi importanti, scenari spettacolari, ambizioni internazionali. Ma quando manca il cuore, tutto il resto diventa accessorio. Il vero problema non è la scelta di un attore turco per interpretare un principe malese; non è neppure la Calabria al posto del Borneo. È il tradimento dell’anima. È l’aver confuso l’omaggio con la riscrittura, l’avventura con il feuilleton, l’incanto con la posa.
A questo punto non resta che arrendersi all’evidenza: Sandokan meritava amore, non un lifting narrativo. Per chi è cresciuto leggendo Salgari, questa non è nostalgia. È delusione pura. E non c’è share che possa salvarla.
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