Cinema
La Disney attraversa un momento di crisi globale. E rischia di finire gambe all’aria
I vertici della Disney non possono rincuorare né azionisti né tanto meno gli appassionati e il pubblico. Hanno ammesso con molta franchezza che nel 2024 non si aspettano una crescita negli abbonamenti a Disney+

Se ne stanno lentamente perdendo le tracce. E hai voglia a catturarlo. Topolino non si trova proprio più da nessuna parte. Questo è un momento delicato per la Disney che vede le proprie azioni cadere di valore di giorno in giorno. Una emorragia davvero imbarazzante secondo molti analisti americani. E non solo.
Una debacle annunciata
D’altra parte i vertici della società non possono rincuorare né azionisti né tanto meno gli appassionati e il pubblico. Hanno ammesso con molta franchezza che purtroppo nel 2024 non si aspettano una crescita negli abbonamenti a Disney+. E la notizia più toccante riguarda lo zoccolo duro della multinazionale. Ovvero i parchi gioco. Nel trimestre in corso il CdA della Disney ha dovuto ammettere che le visite nei parchi a tema da Disneyland a Disney Word compreso Disneyland Paris prevedono ulteriori cali di presenza.
A pesare sulla piattaforma streaming sono le ingenti spese affrontate forse frettolosamente – ma sembra assai strano vista la qualità degli analisti economici che consulta prima di operare sui mercati internazionali – per acquistare i diritti del cricket in India.






Capitalizzazione dimezzata in tre anni
Secondo l’agenzia di stampa economica Bloomberg, in una call con gli investitori il direttore finanziario Hugh Johnston avrebbe confermato che la società non si aspetta di vedere una crescita degli abbonati a Disney+ nel trimestre in corso. La redditività dello streaming – dove ha perso oltre 11 miliardi di dollari – ne risentirà propri a causa delle spese per i diritti del cricket in India.
Disney ha acquistato l’attività in India nel 2019 come parte del suo investimento da 71,3 miliardi di dollari per acquisire la maggior parte della 21st Century Fox dai Murdoch, ritenuto un sovrapprezzo inaccettabile. Oggi la capitalizzazione di Borsa di Disney è crollata a circa 94 dollari per azione, equivalente a 173 miliardi, la metà rispetto ai massimi del 2021 quando il titolo valeva 189 dollari.
L’azienda aveva già perso la proprietà di Topolino, dopo ben 95 anni. Il copyright di questo iconico personaggio è scaduto. Se si sommano le perdite in Borsa, i conflitti politici e gli attacchi sempre più duri dell’investitore (con 3 miliardi di dollari) Nelson Peltz – tramite il fondo Trian – è chiaro che Disney rischia davvero grosso. Nelson prende di mira quella che definisce la strategia cinematografica “woke” della società. Si riferisce ai film Black Panther e The Marvels. Al Financial Times ha espresso le sue critiche verso la leadership del capo della Marvel Kevin Feige e al Ceo della Disney Bob Iger. Peltz mette in dubbio soprattutto la strategia da adottare per il futuro, oltre che la durata della permanenza di Feige sulla sua poltrona.
Topolino non è più lui
Inoltre Peltz sottolinea come l’acquisto del 33% di Hulu da Comcast per 8 miliardi, non saranno sufficienti a recuperare il terreno perduto. Sottolinea inoltre come la rete che trasmette programmi sportivi via cavo ESPN è un altro patrimonio in sofferenza. La sorpresa per l’azienda è stato il lancio di film indipendenti su Topolino, che hanno trasformato il “Magic Kingdom” in un Regno dell’Orrore. Questo mentre in alcuni rifacimenti come “Steamboat Willie“, Topolino appare mentre terrorizza i passeggeri della nave con coltellate mortali. Insomma un disastro anche nei contenuti e scelte creative. Peltz se la prende anche con un altri film come “Micky Mouse Trap“, diretto da Jamie Bailey, i cui si presenta un Topolino che costringe i personaggi a un gioco mortale in un parco divertimenti. Un vero boomerang.
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Cinema
Pretty Woman, il retroscena clamoroso: Richard Gere disse no, Julia Roberts lo convinse con un biglietto
La commedia romantica più amata di sempre rischiava di essere un dramma sociale con un finale amaro. Richard Gere non voleva il ruolo, Julia Roberts non era la prima scelta. Ma poi successe la magia: tra imprevisti, risate vere e giacche comprate per strada, Pretty Woman diventò leggenda.

Pretty Woman è entrato nella storia come il film che ha consacrato Julia Roberts a icona planetaria e ha rilanciato Richard Gere come protagonista romantico per eccellenza. Ma dietro la favola metropolitana da quasi mezzo miliardo di dollari al botteghino, si nasconde un retroscena che in pochi conoscono.
Nella prima versione della sceneggiatura, scritta da J.F. Lawton, il film finiva in tragedia. Vivian veniva abbandonata da Edward e la sua amica Kit moriva di overdose durante una gita a Disneyland. Altro che commedia: un cupissimo dramma sociale, senza lieto fine. Fu solo con l’arrivo della Disney e del regista Garry Marshall che il copione prese una svolta radicale. Si decise di trasformare la storia in una fiaba urbana, con un finale romantico e memorabile.
Anche il casting fu un percorso a ostacoli. Julia Roberts, all’epoca una promessa ancora in ombra, dovette sostenere due audizioni per conquistare il ruolo. I dirigenti Disney volevano nomi più noti: Meg Ryan, Jennifer Connelly, persino Winona Ryder vennero considerate. Tutte rifiutarono, in parte per via del tono iniziale troppo duro del film.
Quanto a Richard Gere, il no fu quasi categorico. L’attore rifiutò più volte il ruolo di Edward, finché Julia non si presentò a New York con un biglietto scritto a mano: “Per favore, dì di sì”. Fu il gesto decisivo. La chimica tra i due, una volta sul set, fece il resto.
Molte delle scene più amate furono improvvisate. La chiusura del portagioie sul dito di Vivian? Inventata sul momento. La risata fragorosa davanti alla TV? Vera, provocata da Marshall che solleticava i piedi di Julia. Anche la celebre giacca rossa fu comprata per strada dai costumisti dopo averla vista indosso a una sconosciuta.
Oggi Pretty Woman è un classico senza tempo. E se un sequel non si farà mai — per volontà del cast e dopo la scomparsa di Garry Marshall — resta intatto il fascino di un film nato da mille imprevisti, ma entrato nel cuore di tutti.
Cinema
“Jurassic World. La rinascita”: dinosauri trumpiani e messicani in fuga. Scarlett spara, il pubblico sorride
Nel nuovo “Jurassic World. La rinascita”, i dinosauri tornano a inseguire umani, i buoni scappano, i cattivi complottano e Scarlett Johansson mena le mani. Ma il vero colpo di scena? Un T. Rex trumpiano che rincorre messicani nel deserto. Esagerato? Sì. Ma lo spettacolo non manca.

Se pensavate che la saga di Jurassic Park avesse già detto tutto, preparatevi al ritorno dei dinosauri con un’agenda politica. Jurassic World. La rinascita è l’ultimo reboot di un franchise che ha più vite di un Velociraptor, diretto dal sobrio Gareth Edwards e scritto da David Koepp, che dopo il primo film del 1993 evidentemente aveva voglia di farsi un regalo nostalgico.
Il film parte con Scarlett Johansson versione mercenaria da palestra, alias Zora, che imbraccia un fucile grande quanto un frigorifero e si lancia in missione accanto a Duncan, interpretato da Mahershala Ali, basco in testa e carisma rilassato. Il compito? Recuperare campioni di sangue da tre dinosauri iper-mutati nascosti su un’isola vietatissima. Classico.
Nel mezzo, un’adorabile famigliola messicana in vacanza (male) si ritrova inseguita da un T. Rex con la faccia – o almeno l’atteggiamento – di Donald Trump. Un’idea sottile come un meteorite, ma che funziona: il D. Rex (Distortus Rex, giuro) irrompe come un politico in campagna elettorale e semina il panico. Ed è qui che il film trova il suo groove: esagerato, caricaturale, senza alcuna intenzione di prendersi sul serio.
I dinosauri, ovviamente, sono i veri protagonisti: alcuni sembrano usciti da una sfilata punk, altri ricordano i vecchi amici di “Gioele” nei caroselli Rai, ma quando entra in scena il T. Rex originale nella palude – sì, proprio lui – tutto si fa più epico. C’è anche un baby-dinosauro che mangia dolcetti e fa amicizia con una bambina: una deriva alla Spielberg degli anni Ottanta che strappa sorrisi.
I dialoghi? Boh. Servono a malapena a tenere insieme le scene. I personaggi? Si reggono sul carisma degli attori, più che sulla scrittura. Ma a salvarci è il ritmo da videogame e l’azione scatenata, tra giungle tropicali, laboratori segreti e una nave cargo che sembra uscita da Skull Island.
Il messaggio di fondo – combattere le multinazionali farmaceutiche assetate di profitti usando dinosauri come cavie – è meno chiaro di quanto sembri, ma chi se ne importa? Quando un T. Rex trumpiano rincorre messicani armati di machete, ogni sottotesto politico passa in secondo piano.
Scarlett ce la mette tutta. I dinosauri fanno il loro dovere. E il pubblico, alla fine, applaude.
E allora? Non sarà il film dell’anno. Ma per due ore di fuga, zanne e assurdità ben piazzate, va più che bene.
Cinema
Kevin Spacey riparte dal cinema europeo: «Perdono chi mi ha giudicato, ma non tornerò a lavorare con loro»
Kevin Spacey torna a parlare pubblicamente in Italia e lo fa con tono pacato ma deciso: «Ho perdonato chi mi ha condannato senza processo, ma non lavorerò più con loro». Dopo l’assoluzione, l’attore è pronto a rimettersi in gioco con tanti nuovi progetti.

Kevin Spacey sta tornando. Dopo sei anni di silenzio forzato e di allontanamento dallo show business, l’attore due volte premio Oscar è apparso sul palco dell’Italian Global Series Festival a Rimini, dove ha ricevuto il Maximo Excellence Award e parlato apertamente del suo percorso umano e professionale, segnato dalle accuse di molestie per le quali è stato completamente assolto.
«Sono entusiasta di tornare a lavorare», ha detto Spacey davanti a una platea calorosa. «Ho tantissime storie da raccontare». Ma l’attore non si è limitato a guardare avanti: ha ripercorso anche il periodo buio della sua vita, sottolineando il valore della gratitudine verso chi gli è rimasto accanto e il distacco definitivo da chi lo ha abbandonato. «Sono pieno di riconoscenza verso coloro che hanno atteso l’esito del processo prima di giudicarmi. Quelle persone hanno la mia fiducia e farò di tutto per mantenerla. Quanto a chi mi ha condannato senza conoscere la verità: li perdono, ma non cercherò mai più una collaborazione con loro».
Spacey ha citato Franco Nero, che nel 2023 lo ha voluto nel film L’uomo che disegnò Dio, come primo a tendere una mano dopo l’esilio hollywoodiano. «Franco ha alzato la testa e ha detto: ‘Kevin, ti voglio nel mio film’. È stato il primo, e ha fatto partire una tendenza. Da allora ho ripreso a lavorare, e non mi sono più fermato».
L’attore ha anche ricordato il recente intervento a Cannes, dove ha ricevuto un riconoscimento alla carriera dal Better World Fund Gala. In quell’occasione aveva dichiarato con sarcasmo: «Chi avrebbe mai detto che omaggiare uno scagionato in tutti i tribunali sarebbe stato considerato un atto di coraggio?». Ora però il tono è diverso, più misurato, quasi zen. «Questa pausa forzata mi ha concesso di riflettere, di rivalutare, di ascoltare. E di capire con chi valga davvero la pena lavorare».
Dopo Johnny Depp, anche Kevin Spacey sceglie l’Europa per il suo ritorno: meno Hollywood, più storie d’autore. Ma con la voglia di ricominciare davvero.
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